Il passato non è ciò che ha smesso di esistere; è ciò che non è non essendo più là. Il futuro non è ciò che non ha esistenza, è ciò che è prima di essere là più tardi. Non c'è una successione di tempi che scorre in una direzione irrevocabile, quanto piuttosto una serie di piani temporali che coesistono in un presente circolare cosmico; ed è per questo che, alle volte, gli avvenimenti onirici si congiungono con il passato e il futuro.
Un rischio sempre presente nel dispositivo etnoclinico è quello di selezionare, favorire e far circolare modelli di rappresentazione, cosmovisioni, nuove metafore più vicine alle conoscenze che noi presumiamo di avere sugli altri, piuttosto che lavorare a far emergere la loro visione del mondo, spesso sorprendente perché innovativa e trasformata rispetto 4 Vedi allegato n.2, presentazione di H.
all'assetto tradizionale; facendo questo, nei nostri luoghi di cura rischiamo di ripercorrere quanto fatto dalla medicina e dalle amministrazioni coloniali, che orientarono stili di cura e modelli del corpo, proponendo nuove pratiche, nuove espressioni della soggettività e nuove tecnologie del Sé, nel senso che Foucault dà a questo termine (Foucault, 1993). In particolare, l'assunzione nel lessico dei migranti di metafore derivanti dal vocabolario dei missionari cattolici e protestanti ed in uso nelle potenti action-churches dell'Africa Sub- sahariana, per parlare del potere della cura (la guarigione per mezzo della preghiera, ad esempio) o delle cause del male, dei poteri mistici e dell'invisibile (i seytan del Ghana, esseri responsabili di provocare la follia), deve essere guardata come la ragione forte per concepire le tradizioni sapienti anche come prodotto di una co-costruzione, di una sintesi complessa e originale, dove l'incontro, l'interazione e la reciproca alterazione fra ideologie e saperi del corpo, della malattia, del disturbo e della cura, contribuì in maniera determinante alla formazione di un universo di pratiche e di conoscenze quale oggi si offre allo sguardo del ricercatore. Senza sforzo possiamo riconoscere in questi processi il profilo caratteristico di ciò che Bayart ha definito extraversione, ossia “sposare elementi culturali estranei sottomettendoli ad obiettivi autoctoni” (Bayart, 2005:80). Il cosiddetto “sincretismo” magico-religioso degli operatori terapeutici rivela, ad un esame attento, non tanto la semplice combinazione di saperi, pratiche o atti rituali di natura differente, quanto piuttosto un raffinato lavoro simbolico di composizione, una selezione di materiali tessuti da nuovi legami che intercorrono tra immaginario della malattia, itinerari terapeutici, spazi e saperi di cura e strutture del potere.
La grande ricchezza che l'attraversare i dispositivi etnoclinici mi ha donato è quella di aver potuto osservare, e parteciparvi senza attribuzione preventiva di codici morali e azioni possibili, la vita ordinaria dei migranti, approcciata intorno alle forme basilari degli eventi quotidiani, che diventano il teatro sul quale interrogarsi: l'orizzonte delle azioni, il tessuto vivo della parola e dei racconti, l'atto di credere e di pensare di questo o quell'individuo, le vicende personali che hanno concorso a costruire l'atteggiamento e il personale stile di pensiero di un migrante, o anche il mio, sono importanti quanto i contenuti delle conoscenze e delle rappresentazioni.
La cultura materiale (anche il cibo) e l'organizzazione sociale ad essa strettamente connessa, appare inscindibile dalla coscienza e dalla identità come percezione che gli individui hanno di sé e delle caratteristiche che li definiscono come esseri umani, essendo lo spazio entro cui una società costituisce il suo proprio territorio l'elemento di raccordo tra esseri viventi, tra passato e presente, e il risultato, carico di molteplici attribuzioni di senso,
della storia di generazioni.
