Una definizione accettabile di cultura, scelta tra le tante consegnate da una lunga tradizione di studi sociali, configura questa dimensione come “una cornice fondatrice di senso, all'interno della quale gli uomini vivono e danno forma alle loro convinzioni, solidarietà e al loro sé, e come una forza regolatrice in fatto di questioni di convivenza umana” (Geertz, 1988:53).
L'etnopsichiatria si accosta alla dimensione culturale da una angolazione particolare, imposta dalla funzione che si propone di esercitare. La sua direzionalità è segnata dal compito di intervenire in situazioni in cui l'esperienza vissuta della malattia o del disagio rappresenta l'ordinatore determinante la vita concreta di individui e gruppi. Nell'operare tale intervento, l'etnopsichiatria non incontra essenzialmente la Cultura in sé, ma l'incarnazione animata dalla molteplicità culturale in soggetti chiamati a interpretare le proprie anonime sofferenze. La tesi di Devereux, secondo cui ogni individuo rappresenta il prodotto di un doppio processo di fabbricazione culturale e di costruzione psicologica, appare largamente confermata osservando gli individui in azione sulla scena sociale (Bayart, 2005).
Per la soluzione del problema clinico saranno impiegati specialisti professionali della multidisciplinarità, clinici e mediatori culturali del campo antropologico indagato. Nessuno di questi soggetti può operare in maniera autonoma, reclamando o imponendo al dispositivo il rispetto di una sovranità disciplinare o d'azione, perché tutti sono chiamati a rendere conto al soggetto sofferente delle idee e delle pratiche da loro stessi elaborate. Tali contributi vanno trasformati in atti di intervento propriamente clinico per poter essere validati come conoscenze impiegabili in senso etnopsichiatrico. A questo punto vale sottolineare la cautela di considerare una cultura sempre un prodotto impuro, contaminato in quanto risultato della storia effettivamente vissuta, reso intellegibile dal suo rapporto con altri insiemi culturali; si può sostenere che l'etnopsichiatria più vicina a noi in senso
cronologico abbia contemplato la dimensione interazionale, connessionale e costruttivista delle lingue, delle etnie e delle culture nel momento della scoperta e dell'installazione del suo peculiare, ma altamente riproducibile, dispositivo. In questa scoperta, la constatazione scientifica, sociale e per certi versi politica di una realtà in cui si ritrovano ad operare soggetti impegnati nel transito da un altrove culturale originario verso un luogo adattivo e provvisorio, per quanto accogliente e attivatore di fantasie di insediamento, presuppone una dinamica trasformativa delle identità individuali e collettive, generazionali ed intergenerazionali, esterne ed interne agli spazi sociali di sopravvivenza prescelti o momentaneamente attraversati. Di fronte a questo movimento imponente e multidirezionale, l'etnopsichiatria è chiamata ad occuparsi della psicopatologia generale della migrazione ma anche dei disturbi mentali e sociali, che sono:
– ricalcati sul tipo scientifico di organizzazione sociale, allogena e autoctona (disturbi- tipo);
– derivanti da una strutturazione particolare della personalità etnica intorno alla matrice culturale corrispondente (disturbi etnici);
– indotti da una particolare relazione con la dimensione perturbante, per quanto culturalmente convenzionale, del sacro (disturbi sacri, iniziatici o sciamanici);
– risultanti da una improvvisazione individuale o da una disarticolazione dei meccanismi culturali di difesa (disturbi idiosincrasici).
L'impianto metodologico di tale classificazione impedisce di concepire mente e cultura come seguissero un'evoluzione parallela senza possibilità di convergenza.
L'impegno etnopsichiatrico si dispiega nella consapevolezza che ciascun individuo, dotato di un preciso sistema di riferimento culturale, non è solo vettore ma anche interprete e manipolatore di questo stesso sistema, anche nel suo incepparsi o mal funzionare. L'emergente psicopatologico si muove formalmente tra uno standard e un bias proprio come l'individuo culturalmente determinato prova ad incarnare, nell'arco del suo ciclo vitale, un ideal-tipo e una singolarità irripetibile ispirata alla propria matrice culturale specifica (Quaranta, 2006). La qualità irrinunciabile dell'etnopsichiatria deve essere proprio quella di seguire le oscillazioni del soggetto individuale e del fenomeno morboso che possono saltare in modo imprevedibile da una rappresentazione fenomenica e classificatoria all'altra, costringendo ad un continuo aggiustamento delle definizioni e delle operazioni conseguenti; il modo di intervenire, per seguire tali oscillazioni, è sempre quello di lavorare sugli impliciti culturali e sulla lingua con cui tali impliciti vengono ordinati.
