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Essenzialmente, in ogni forma di potere vi è all'inizio l'individuazione del corpo come suo punto di applicazione: ogni potere è fisico, ed esiste sempre una connessione diretta tra il corpo ed il potere politico. Anche la nozione di istituzione sembra celare in sé alcuni nodi irrisolti, alcune ombre: quando si parla di istituzione, si parla ancora e sempre di individui e insieme di collettività, presupponendo come già dati l'individuo, la collettività, e le regole che governano entrambe; diventa facile, quindi, far precipitare tutto quanto avviene all'interno di essa in discorsi di tipo psicologico o sociologico. In realtà, spendere tempo ed energia nell'osservazione partecipante dovrebbe mostrare che la cosa essenziale non è tanto l'istituzione con le sue regolarità, con le sue regole, quanto piuttosto quegli squilibri di potere che distorcono, ma al contempo permettono, il funzionamento regolato e regolare dell'istituzione stessa; è la voce fuori dal coro, è il bimbo che non accetta di essere corpo docile, che disegna un sesso o una casa in fiamme, è il padre che non tace ed acconsente nei gruppi di lavoro, a rendere palesi i meccanismi e le dinamiche di potere che pervadono e costruiscono il nostro campo, di azione, di lavoro, di ricerca. Prima di riferirci alle istituzioni, dobbiamo per forza occuparci dei rapporti di forza sottesi alle disposizioni permanenti che le attraversano e le costruiscono. Nel mondo istituzionale che avvolge e coinvolge genitori e bimbi, italiani e migranti, è - piuttosto facilmente – riconoscibile all'opera quel tipo di potere che Foucault definì “disciplinare”, sostituto e successore storico del potere incentrato sulla sovranità: l'efficacia di questa forma di potere non risiede nel consacrare il potere di qualcuno, concentrandolo in un individuo che abbia un nome ed un volto (il sovrano, ad esempio), bensì nell'assumere come bersaglio i corpi e le persone, resi da questo nuovo potere docili e sottomessi. Il potere disciplinare è discreto, ripartito, è avvolgente (Foucault, 1993); esso funziona solamente attraverso un reticolo di relazioni, e diventa visibile solo mediante la docilità e la sottomissione di coloro sui quali esso si esercita. Obbedienza e disciplina (e si badi bene, pur essendo cosciente dell'effetto che tali nozioni creano sul nostro immaginario, intendo comunque avvalermene per descrivere ciò che ho incontrato in queste istituzioni, ossia un alto grado di asservimento ad un potere, ripeto, discreto ma avvolgente nel suo reticolo di relazioni orizzontali e verticali, misto ed intrecciato ad un atteggiamento di “universalismo disumanizzante” che conferma, all'infinito, la superiorità ontologica ed epistemologica che noi occidentali riconosciamo al nostro sapere, occultandone però la specifica costruzione storica) sembrano caratterizzare, negli intenti più che nella realtà, la serie di rituali

pedagogici imposti dagli uni (gli operatori) sugli altri (i ragazzi): dare ordini, discuterli, osservare delle regole, punire o qualche volta ricompensare, rispondere, tacere. Troviamo, in tale ritualità giornaliera, una sorta di messa in scena in stile giudiziario: emanare una legge, vigilare sulle infrazioni, tollerarne alcune, ottenere confessioni, verificare colpe ed omissioni, emettere una sentenza, imporre una punizione o elargire perdono. Ma anche, contemporaneamente, si assiste nella relazione quotidiana tra adulti e bimbi a qualcosa di molto vicino alla scena medico-psichiatrica: nella parole degli operatori, spesso si ripete l'esigenza di far esplodere alcuni conflitti o crisi, meglio se in un ambiente controllabile ed effettivamente controllato dall'adulto, tentare di cogliere, attraverso l'osservazione, il momento e le dinamiche con cui la crisi si manifesta, favorire in qualche modo il suo compimento, in un modo che sia comunque ascrivibile a quelli conosciuti e pensati dall'adulto, culturalmente accettati ed intesi come modi per “fare uscire la rabbia”, e fare in modo che le forze sane in campo prevalgano su quelle distruttive.