Come già scriveva Foucault, i malati di oggi non sono gli stregoni di un tempo, né gli stregoni di oggi in Africa sono i malati di oggi in Europa. Secondo Foucault (1976) si trattava di riconoscere, nelle pratiche attraverso cui si identificano un certo numero di persone, si fissano le loro identità e si comincia a sospettare di loro, isolandole, interrogandole e riconoscendole come stregoni, matti, incivili, diversi, delle tecniche di potere, iniziate in Europa con l'Inquisizione e riscontrabili oggi, dopo una trasformazione del discorso che le esprime, nella pratica psichiatrica. Tali tecniche sono riconoscibili, seppur modificate, anche altrove, in altre tecnologie identitarie: nelle relazioni di cura, nella pedagogia, nell'astoricità di alcuni dispositivi terapeutici. Tali tecniche tradiscono un'impellenza sociale ed individuale, che ha spesso il sapore dell'emergenza: sapere, sapere con certezza chi ho di fronte, chi è lo straniero, il mio vicino di casa, mio figlio, il mio amico, chi sono io. Le cause dell'esclusione, della repressione, dell'addomesticamento non sono sempre rintracciabili nella qualità delle azioni morali dei singoli etichettati come marginali; spesso tali cause sono da ricercare nella nostra fame di identità, di sapere, di possedere tutte le aree possibili e pensabili del discorso, quello stesso discorso in cui tristemente finiamo per inscrivere i marginali, esigendo da loro proprio questo.
L'etnocentrismo epistemologico sembra caratterizzare gli interventi – l'interventismo – che costituiscono l'ossatura del pensiero pedagogico messo in azione: spesso a guidare l'attività e ad indirizzare lo sguardo educativo è la credenza, fortemente embrionata nella nostra storia e nella nostra cosmovisione, che non ci sia nulla di scientificamente utile da imparare dal migrante, a meno che non si tratti di qualcosa di nostro, che è arrivato a lui per mezzo dell'azione illuminante del colonialismo. Pedagogia e antropologia, da adesso in avanti, devono sviluppare e progredire all'interno di un sistema politico consapevole del legame tra conoscenza e potere; Foucault disse che una certa posizione del mondo occidentale era costituita dalla e nella sua storia e che forniva una fondazione per le relazioni che questo mondo può avere con tutte le altre società, e che le scienze sociali, soprattutto nell'incontrare l'Altro, potevano assumere la loro propria dimensione solo dentro la sovranità storica che il pensiero europeo si è accordato e la sua capacità, o meno, di portare in superficie la relazione di potere che istituisce con le altre culture (Foucault, 1998).
Adattare il discorso foucaultiano all'analisi antropologica è esercizio presuntuoso, direi imperdonabile, ma una categoria che lo rappresenta piuttosto intelligentemente è l' "efficacia simbolica", che riassume efficacemente le modalità attraverso cui la relazione di potere tra la nostra cultura e le altre assume una determinata forma, occupa determinati spazi, si istituisce in determinati discorsi.