La cultura non solo conferisce significato e valore alle componenti dello spazio vitale, ma impone anche il modo di strutturare queste componenti in un insieme significativo.
La riduzione della diversità, anche attraverso l'esaltazione delle ibridazioni culturali, o il suo annullamento in via di principio, l'ecumenismo ideologico e i suoi travestimenti di cui parla Piero Coppo appaiono proprio dettate dal punto di vista, privilegiato e vantaggioso, delle società occidentali che dichiarano fuorilegge la diversità culturale, individuando in essa un residuo primordiale incompatibile con il progresso fondato sull'uguaglianza dei diritti individuali (Coppo, 2007).
Vi è la possibilità secondo cui il soggetto opera una naturalizzazione autolegittimata della propria persona al contesto adattivo, incastonando la fenomenica morbosa nel calco fornito dalla cultura di accoglienza (Beneduce, 2010). Si potrebbe sostenere che la naturalizzazione del soggetto straniero non procede soltanto attraverso l'adozione dei valori e degli strumenti messi a disposizione dal contesto ospitante, ma anche per mezzo di una omologazione per via patologica e psicopatologica a questo stesso contesto. Nella lungimiranza del maestro riconosciuto dell'etnopsichiatria si rinviene anche l'indicazione che i veri pronlemi di produzione e diagnosi delle forme psicopatologiche insorgono dopo che lo straniero risiede per un lungo periodo nel paese ospitante, quando incomincia ad interiorizzare i conflitti esistenti in questo contesto socioculturale e mentre si avvia o si è definitivamente consumato il deterioramento della sua personalità etnica (Devereux, 2007).
L'etnopsichiatria persegue una doppia aspettativa:
– la conoscenza generale e specifica dell'alterità culturale contempla un sapere appropriato intorno ai disturbi presentati da coloro che abitano queste lontananze; – la conoscenza dei sistemi scientifici tradizionali e sapienti, diversi dal nostro, può
fornirci nuove ed illuminanti idee sulla psicologia normale e patologica.
Lo statuto della disciplina etnopsichiatrica è conferito alla rete dei significati tessuta dall'interazione tra cultura, psicologia (principio vitale) e tecnica di cura.
L'etnopsichiatria si propone di:
– studiare tutti i sistemi terapeutici, senza alcuna preclusione, illustrandone la razionalità accoppiata all'intrinseca strategia operativa, riconoscendoli come proprietà essenziale di gruppi culturalmente determinati, con i quali bisogna sviluppare un rapporto autentico di collaborazione scientifica;
– discutere il valore della psicopatologia, della psichiatria e della psicoterapia poste nuovamente di fronte alla necessità di giustificare il proprio senso e significato al cospetto di coloro ai quali dovrebbero essere applicate istituzionalmente. Bisogna inoltre verificare la tenuta di tali costrutti scientifici qualora esposti al turbamento dell'alterità culturale;
– praticare una clinica che incorpori nel proprio dispositivo le soluzioni tecniche sperimentate a contatto con le altre modalità terapeutiche, le innovazioni che ha saputo riconoscere nel corso della sua ricognizione scientifica, i discorsi critici intorno ai problemi del metodo scientifico.
L'etnopsichiatria potrebbe essere immaginata come una stazione di smistamento (Coppo, 2007b) che rinvia gli individui ai loro mondi originari, ma anche come una sorta di incrocio dove transitano in modo ordinato varie visioni del mondo. Se l'etnopsichiatria non riuscisse a darsi questa struttura topologica (coincidenza e sovrapposizione) e questa dinamica funzionale (smistamento e rinvio), finirebbe per produrre la catastrofe della naturalizzazione psicologica e culturale già riconoscibile nella declinazione psicopatologica. Il disagio e la malattia, difatti, non è solo un fenomeno disfunzionale, ma è anche una particolare modalità di affiliazione, contraddittoria quanto sofferta, alla società ospitante, una sorta di procedura di naturalizzazione.
Per poter lavorare in favore dei gruppi visibili (paziente, famiglie, rappresentanti culturali, operatori terapeutici) bisogna mobilitare gruppi invisibili (antenati, divinità ancestrali) e negoziare con loro attraverso una teoria di oggetti altamente specifici, la cui manipolazione corretta costituisce un'abilità terapeutica essenziale. Questa inclinazione conferma la regola generale, comune a tutte le attività cliniche, secondo cui dietro ogni terapeuta esiste un mondo complesso, a struttura rizomatica (Deleuze, Guattari, 2002), fatto di innumerevoli oggetti materiali (farmaci, laboratori, libri, strumenti di misurazione, divani) e immateriali anche se altrettanto reali (concetti, parole, interpretazioni).