Il potere disciplinare si fonda sulla forza del discorso dei dominanti quanto quello dei dominati, che concorrono, assieme, a perpetuarne dinamiche e intrecci relazionali. Esso si manifesta attraverso una determinata modalità con la quale arriva a toccare i corpi, a fare presa su di essi, ad osservarne e registrarne movimenti, gesti, abitudini, ad addestrarli alla docilità, a rispondere secondo le attese. Come ricorda Foucault, il punto di definitivo compimento del potere disciplinare è il Panopticon di Bentham1, che fornisce esattamente

la sua formula politica e tecnica più generale ed appare nella stessa epoca dello scontro tra la follia del sovrano e la disciplina medica, momento cruciale che permise l'emergere in Occidente del potere disciplinare e dell'esigenza di controllare tipica della società moderna (Foucault, 1998b). Il controllo capillare e la possibilità che esso sia esercitato da una persona (o comunque molto poche) verso una moltitudine garantisce che tale facoltà si 1 Il modello del Panopticon è un meccanismo, uno schema che dà forza ad ogni istituzione, una sorta di congegno per mezzo del quale il potere che funziona o che deve venire esercitato in un'istituzione potrà acquisire il massimo della forza. Il Panopticon è un moltiplicatore, un intensificatore di potere all'interno di tutta una serie di istituzioni; esso ha lo scopo di rendere la forza del potere la più intensa possibile, la sua distribuzione la migliore, il suo bersaglio e punto di applicazione il più esatto. Esso prevede che ciascun corpo abbia il proprio luogo, in un'esatta collocazione spaziale, e che incontri sempre lo sguardo di che sorveglia, in modo che lo sguardo incontri sempre un corpo individuale; la disciplina, così, individualizza dal basso, ossia coloro sui quali si applica. D'altro canto, il potere in sé è completamente disindividualizzato, infatti perché venga esercitato è sufficiente che l'individuo sappia di poter essere osservato. Panopticon significa due cose: da un lato, che tutto è visto, e continuamente, ma, dall'altro, vuol dire anche che tutto il potere che viene esercitato non è altro che un effetto ottico; il potere è privo di materialità, non ha bisogno di quella complessa armatura, simbolica e reale, propria del potere sovrano. Infine, ultimo carattere del panopticon è rappresentato dal fatto che il potere immateriale che si esercita costantemente, è legato ad un costante prelevamento di sapere, ossia che il centro di potere è al contempo un centro di annotazione ininterrotta, di trascrizione puntuale del comportamento individuale. Esso è dunque un apparato al contempo di individualizzazione e di conoscenza, un apparato di sapere e di potere insieme, che da un lato individualizza e dall'altro, attraverso annotazioni, osservazioni, trascrizioni, conosce.

iscriva all'interno di una dinamica di potere, quello disciplinare, che prevede ripetitività e standardizzazione delle manovre per metterla in atto; al contrario, il modello che lo precedeva, nella nostra Storia, ossia quello di sovranità, guardava sempre all'indietro, al suo rapporto con il passato alla ricerca di un marchio (un diritto divino, un giuramento di fedeltà, un privilegio concesso) di un' "anteriorità fondatrice" (Foucault, 2004;51). L'aspetto che però colpisce maggiormente è la necessità, per tale rapporto di sovranità, che esso venga costantemente riattualizzato, da qualcosa come una cerimonia o un rituale, testimonianza del fatto che non solo il rapporto intangibile tra potere della sovranità e passato sia fragile, ma che sia fragile il nostro rapporto con la Storia, e che quindi necessiti costantemente di essere riattualizzato, attraverso la ritualità di cerimonie, gesti, dispositivi. Il rapporto di sovranità, nel volgere il suo sguardo al passato, non trova applicazione ad una singolarità somatica o ad una biografia individuale, ma piuttosto a delle molteplicità che si collocano, sempre, sopra ed oltre il corpo: le persone intrecciano legami, in tali rapporti di potere, in quanto figli di, o abitanti della tale città, o appartenenti al tale clan. Il sistema disciplinare, invece, non ha bisogno, per funzionare, di cerimonie e rituali; esso non è discontinuo, ma implica al contrario una procedura di controllo costante. Nel rapporto di potere disciplinare, non si è mai a disposizione di qualcuno, ma si è perpetuamente esposti allo sguardo di qualcuno, o comunque nella condizione di essere continuamente osservati; esso volge il proprio sguardo al futuro, all'avvenire, a quel che potrà essere, e per i minori, fino a quando la disciplina si trasformerà in abitudine, attraverso l'esercizio, costantemente richiamato dagli adulti, che espone lungo una scala temporale la crescita ed il perfezionamento della disciplina stessa. Le regole dello star – bene – seduti a tavola, o di successioni di interventi in una discussione di gruppo, o di muoversi da una stanza all'altra dello spazio comune, o di costruire “sane” relazioni con i pari e con gli adulti, sono esercizi di ammaestramento corporeo, prima che morale o mentale, che servono all'aspetto culturale di trasmissione del sapere dominante per assicurarsi quella sorta di continuità che caratterizza tale processo. La condizione essenziale affinché questa modalità di educare il corpo ad essere docile possa esercitare tale presa in carico globale di soma e psiche, credo sia il ricorso alla scrittura, una scrittura spesso povera e ripetitiva, istituzionalizzata, che garantisce una sorta di registrazione costante di tutto quanto accade di significativo, assicura la trasmissione dei dati più importanti lungo l'intero asse gerarchico, permette, infine, un accesso permanente a tali informazioni, rendendole perennemente visibili. D'altro canto, la scarsità di creatività (nei progetti, più che raccontare di un particolare ragazzo, si descrive un modello di ragazzo