Un esempio di efficacia simbolica, così come la intendeva Lévi-Strauss, è rappresentato dall'interpretazione data al ruolo che il canto riveste nelle pratiche legate al parto delle donne dell'America Centrale e meridionale (Lévi-Strauss, 2009). Secondo quanto previsto dalla catena interpretativa messa in moto dall'efficacia simbolica, il canto costituisce una manipolazione psicologica dell'organo malato, e proprio da tale manipolazione si attende la guarigione. La cura consiste quindi nel rendere pensabile una situazione che in partenza si presenta in termini affettivi, e nel rendere accettabile alla mente dolori che il corpo si rifiuta di tollerare. Che la mitologia dello sciamano non corrisponda a una realtà oggettiva è un fatto privo di importanza: la malata ci crede, in quanto membro di una società che ci crede.gli spiriti protettori e gli spiriti maligni fanno parte di un sistema coerente che fonda la concezione indigena dell'universo. La malata li accetta, o meglio, non li ha mai messi in dubbio; quello che non accetta sono i dolori incoerenti ed arbitrari che costituiscono un elemento estraneo al suo sistema, ma che, grazie al ricorso al mito, vengono sostituiti dallo sciamano in un insieme in cui tutto ha una ragione d'essere. La malata, avendo capito, non si limita a rassegnarsi; guarisce. La relazione tra mostro e malattia è interna a quella stessa mentalità: è una relazione fra simbolo e cosa simbolizzata o, per adottare il vocabolario dei linguisti, fra significante e significato. Lo sciamano fornisce al malato un linguaggio, nel quale possono esprimersi immediatamente certi stati non formulati, e altrimenti non formulabili; e proprio il passaggio a questa espressione verbale provoca lo sbloccarsi del processo fisiologico. In un certo senso, la cura sciamanica si colloca a metà tra la nostra medicina organica e certe terapie psicologiche, come la psicoanalisi: in entrambi i casi, ci si propone di rendere coscienti conflitti e resistenze rimaste fino ad allora inconsce. Acquisirne conoscenza non garantisce di per sé la guarigione, ma questa conoscenza rende possibile un'esperienza specifica, nel corso della quale i conflitti si realizzano in un ordine e su un piano che ne permettono il libero svolgersi e portano al loro scioglimento finale. Questa esperienza vissuta riceve, in psicoanalisi, il nome di abreazione, che ha come condizione l'intervento non provocato del terapeuta. Tutte queste caratteristiche si ritrovano nella cura sciamanica; anche in essa, si tratta essenzialmente di suscitare un'esperienza, e, nella
misura in cui tale esperienza si organizza, certi meccanismi posti al di fuori del controllo del soggetto si regolano spontaneamente per dar luogo ad un funzionamento ordinato. Lo sciamano non si limita a proferire l'incantesimo, ne è l'eroe; è in questo senso che egli si incarna, come lo psicanalista oggetto di transfert, per diventare, grazie alle rappresentazioni indotte nello spirito del malato, il reale protagonista del conflitto che quest'ultimo sperimenta. Il parallelismo non esclude le differenze: la cura sciamanica sembra essere un esatto equivalente della cura psicoanalitica, ma con un'inversione di tutti i termini. Entrambe mirano a provocare un'esperienza, ed entrambe vi riescono ricostruendo un mito che il malato deve vivere, o rivivere.
La cura sciamanica e la cura psicoanalitica diventerebbero rigorosamente simili; si tratterebbe ogni volta di indurre una trasformazione organica, consistente essenzialmente in una riorganizzazione strutturale, tale che il malato sia messo nelle condizioni di vivere intensamente un mito, ora ricevuto, ora prodotto, e la cui struttura sarebbe, allo stadio dello psichismo inconscio, analoga a quella di cui si vorrebbe determinare la formazione allo stadio del corpo. L'efficacia simbolica consisterebbe appunto in questa “proprietà induttrice” di cui, le une rispetto alle altre, sarebbero dotate strutture formalmente omologhe, edificabili, con materie prime differenti, ai differenti stadi del mondo vivente: processi organici, psichismo inconscio, pensiero riflesso (Lévi-Strauss, 2009).
Conviene chiedersi se il valore terapeutico della cura derivi dal carattere reale delle situazioni, o se il potere traumatizzante di tali situazioni non provenga piuttosto dal fatto che nel momento in cui si presentano il soggetto le sperimenti immediatamente nella forma di mito vissuto (Levi-Strauss, 2004). L'inconscio si riduce a un termine con il quale designiamo una funzione, la funzione simbolica, specificamente umana, che si esercita in tutti gli uomini, secondo le stesse leggi; questo, direi, ben rappresenta la modalità attraverso cui noi occidentali guardiamo a fenomeni provenienti da altre culture, ossia la traduzione del dato perturbante, sconosciuto, in categorie che lo semplificano, che ce lo rendono familiare, postulando come universale una funzione (quella simbolica) appunto comune a tutti gli esseri umani (comune, ma costruita sul modello di vita e di pensiero dell'Occidente).
