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Dimensione temporale della cura e dell'educazione

Dopo la presentazione del minore, segue il suo inserimento, e ciò che ne caratterizza strategie educative e terapeutiche, aspettative e dinamiche relazionali è quella che si può definire una “dimensione temporale” delle pratiche: lo sviluppo del bambino diventa oggetto di prassi e teorie (più o meno scientifiche ed attendibili); esso sarà un processo che coinvolge la vita organica e psicologica; sarà una dimensione lungo la quale verranno distribuite l'organizzazione di attività, di scopi, di progettualità. Lo sviluppo dell'umano è una specie di norma rispetto cui ci collochiamo. Ovviamente, per lo sviluppo ci si può rifare ad una lunga serie di paragoni (tanti tipi diversi di adulto, tante carriere possibili, tante strade percorribili), entro e con cui misurarsi e misurare; tutte, però, riconducono a due modelli che forniscono un metro, ai bambini, per misurare distanze e vicinanze: l'adulto, e il bambino stesso. Nel suo futuro, il bambino si misurerà con i modelli di adultità incontrati a casa (spesso giudicati non positivi) e incontrati all'esterno, nelle istituzioni che li hanno in carico, ad esempio (ecco spiegato perché molte volte mi è stato detto che uno dei compiti principali dell'educatore è di fornire modelli alternativi – a quelli familiari, sottinteso – di adultità); sarà dunque la condizione di adulto a funzionare come norma (e la nozione di adulto che la nostra cultura ha elaborato). Nel suo presente, lo sviluppo del bambino risulterà definito (in termini spesso derivanti dall'applicazione di opposizioni binarie, alto/basso, grasso/magro, lento/veloce, etc..) dal confronto con gli altri bambini – e, ancora, dall'idea su che cosa sia un bambino, che il sapere scientifico occidentale e il nostro senso comune hanno contribuito a costruire.

1.6.1 Caratteristiche dello spazio educativo e di cura

Le caratteristiche di tale spazio possono essere riassunte in questi aspetti:

– occupazione totale del tempo: laboratori, attività, gestione anche dei tempi liberi; – rapporto tra interno ed esterno: che cosa deve apportare, veicolare, all'interno dello

spazio di cura, il potere che è incarnato nel corpo degli operatori? Il mondo esterno, appunto, ovvero, in ultima istanza, la scuola e la società a cui, in diverso grado e per diverse motivazioni, i bambini stessi (quei bambini per i quali vengono istituiti

percorsi di sostegno e terapeutico-riabilitativi) non hanno completamente aderito, e, in rapporto alla quale, hanno potuto essere designati come bisognosi di cure ed attenzioni particolari.

La devianza verrà definita anche in base alle stigmate o marchi che gravano sul bambino come residui della devianza dei suoi genitori, o ascendenti; la devianza, dunque, viene ancora considerata un effetto dell'anomalia, rispetto alla norma -lità, prodotto dall'educazione impartita dai genitori. È il concetto di devianza a consentire di inserire in un'unica definizione la famiglia e gli avi (senza distinzione alcuna) e il bambino, facendo della famiglia una sorta di bacino di utenza perenne per i servizi sociali, che si costituiscono come supporto collettivo attorno a quella famiglia (si potrebbero così spiegare queste azioni, plurime e multiple, di tipo socio-assistenziale ed economico che coprono i bisogni vari di alcuni nuclei familiari, dipendenti dal servizio sociale da generazioni, i cui figli e nipoti popolano tutte le tipologie di comunità per minori pensate e progettate sul territorio, e i cui adulti mensilmente ritirano gli assegni sociali di assistenza). Siamo qui, tra avi, genitori, figli, istinti, nel campo preciso della psicoanalisi, in cui si cerca di rispondere a quesiti riguardanti appunto il destino familiare dell'istinto: che cosa diventa l'istinto all'interno di una famiglia? E qual è il sistema di scambi che si determina tra avi e nuove generazioni, tra genitori e figli, e che mette di mezzo l'istinto? È forse, la psicoanalisi, il sapere scientifico che più di tutti, almeno nell'ultimo secolo, presuppone che vi sia ovunque, in ogni tempo e in ogni luogo, all'interno e all'esterno dell'uomo, qualcosa come la verità. Può certamente accadere che la verità sia nascosta, sepolta, difficile da raggiungere, ma questo dipende solo dai nostri limiti, o al massimo dalle circostanze in cui ci troviamo; la verità percorre e corre per il mondo, non si interrompe neppure quando è silente. La nostra è, secondo le parole di Foucault, la cultura della “tecnologia della dimostrazione”: disponiamo degli strumenti che occorrono a scoprire la verità, delle categorie necessarie per pensarla e del linguaggio adeguato per formularla in proposizioni; disponiamo, quindi, di una tecnologia della verità dimostrativa che forma un'unica realtà con la pratica scientifica (Foucault, 1992). È un concetto di verità, poi, che ha una sua geografia e un suo calendario, che appare in alcuni luoghi, e non in altri, in un determinato tempo, e che dispone dei suoi operatori privilegiati, coloro, cioè, i quali possiedono i segreti di quei luoghi e di quel tempo; tale verità non è universale, bensì si tratta di una verità dispersa, che si produce come un evento. Ci sono, nella storia dell'Occidente, due ordini di verità, uno che afferisce alla scoperta, alla dimostrazione, ma un altro del tutto differente, che ha a che vedere con ciò che accade, e non con ciò che è,

