Il fine ultimo di chi si occupa del materiale culturale non consiste tanto nel sapere cosa siano, ciascuna per conto proprio, le società su cui si concentrano studi e ricerche, quanto quello di scoprire la maniera in cui differiscono tra loro. Come in linguistica, questi scarti
differenziali sono l'oggetto peculiare dell'etnologia. L'etnografia corrisponde ai primi stadi della ricerca: osservazione e descrizione, lavoro sul campo (field-work). Rispetto all'etnografia, l'etnologia rappresenta un primo passo verso la sintesi: pur senza escludere l'osservazione diretta, essa tende a conclusioni abbastanza estese da rendere difficile fondarle esclusivamente su una conoscenza di prima mano (Leach, 2001). L'etnologia comprende l'etnografia come suo momento preliminare e ne costituisce il prolungamento. Dovunque incontriamo i termini di antropologia sociale o culturale, ci troviamo di fronte a una seconda e ultima tappa della sintesi, che ha per base le conclusioni dell'etnografia e dell'etnologia. Nei paesi anglosassoni, l'antropologia mira ad una conoscenza globale dell'uomo, abbracciando l'argomento in tutta la sua estensione storica e geografica. Etnografia, etnologia e antropologia non costituiscono tre discipline diverse; sono in realtà tre tappe o tre momenti di una stessa ricerca.
Il concetto di cultura è di origine inglese, perché dobbiamo a Tylor di averla definita per la prima volta come: “that complex whole which includes knowledge, belief, art, morals, law, custom, and any other capabilities and habits acquired by man as a menber of society” (Tylor, 2000); essa dunque si riferisce alle caratteristiche differenze esistenti tra uomo e animale, determinando così l'opposizione, rimasta da allora classica, fra natura e cultura. Costumi, credenze, istituzioni, appaiono allora come tecniche fra altre, di natura più propriamente intellettuale, tecniche che sono al servizio della vita sociale e la rendono possibile.
È stato A. R. Radcliffe-Brown (1965) a precisare il significato profondo del termine "antropologia sociale”, quando ha definito l'oggetto delle proprie ricerche nelle relazioni sociali e nella struttura sociale. Non è più l'homo faber a trovarsi in primo piano, ma il gruppo, e il gruppo considerato come gruppo, ossia l'insieme delle forme di comunicazione che fondano la vita sociale (Radcliffe-Brown, 1965). Solo pochi anni dopo che Durkheim ebbe mostrato che bisognava studiare i fatti sociali come cose (che è il punto di vista dell'antropologia culturale), il suo discepolo e nipote Mauss (1950) formulava, contemporaneamente a Malinowski, la teoria complementare che le cose sono a loro volta fatti sociali (che corrisponde alla prospettiva dell'antropologia sociale). Si potrebbe dunque dire che antropologia culturale e antropologia sociale hanno esattamente lo stesso programma, l'una partendo dalle tecniche e dagli oggetti per arrivare a quella supertecnica che è l'attività sociale e politica, che rende possibile e condiziona la vita in società; l'altra, partendo dalla vita sociale per discendere fino alle cose su cui essa imprime il suo segno e sino alle attività attraverso le quali si manifesta.
L'antropologia sociale è nata dalla scoperta che tutti gli aspetti della vita sociale – economico, tecnico, politico, giuridico, estetico, religioso – costituiscono un insieme significativo, e che è impossibile comprendere uno qualunque di tali aspetti senza collocarlo nel suo contesto, fra gli altri. Invece della prospettiva statica che presenta l'insieme del gruppo come una sorta di sistema, l'antropologia culturale aveva una forte tensione alla problematica dinamica di studiare come la cultura viene trasmessa attraverso le generazioni; tale propensione avrebbe condotto la disciplina alla conclusione che il sistema delle relazioni che uniscono fra loro tutti gli aspetti della vita sociale ha una parte più importante, nella trasmissione della cultura, di ognuno di quegli aspetti presi singolarmente. Così gli studi detti di “cultura e personalità” si incontrarono con quelli della struttura sociale derivati da Radcliffe-Brown e, attraverso di lui, da Durkheim; che l'antropologia si dichiari sociale o culturale, essa comunque aspira a conoscere l'uomo totale, considerato nel primo caso in base alle sue produzioni, nel secondo in base alle sue rappresentazioni (Rivière, 1998).