Paragrafo 2
L'antropologia tra Storia, storiografia, psicoanalisi
“Camminare sulle orme dei nostri antenati” è un'espressione che induce l'idea di tracciabilità (e anche di scrittura). Fare clinica, fare analisi antropologica, agire pedagogicamente su, e con, le persone, ha a che vedere esattamente con questo: ricordare per vivere la memoria attivamente nel presente, scrivere per conservare, ma per permettere anche a chi verrà dopo di noi di utilizzare, riattualizzare, anche dimenticare quei segni sul terreno, quelle orme che abbiamo lasciato. Raccontare, dirci le cose, sedersi insieme: sono tre azioni tipiche del lavoro con i migranti, ma sono anche le azioni che le scienze sociali (che si interessano della memoria e del suo utilizzo) dovrebbero imporsi di compiere. Tutto ciò che noi chiamiamo Storia non è in primo luogo che racconto; se riconosciamo il potere di fare storia nell'azione di raccontare è perché sappiamo che non è in gioco l'idea di una memoria-archivio da ripristinare, quanto il tentativo di una rimemorazione che è soprattutto legame al presente, relazione sociale, eventualmente incontro con il dolore dell'altro. Freud ci ricordava che la questione del tempo va al cuore dell'esperienza traumatica, creando un'analogia tra inconscio e tradizione storica (Freud, 2010); come l'identità, anche la memoria collettiva è un prodotto costruito a partire dalla visione che il conquistatore si fa degli sconfitti, in modo da dominarli, dopotutto, e dalle pratiche di quest'ultimi: pratiche che sono state realizzate nel caso della lotta per mantenere ed estendere una posizione sociale autonoma e uno spazio dove poter negoziare la sopravvivenza politica. Trascinare le scienze della cura nel terreno in cui memoria collettiva, immaginario sociale e inconscio sono indissolubilmente intrecciati, ha in definitiva lo scopo di scrutare gli effetti psichici di traumi che si sono prodotti all'interno di particolari configurazioni storiche, non nel vuoto di uno psichismo sempre ed ovunque uguale. Cura, storia, inconscio collettivo definiscono anche le lotte che il nostro tempo ci chiama a combattere, nel riconoscimento e nella valorizzazione di pensieri e visioni del mondo anche marginali, anche frutto di dominio, che chiedono, con la loro presenza, nel silenzio di uno sguardo o nel fragore di un racconto, di essere uditi.
A differenza della storiografia, che separa nettamente passato e presente, nella psicoanalisi opera un ben diverso principio: il passato (i morti) continua a perseguitare il presente (i vivi) con un morso segreto e continuo (De Certeau, 1993). La memoria diventa il teatro di una lotta senza tregua, di un ri-morso (Beneduce, 2003), in cui all'oblio (un'azione contro il passato stesso) si oppone tenace la traccia mnestica (un passato costretto a camuffare le sue fattezze). A differenza dello storico, che giustappone il
passato al presente secondo una logica di contiguità e causalità, la psicoanalisi si ritrova e riconosce il passato dentro il presente; la Storia non è in un altrove, ma continua ad abitare gesti, rappresentazioni, parole. Allora diventa importante e stringente lavorare con l'impossibilità, per alcuni migranti, di farsi Storia, qui nel paese di accoglienza, della difficoltà di riprendersi spazi e tempo per vivere l'aspetto più intimo e anche quello più pubblico del sacro: la mancanza di un luogo culturalmente appropriato per onorare i propri defunti e i propri avi ancestrali, unito spesso all'obbligo vincolante di creare qui, ex novo, un luogo originario in cui poter nutrire, e nutrirsi della, la relazione con gli antenati, priva il migrante di un luogo fisico esterno a lui, e lo costringe ad utilizzare il proprio corpo come deposito di questo vincolo con la terra di origine, oppure, spesso, come vero campo di battaglia tra religioni, teatro vivente di una guerra in atto tra poteri che si muovono tra un qui ed un là, al contempo immaginari e realmente tangibili.