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Etnopsichiatria e complementarismo in Nathan7
Etnopsichiatria è un termine ambiguo, è costruito sul modello di “etnoscienze”.
La parola etnoscienza implica che si tratti di conoscenze legate ad un popolo e non di saperi astratti, dominanti dall'alto della loro verità universale. Nonostante questo loro tratto legato, forse addirittura piantato, sull'ascendenza verticale di ciascun essere umano e di ciascuna popolazione, queste etnoscienze costituiscono veri saperi che, in quanto tali, interessano l'umanità intera. L'etnopsichiatria è stata forgiata su questo modello e dunque comporta che quanto definiamo psichiatria abbia un proprio equivalente in una etnoscienza. Devereux ha aggiunto che non esiste alcun popolo senza etnopsichiatria, ossia un popolo che non possieda un sistema di individuazione e di presa in carico di un 7Tobie Nathan nasce in Egitto nel 1948 da una famiglia ebrea, ma a causa di complicate questioni politiche del tempo la sua famiglia compra la nazionalità italiana. A otto anni insieme al padre e alla madre lascia l'Egitto e si trasferisce in Italia, ma vi resterà pochissimo tempo. Si trasferirà in seguito in Francia dove resterà definitivamente. Dal punto di vista linguistico la sua famiglia parlava l‟arabo, lingua veicolare del paese e poi, come succedeva per molti ebrei, aveva una lingua che si parlava in famiglia. Questa lingua non era l'ebraico, usato solo a livello rituale, bensì il francese. Insomma, Tobie Nathan nasce in Egitto, è ebreo, parla il francese e l‟arabo e vive sulla sua pelle due migrazioni: prima quella in Italia e poi in Francia. E' lui stesso che lega queste esperienze di vita alla sua storia professionale.
Inizialmente Nathan studia gli effetti psicopatologici dell‟ideologia sessuale comunitaria praticata dalla generazione libertaria francese: questa sua ricerca è pubblicata nel 1977 con il nome di, Sexualité idéologique et névrose. Nel 1979 pubblica invece, Psychanalyse et copulations des insectes, in cui analizza l'universo degli insetti nelle fantasie psicoanalitiche. Nel 1979 crea la prima consultazione in etnopsichiatria nell'Ospedale Avicenne di Bobigny presso il servizio di psichiatria del bambino e dell‟adolescente a quel tempo diretto da Serge Lebovici. Dal 1988 al 1992 lavora presso il Centro di Protezione materno infantile di Saint Denis dove riceve soprattutto pazienti maghrebini. Nel 1986 diventa professore di Psicologia clinica e psicopatologia all‟università di Paris VIII e qui nel 1993 fonda il centro “Georges Devereux”, che dirigerà fino al 1999.
Già durante gli anni di lavoro in ospedale e al centro materno-infantile Nathan perfezionò il dispositivo clinico al fine di affrontare le difficoltà che comportava prendere in carico pazienti migranti. Sin dalle prime consultazioni, Nathan e la sua équipe si trovarono di fronte il problema della popolazione migrante, che veniva descritta soprattutto in termini di carenza, sociale, fantasmatica, di elaborazione . Spesso questi pazienti erano ricoverati in ospedale per problemi fisici, nati in genere in seguito ad un incidente sul lavoro. Nonostante tutti gli accertamenti risultava che i loro disturbi somatici non avevano niente di organico e venivano inviati quindi allo psicologo. Ma davanti allo psicologo essi si zittivano, non solo per problemi strettamente linguistici ma anche perché il loro mondo era lontanissimo dal mondo psicoanalitico. L'idea che attraversava la nascita della clinica etnopsicoanalitica era quella di pensare che la presa in carico di pazienti di altre culture non funzionasse non per colpa del migrante, in qualche modo deficitario, ma a causa del dispositivo tecnico utilizzato. Il tentativo diventò quindi quello di creare un nuovo dispositivo dove queste carenze si potessero trasformare in fonti di arricchimento e innovazione tecnica. Questa posizione portò Nathan a creare delle soluzioni alternative che rendessero realizzabile la clinica con i migranti, come per esempio la possibilità di parlare la propria lingua o quella di fare le consultazioni in gruppo. Parlare la propria lingua significava anche parlare del proprio mondo, del quale il terapeuta non conosceva niente, motivo per cui aveva bisogno di essere aiutato nella comprensione; da qui deriva l'esigenza dell'utilizzo di mediatori culturali. Questa organizzazione sovvertiva così il ruolo del paziente che invece di portatore di carenze diventava l‟esperto, colui che più conosce il suo mondo. Quando nel 1992 viene creato il Centro “G. Devereux”, le consultazioni si aprono anche a pazienti non maghrebini man mano che all‟interno della facoltà si formano psicoterapeuti appartenenti ad altre culture.
