6.3 Nathan: l'allievo che ha superato il maestro?
6.3.2 Universalismo
L'etnopsichiatria ha definito il suo dispositivo in questo modo: è la presenza dei migranti nell'ambito dei dispositivi di cura che può informarci su noi stessi e sui nostri modi di curare; una tale posizione rompe tanto con l'universalismo quanto con il relativismo. In altri
termini, se l'essere umano è sempre e ovunque lo stesso, al punto che ci si può astenere dal cercare la conferma di questo enunciato nelle conclusioni di ogni ricerca sul terreno, in compenso gli oggetti fabbricati dai vari gruppi sono differenti; la differenza che vale la pena di studiare si trova negli oggetti, nelle cose, e non negli umani. È importante tenere presente che quando Nathan si riferisce a “cose”, intende parlare di oggetti fabbricati dai collettivi e non dagli umani, sia pure riuniti in gruppi; esempi di “cose" come intese da questo studioso sono le lingue, i sistemi di cura, le tecniche di divinazione o di fabbricazione dei feticci, e così via (Nathan, 1996).
Con il metodo clinico sviluppato in etnopsichiatria, l'importante non è più distinguere il vero dal falso di un pensiero, ma ciò che questo pensiero mobilità; di conseguenza, lo “psi” non può essere il rappresentante di tutti i migranti, perché ha rinunciato a dire al loro posto la cosa che essei pensano. Il clinico non si sente mai rappresentante dei migrante, non li sollecita o motiva mai ad un cambiamento nei modi di percezione e di azione; ma, d'altro canto, la loro presenza nelle nostre istituzioni ci costringe a modificare o a inventare spazi, luoghi, dispositivi di cura. L'etnopsichiatria concentra tutti i suoi sforzi nella fabbricazione di un luogo in cui i migranti possano emergere come soggetti e attori di un'esperienza interessante e nutriente; essa non difende i migranti, ma propone loro tutta un'altra cosa, ossia uno scambio di saperi esperti, per arrivare ad una soluzione mediata e ri-cercata assieme. Problematizzando la comprensione delle difficoltà psichiche incontrate dai migranti, l'etnopsichiatria ha effettivamente contribuito a fare della psicoterapia un problema sociale e a convincere del principio che questo problema concerne gli attori della vita sociale, e in primo luogo gli utenti delle nostre istituzioni.
Nella clinica ci si deve assumere anche il rischio del pensiero perturbante, spiazzante, nuovo, che si muove in direzione di una creazione, piuttosto che di una conferma. Far correre un rischio al proprio pensiero è una azione volontaria consistente nell’indirizzare la propria riflessione a raggiungere un luogo in cui ci s trova costretti a fabbricare dei dispositivo, suscettibili di convocare dei testimoni al processo di esistenza di esseri nuovi. È un viaggio, un processo creativo che disperde quante più certezze possibili, non perché esse non siano valide, o siano da rigettare totalmente, e in favore di qualcosa di esotico e lontano, ma perché tutte le nostre certezze, soprattutto quelle più radicali e quindi quelle che ci appaiono “naturali”, favoriscono l'emergere di quell'atteggiamento universalistico che disumanizza l'altro, spogliandolo di quell'attributo tutto umano di produrre pensieri, oggetti, dispositivi, nuovi e diversi, unici come uniche sono le culture da cui gli umani provengono, e dentro le quali vengono fabbricati.