L'antropologo non si limita a far tacere i suoi sentimenti: egli modella nuove categorie mentali, contribuisce a introdurre concetti di spazio e di tempo, di opposizione e di contraddizione, tanto estranei al pensiero tradizionale quanto lo sono quelli che si incontrano oggi in alcune branche delle scienze naturali. L'antropologia si accosta alle scienze umane, in quanto essa si vuole scienza semiologica, situata risolutamente al livello del significato (Barnard, 2002). La seconda ambizione dell'antropologia è la totalità, poiché essa vede, nella vita sociale, un sistema di cui tutti gli aspetti sono organicamente connessi.
Riflessioni epistemologiche
Dalle analisi e riflessioni condotte su principi e pratiche inerenti ai sistemi di cura e psicoterapici di culture “altre”, emerge un insieme di osservazioni che costringono noi occidentali a problematizzare molti dei presupposti teorici e metodologici che assumevamo come dati incontrovertibili. L'etnomedicina, l'antropologia medica e soprattutto l'etnopsichiatria sono nuove discipline che mettono in luce, nell'orizzonte delle scienze mediche e sociali di casa nostra, tracce fin qui obliterate di un implicito relativismo indotto dall'inconsapevole etnocentrismo epistemologico che ha guidato la crescita di tali scienze, crescita ben delimitata entro il circuito di esperienze culturali eurocentriche.
La malattia e il disturbo per noi non hanno significato, sono solo fatti, il “male”, ma nelle comunità di migranti che incontriamo qui , nei servizi e nelle istituzioni, essi si caricano di
significati autonomi che, caso per caso, verranno decodificati (Augé, 2007). A ciascun disturbo, si attribuisce valore e significato sociale, con pertinenze morali, culturali, religiose; la malattia e il disturbo, in molte società da cui provengono i nostri migranti, hanno valore e significato di un richiamo all'ordine sociale, il quale a sua volta promuove una ridefinizione della persona individuale (Augé, Herzlich, 1986). Il confronto con tali tradizioni sapienti mette in evidenza, a scapito della tradizione scientifica medica e sociale in Occidente, come in quest'ultima venga praticamente isolato e distaccato il soggetto dal sociale, venga perfino isolato e spesso arbitrariamente disgiunto il soma dalla psiche, e l'organo dall'organismo. Il principio che fa della malattia un significante incisivamente importante per il soggetto sofferente e per la società nativa che gli sta attorno, ha indotto gli studiosi più attenti a proporre, come decisivo ai fini della conoscenza scientifica, un approccio teorico e metodologico fondato precisamente sulla ricerca dei significati che le comunità locali attribuiscono alle malattie, ai disturbi, agli itinerari terapeutici e ai repertori di cura. È in tal senso che Marc Augé ha fondato la problematica del “senso del male” come base della nuova scienza antropologica, medica ed etnopsichiatrica (Augé, 1986). Tra le società che hanno una lunga tradizione scientifica, si sta recuperando un serio interesse per gli aspetti affettivi, spirituali, irrazionali nei sistemi terapeutici locali delle società tradizionali; è la scoperta della medicina tradizionale come risorsa locale.
Le basi epistemologiche delle scienze sociali non sono sufficienti a spiegare la situazione antropologica della persona; è necessario aggiungere al sapere psicologico una conoscenza socio-antropologica che serva a trasformare l'osservazione clinica in osservazione partecipante. L'insistenza di tanti studiosi su modalità di pensiero inferiore e primitivo sta a dimostrare la comune tendenza a considerare l'evoluzione del pensiero a senso unico, da stadi prelogici primitivi a quelli razionali e scientifici che rappresenterebbero il traguardo indiscusso di una progressione di tappe nel cammino radioso dell'umanità, secondo l'ideologia evoluzionistica del positivismo.