quindi un ordine di verità nella forma dell'evento, suscitato, inseguito, prodotto. Per una verità di questo secondo ordine, la questione centrale non sarà mai quella del metodo, bensì quella della strategia: non vi è un rapporto di conoscenza tra soggetto ed evento, ma vi sarà, piuttosto, un rapporto contrassegnato dallo scontro, in cui vi è dominazione e sottomissione, vittoria e sconfitta; il rapporto sarà di potere, e non di conoscenza, al massimo può esservi riconoscenza (Bourdieu, 2009). E questo rapporto di potere è ben rappresentato dalle nostre istituzioni, che instaurano rapporti di riconoscenza con i loro utenti, che hanno specifiche geografie per mettere in scena la tecnologia dimostrativa che le contraddistingue, che hanno operatori privilegiati che detengono i segreti di quei luoghi, e dei saperi che in essi si costituiscono. Foucault parlava di “archeologia del sapere”, per la quale la dimostrazione scientifica non è altro che un rituale; il presunto soggetto universale di conoscenza non è altro che un individuo storicamente qualificato secondo un certo numero di modalità; la scoperta della verità consiste, in realtà, in una certa modalità di produzione della verità. Seguendo il percorso tracciato dall'archeologia del sapere da Foucault, si potrebbe dire che, anche nella terapia e nell'educazione per l'infanzia e l'adolescenza, la verità della cura, troppo spesso, non risiede nell'intervento terapeutico vero e proprio, ma ha a che vedere con una nostra peculiare, e culturalmente qualificata e determinata, modalità di produzione dell'evento critico, a cui l'adulto esperto assiste, in qualità di persona che ha contribuito a metterlo in scena e a suscitarlo; l'esperto educativo-terapeutico è molto di più colui che gestisce ed arbitra la crisi, piuttosto che l'agente dell'intervento terapeutico (ciò trova riscontro anche nei mansionari prodotti attorno alla figura dell'educatore, in cui, tra le competenze richieste, spicca sempre la capacità di mediare e gestire situazioni critiche, forse perché si pensa, e lo si dice continuamente, che il lavoro educativo-terapeutico è un lavoro sull'emergenza, ma sicuramente si richiede tale abilità proprio a causa dell'imperante concetto di verità come rapporto di potere e riconoscenza, in cui la capacità di prevedere, valutare e modificare, dove possibile, conta più della cura in sé).

Nel pensiero istituzionale, e nelle modalità che contraddistinguono la relazione utente straniero-operatore, si insinua, fino a diventare caratterizzante il rapporto tra questi due poli, la procedura dell'inchiesta: i rapporti, le testimonianze, il reperimento e il controllo incrociato delle informazioni, la circolazione del sapere dal centro del potere fino al suo punto di attuazione più periferico (l'assistenza domiciliare, in cui l'educatore entra nelle case degli utenti, spesso migranti, con l'espresso compito di osservare le “dinamiche relazionali tra genitori e figli”, ovviamente con strumenti e strategie, tattiche insomma,

escogitate ed implementate dalla cultura istituzionale di cui non solo fa parte, ma di cui è rappresentante all'interno della mura domestiche di quella famiglia, che necessita, a parere dell'istituzione, di un'assistenza a domicilio di cui figli, ma anche genitori, dovrebbero beneficiare), la possibilità di verifica, tutto ciò contribuisce a costruire un'inchiesta che verte sul comportamento delle persone, sui modi di vita e di pensiero. È una modalità di pensare l'altro che l'Occidente non solo ha elaborato nelle sue istituzioni, diciamo, che si occupano di terapia e cura, ma che ha esportato su tutto il globo, durante l'estensione del suo potere realizzata con l'impresa colonizzatrice: la colonizzazione è stata resa possibile non solo dalla potenza economica e militare dell'Occidente che si è materializzata sulle terre e sulle superfici, ma anche dal concomitante processo di “colonizzazione culturale” che ha investito in profondità corpi, gesti, pensieri, modi di vita. E, pur essendo una verità presente in ogni luogo, dappertutto, esse è pur sempre nascosta, e difficile da scoprire; è una verità – pensata in Occidente – universale, che è e sarà alla portata di chiunque, ma tuttavia richiede al soggetto in grado di coglierla una qualifica, in base a procedimenti, apprendimenti, passaggi, sanciti dalla legge e dalla pedagogia. È esattamente questo il ruolo dell'esperto nella nostra società, e nelle nostre istituzioni: è un soggetto che ottiene la qualificazione a svolgere questa funzione, è nel concreto la realizzazione di un diritto astratto che tutti possediamo, ossia il diritto a cogliere tale verità; ricorrere all'esperto significa interpellare un proprio diritto alla conoscenza, mediato però da una figura che è istituzionalmente preposta ad esercitarlo, concretamente, e ricorrervi così assiduamente e con cieca fiducia è in diretta correlazione con l'estendersi della posizione della verità scientifica nella storia anche più attuale dell'Occidente.

L'istituzione, di per sé, offre al minore lo spazio di realizzazione del suo comportamento, atteso, anche in termini negativi; tale spazio è parte integrante del potere istituzionale, che ha anche la funzione di permettere al comportamento, anche deviante, del minore di manifestarsi in un'istituzione la cui disciplina ha proprio l'obiettivo e lo scopo di attenuarne e correggerne violenze, crisi, atteggiamenti disturbanti. Inquadrare devianze, violenze, particolarità, all'interno di un sistema disciplinare ed istituzionalizzato significa, in ultima analisi, non saperle ascoltare, non saper educare l'anima attraverso l'anima stessa, il suo compiersi (Hillman, 2009; Jung, 1998).