“difficile” che genericamente esprime, implicitamente, il bisogno di attenzioni particolari) intrecciata al ricorso continuo a cliché su chi dovrebbero essere questi ragazzi e quali dovrebbero essere i loro comportamenti, di adesione come di ribellione, produce nella realtà uno strumento che, se da una parte ottiene successi nelle sue funzioni di registrazione, trasmissione dei dati e loro visibilità, dall'altra parte fallisce nel creare un vero deposito di memorie “storiche” su quanto succede: al massimo, ai posteri arriveranno documentazioni che rappresenteranno buone testimonianza sui cliché pedagogici e psicologici relativi ai minori della nostra epoca, ma non diranno nulla di quella che Foucault ha definito un' “archeologia” dei saperi, come i saperi che si intrecciano alle pratiche si sono formati e costituiti in dispositivi di potere, né tantomeno diranno qualcosa sulle biografie di ragazzi e operatori, sui loro modi di vita, di pensiero, di azione. Al posto delle biografie, appaiono piuttosto delle indagini sulle identità, indagini spesso schematiche, ripetitive e standardizzate, che consentono al potere disciplinare di intervenire rapidamente, anche e soprattutto nelle situazioni di emergenza (spesso mi è stato ripetuto che il lavoro pedagogico, al di là delle teorie esperte, è un lavoro sull'emergenza, e tali prospettiva veniva rinforzata sia durante i colloqui con gli operatori, sia durante le sessioni di osservazione partecipante, in cui l'operatore, con lo sguardo alla ricerca della mia complicità, si lasciava poi andare anche a frasi dal sapore auto- consolatorio, come ad esempio “ecco vedi quando ti dicevo che lavoriamo sull'emergenza”). Attorno al minore, si costruisce una rete di scritture che dovrebbe essere destinata – ma spesso fallisce – a codificare tutto il suo comportamento, o comunque quello che più si discosta da un modello di comportamento disciplinato; l'ambizione pedagogica da perseguire è rappresentata dalla tendenza ad intervenire quasi in via preliminare, se non allo stesso livello di ciò che accade, attraverso dei meccanismi di sorveglianza (i formulari di osservazioni da compilare nei primi tre mesi di inserimento del minore, il controllo dello spazio da parte degli operatori, la pressione punitiva costante e continua). La sorveglianza, al suo meglio, permette l'intervento preventivo, che secondo me è ciò che gli operatori definiscono “lavoro sull'emergenza”: non si tratta, infatti, tanto di vere e proprie emergenze su cui intervenire, costantemente rincorrendo il tempo inafferrabile della vita e delle sue vicende, quanto piuttosto di intervenire quasi prima della manifestazione stessa del comportamento, anticipando quelle che sono individuate come disposizioni del ragazzo (“lui esplode sempre quando gli toccano quel gioco”; “quando è con il fratello, è un'altra persona”2), la sua anima. Anche la suddivisione, al centro, del

grande gruppo dei ragazzi in tre gruppi più piccoli3, risponde a queste esigenze di controllo