Dopo aver diretto il Centro Devereux, Nathan ha diretto per tre anni l’Istituto di Insegnamento a Distanza dell‟università Paris VIII e per un anno l’Agenzia Universitaria della Francofonia in Burundi; dal 2004 è Consigliere per la Cooperazione e l’Azione Culturale presso l'ambasciata francese a Tel Aviv in Israele.
certo tipo di disturbi. Etnopsichiatria è, quindi, il contrario di psichiatria transculturale: questa rappresenta una psichiatria adeguatamente congegnata, fino a renderla accettabile da popolazioni non preparate ad essa. L'attributo transculturale è ben scelto: attraversare, cioè attraversare le culture senza perdere il bagaglio messo a punto nella propria. La psichiatria transculturale è un tentativo di annullare la metamorfosi del viaggio; l'etnopsichiatria, invece, partendo dal principio che i popoli possiedono un sapere sulla malattia, il disturbo, ma soprattutto sulle pratiche di cura, e considerando che tale sapere è suscettibile di insegnamento e che le sue tecniche possono venire teorizzate, sperimentate, utilizzate, non può essere che uno strumento di decostruzione delle certezze. L'etnopsichiatria non può essere una professione ma solo un obbligo a mettersi a scuola di un altro mondo (Nathan, 1990), in un altro spazio; di conseguenza, non si tratta di una pratica già etichettata nel nostro universo ma piuttosto di un'area di indagine, di riflessione, di ricerca. Questo la distingue radicalmente da chi pratica la psichiatria transculturale: lo specialista in psichiatria transculturale è uno psichiatra, poiché tale pratica non va a modificare i connotati della sua professione; il professionista in etnopsichiatria, invece, assume a priori la postura di un apprendista, e l'esistenza stessa del suo dominio di interesse presuppone che i popoli di cui si occupa sono esperti in pensieri, ricerche, dispositivi che li riguardano e che conoscono meglio di lui. Colui che pratica l'etnopsichiatria fa un tirocinio immerso in un universo intorno al quale si domanda se vi sia qualcosa che interessi la psichiatra dei mondi moderni (Nathan, 1998); tenta, forse, di conoscere ed osservare qualcosa di vivo.
L'etnopsichiatria potrebbe realmente sviluppare una multidisciplinarità complementarista a condizione che uno stesso ricercatore riuscisse a dar conto, in modo ugualmente convincente, di una spiegazione indigena (etnoscienza) e di una spiegazione scientifica (scienza) dello stesso fenomeno. Nell'ambito delle scienze umane non si riuscirebbe a trovare il complementarismo tra psicologia e antropologia, ma solo tra scienza ed etnoscienza, tra psichiatra ed etnopsichiatria.
A proposito della migrazione, Nathan sostiene che se accettiamo l'idea di comparare la migrazione ad un percorso iniziatico e, al contempo, a uno spazio transizionale, bisogna constatare quanto sia insensato esigere dai migranti e dalle loro famiglie che affrontino in solitudine le prove della vita in un paese straniero. Nello spazio della migrazione il gruppo ideale e naturale non esiste più, ci si deve arrangiare con i materiali e le persone presenti nel paese di accoglienza, ossia, essenzialmente, gli operatori sociali insieme al personale medico e psicologico (Moro, 2001). È formulabile, quindi, l'ipotesi che il quadro ed il
dispositivo etnopsichiatrici permettano di rimpiazzare o di ricreare, in via transitoria e momentanea, il gruppo originario mancante.
L'etnopsichiatria clinica, inventata e messa in funzione nei suoi dispositivi da Nathan, trova la sua precipua originalità nel saper stabilire, nel corso della consultazione, dei legami dinamici tra lo psichismo del paziente, la sua cultura specifica e le altre culture, rappresentate da persone di diversa origine che si dispongono attorno al paziente. Durante le sedute, il materiale culturale fornito dal paziente e dai coterapeuti serve da leva terapeutica al gruppo curante, al paziente e alla famiglia migrante, per negoziare lo spazo psicoterapeutico ma anche per correggere le disfunzioni psicoculturali e relazionali introdotte dal viaggio migratorio e dall'esperienza che ne segue.