Le scienze della memoria possono costruire un discorso in cui persino l'oblio è uno dei passaggi che sentono più vicino al loro scrutare tra rappresentazioni, credenze, riti, miti, cosmovisioni, storie: è un invito ad esplorare l'anatomia camuffata di pratiche e simboli (Coppo, 2002).
In Freud, memoria ed oblio interagiscono nella ricostruzione dei miti fondanti una società, attraverso:
– la ricerca, nell'adulto, di determinazioni che risalgono a scene originarie, vissute dal bambino e attribuiscono a quest'ultimo un ruolo centrale nella Storia;
– la necessità di postulare, all'origine dei popoli, una violenza genealogica (lotta tra padre e figli) la cui rimozione non è altro che il lavoro della tradizione, ma i cui effetti sono identificabili attraverso i suoi mascheramenti successivi;
– la certezza di trovare in ogni linguaggio “pezzetti di verità”, residui e frammenti relativi a quei momenti decisivi, in cui l'oblio prende forma in sistemi psicologici e la cui rammemorazione introduce nuove possibilità di cambiamento (Freud, 2010). L'etnologia è indifferente alla verità o alla natura, erronea di una credenza, ed è interessata piuttosto all'avvenire dell'illusione che la sostiene, agli effetti che produce nel reale, a ciò che fa credere; le credenze condivise, soprattutto quando non sono coscienti, sono il cemento della società, per quanto queste possano apparire internamente divise. Allo stesso modo delle credenze e delle tradizioni, anche nel mito la funzione che bisogna smascherare, la razionalità che vi si cela, non sta a valle, dal lato della realtà, ma a monte, dal lato dello spirito che la elabora (Graves, 1983).
La nozione di trauma originario, nel momento in cui occupa la centralità del discorso analitico a svantaggio di altri traumi, partecipa alla produzione di un particolare regime di verità al cui interno i corpi dei colonizzati sono come sottratti al tempo del lavoro forzato, alla violenza della Storia, alla materialità della violenza, per essere prima di tutto edipizzati (Ortigues, Ortigues, 1973). Edipo è sempre la colonizzazione proseguita con altri mezzi, è la colonia interiore (Nathan, 1996).
Guardare alle scienze della memoria da una prospettiva archeologica (Foucault, 1998) significa indagare che cosa i concetti forgiati all'interno di un sapere rendono pensabile e trattabile e che cosa questi saperi finiscono invece con il distorcere, perdere o mascherare quando le categorie e gli strumenti epistemologici utilizzati non sono appropriati, che cosa rischia di rimanere impigliato sul fondo delle contemporanee politiche del trauma e della memoria quando altre variabili sono omesse o ignorate. Significa, in fin dei conti, assumere una prospettiva che riconosca l'effetto delle forze sociali sulle vite degli individui e ammetta che le relazioni politiche e sociali strutturano la vita interiore (l'inconscio) delle persone; gli effetti della vita sociale sull'inconscio sono storici e durevoli.
I rischi dell'esclusione degli attori reali della violenza dal teatro e dai discorsi della cura, e i pericoli che più in generale derivano dall'occultare quella che rimane la dimensione forse più drammatica della violenza e del dominio, ossia l'intenzionalità, hanno a che vedere in massima parte con l'oblio che impone alle scienze della memoria di non occuparsi delle modalità attraverso cui il discorso sugli altri viene costruito; oblio del nostro funzionamento e azione sugli altri.
Diventare attori della Storia significa riuscire a decidere, ad affermare i propri diritti, primo fra tutti quello alla giustizia, significa poter agire nel e sul presente, non certo limitarsi a riconoscere la propria parte in un evento che si è subiti. Certo, la cura è molte cose ancora, ma non è certo solamente il semplice atto di trasformare illusoriamente in attori coloro che non lo sono stati.