e sorveglianza, di anticipazione e prevenzione del gesto (in un gruppo omogeneo per età, si crede di poter, forse, controllare le dinamiche tra pari poiché ricorrenti e “tipiche”, cioè agite in modo molto simile dai ragazzi di età uguali), all'interno del dispositivo disciplinare in cui ogni elemento occupa un posto ben preciso: non posso dimenticare, qui, di osservare che la suddivisione per classi di età secondo il modello dei gesuiti prevedeva per ciascuno un locus preciso, coincidente con il posto all'interno della classe e con il rango nella gerarchia di valori e successi, e anche, straordinariamente simile a ciò, nelle istituzioni in cui ho svolto la ricerca, il posto assegnato ai ragazzi a mensa, ad esempio, o nel gioco organizzato dagli adulti, non è mai frutto del caso, bensì risponde ad un meccanismo regolato dal merito (chi si comporta meglio ha la possibilità di sedere in un certo posto, o di fare alcune cose vietate agli altri), dall'anzianità (il gruppo dei “grandi” può guardare più volte nel corso di una settimana il film, mentre gli altri lo possono fare solo una volta), dalla continuità (si premiano anche costanza e perseveranza nell'ottenere buoni risultati, nello studio come nel comportamento). Per i sistemi disciplinari che classificano, gerarchizzano, sorvegliano, la battuta d'arresto, il blocco, il black-out derivano da quegli elementi che non possono, o rifiutano di, essere classificati, che non accettano docilmente di rientrare nelle categorie proposte dal dispositivo disciplinare. L'inclassificabile, l'inammissibile creeranno i margini di tale dispositivo: il bambino nigeriano che non parla, la bambina kosovara promessa sposa ad un cugino impongono alla disciplina di marginalizzarli, di creare nuove categorie di osservazione e registrazione, oppure, ricorrendo a quel comune atteggiamento di universalismo disumanizzante, di ignorarne la portata perturbante ma senza mai riuscire ad eliminarla, cercando di ridurre la loro particolarità alla proprietà anonimizzante dell'uguaglianza (in tono un po' minore, poiché si riconosce che tali bambini sono un po' meno uguali degli altri). E, come insegna la nostra Storia, è stato proprio nel momento in cui si è imposta la disciplina scolastica che si è visto apparire il debole di mente, o quando si è imposta la disciplina poliziesca che è stato possibile concepire in maniera istituzionalizzata la figura del delinquente (Foucault, 2000); con il debole di mente, si sono create scuole appositamente per lui, per il delinquente luoghi di recupero speciali e specifici, e, per i nostri minori turbolenti, non si sono forse progettati luoghi come queste comunità in cui si riduce, spesso involontariamente, ai margini un certo numero di persone, ma al contempo si produce un'azione sempre normalizzatrice, nei suoi intenti ideali, che inventi sempre nuovi sistemi 3 Vedi allegato n.1, descrizione comunità n.1.

di recupero e possibilità di riscatto?

Ruolo: un sistema disciplinare è fatto per funzionare da solo, e colui che ne ha la responsabilità, chi lo dirige, non è tanto un individuo quanto una funzione da egli esercitata, ma che potrebbe essere svolta allo stesso modo da un altro.

In breve, il potere disciplinare ha come proprietà senza dubbio fondamentale quella di fabbricare corpi assoggettati, disponendoli nello spazio, assegnando loro funzioni, ruoli, disposizioni; una serie costituita da corpo, osservazione costante, scrittura, punizione, proiezione della psiche e distinzione tra integrato e marginale, costituisce l'individuo disciplinare, e disciplinato. La disciplina, di conseguenza, è appunto quella forma terminale, capillare, del potere che costituisce l'individuo come bersaglio, come obiettivo, come interlocutore, come termine di confronto all'interno del rapporto di potere (Foucault, 2004;65). E' tutto questo apparato disciplinare e la sua tecnologia ad aver fatto apparire l'individuo come realtà storica, con l'associazione di soma e psiche; il discorso delle scienze umane, poi, ha precisamente come funzione quella di accoppiare, di associare l'individuo giuridico e l'individuo disciplinare, di far credere che l'individuo giuridico abbia come contenuto concreto, reale, naturale, quello che è stato ritagliato e costituito dalla tecnologia politica come individuo disciplinare. "Raschiate l'individuo giuridico – dicono le scienze psicologiche, sociologiche, e così via – e troverete un certo uomo; ma in realtà, quelle che esse individuano come uomo non è che in realtà l'individuo disciplinare" (Foucault, 2004:256). E allo stesso tempo, anche se in una direzione opposta rispetto ai discorsi delle scienze umane, abbiamo il discorso umanista, che rappresenta il rovescio del primo, e che sostiene l'idea di un individuo disciplinare il quale è alienato, asservito, privo di autenticità; grattando via la superficie e restituendogli in pieno i suoi diritti, si troverà, nella sua forma originaria e viva, un individuo che è l'individuo filosofico-giuridico. E quel che nei secoli XIX e XX verrà chiamato Uomo, non è altro che quella sorta di immagine che resta dall'oscillazione tra l'individuo giuridico, che è stato lo strumento attraverso cui nel suo discorso la borghesia ha rivendicato il potere, e l'individuo disciplinare, che è il risultato della tecnologia impiegata da questa stessa borghesia per costituire l'individuo nel campo delle forze produttive e politiche. È da questa oscillazione tra "l'individuo giuridico, strumento ideologico della rivendicazione del potere, e l'individuo disciplinare, strumento reale del suo esercizio fisico, che sono nate la realtà e l'illusione a cui si dà il nome di Uomo" (Foucault 2004;67).