CAPITOLO 2
L'ESPERIENZA ANTROPOLOGICA: L'ALTRO
Dal diario di ricerca del 23 Novembre 2011
Dove ho cercato l'esperienza antropologica originaria, ho trovato spettacoli più o meno suggestivi, o riusciti, buoni per i turisti; non che non esistano più i riti autentici. L'altro l'ho trovato molto più facilmente qui, e questo mi pervade a pensare che la prospettiva culturale nell'ambito della cura e della clinica non sia un ingenuo intervento specialistico rivolto a pazienti migranti, accolti qui e provenienti da lontano, ma sia bensì una prospettiva che attraversa per intero la relazione terapeutica. Tobie Nathan disse che "più che guarire con riti sciamanici pazienti selvaggi (ossia mai domati, resi docili alle nostre cure, alle nostre attenzioni) penso che il compito di chi si occupa di clinica culturale sia quello di prendersi cura del senso della vita delle persone, a partire dalla meraviglia e dallo stupore che suscita, in loro ed in noi, il loro modo di vivere, le loro concezioni del mondo" (Nathan, 1998:59). In questo aiuta il mediatore, come mediatore della e nella cura, ma soprattutto come esponente di spicco della cultura della mediazione, intesa come profonda curiosità sapiente che si esercita nella relazione terapeutica.
Paragrafo 1
Asimmetria tra culture
Spesso, i processi di acculturazione si accompagnano ad una forzatura, richiesta ai migranti, nell'abbandonare la propria lingua e la propria cultura, almeno al di fuori delle loro case, in quanto esse appaiono come il buio dal quale dover uscire per poter abbracciare una lingua ed una cultura illuminate. Le diverse culture, quando entrano in contatto, lo fanno spesso in un assetto asimmetrico: ne esistono di dominanti e dominate, centrali e periferiche. Non a caso molti antropologi sono propensi, oggi, a sostenere che da un rapporto asimmetrico fra culture non avvengono ibridazioni, ma sostituzioni, sottolineando così che il cambiamento è unidirezionale. Parlando di incontro tra culture, è opportuno considerare i rapporti di potere che istituiscono il campo in cui esso avviene. I migranti, spesso, ancora oggi, vengono considerati in maniera univoca come una massa interamente omogenea, anziché soggetti distinti, persone con un'identità specifica, una
storia singolare e sociale che li precede ed un insieme di attitudini, forze e propensioni che li guidano. Essi si trovano spesso a vivere in una condizione di estrema complessità, il loro mondo è una realtà scossa, perché la loro identità, almeno inizialmente, appare come incompiuta, giocata in una sospensione tra un là ed un qua che produce una trasformazione di difficile interpretazione; il migrante compie, in effetti, un percorso di ricomposizione identitaria, in cui gli universi simbolici originari si rielaborano alla luce di nuove condizioni materiali (spesso molto dure), sociali e culturali, dando vita ad una identità soggettiva e gruppale che travalica i confini, nostri, costruiti sul passato, il presente ed il futuro. La figura del migrante è realmente perturbante, in quanto capace di destabilizzare i confini, rendendoli permeabili ancor più di quanto già lo siano, alle contaminazioni, alle battaglie, ai rifugi, alle fughe. Essa ci obbliga ad una provvisorietà epistemologica ed operativa al contempo, condannati al vagabondaggio tra quell'atteggiamento definito da Nathan “universalismo disumanizzante” per il quale tutti sono indistintamente buoni ed accoglienti, ricchi in quanto diversi, e l'altro, il suo opposto, in cui tutto il materiale culturale altro diventa pericoloso, poiché capace di smascherare la perdita di contatto che la nostra cultura vive con le sue radici più profonde. Parlare di migrante come, anche, di possibile agente di trasformazione ed innovazione sociale, qui nel paese di accoglienza e là nel paese lasciato, significa soprattutto dichiarare ed istituire, una volta per tutte, un'apertura nel nostro sistema di sapere che voglia accogliere tradizioni e saperi altri, e che accetti di imparare a lavorare anche con altre tradizioni, messe accanto, in relazione dialettica e complementarista, alla nostra.
Se la migrazione può essere una sorgente di rinnovamento, non da meno, se non padroneggiata, può però anche essere all'origine di gravi problemi e di molteplici delusioni, aumentando i rischi di vulnerabilità e sofferenza del migrante, già reso fragile per la perdita dell'involucro culturale interno, fornitogli dalla sua fabbricazione. Migrare, come dice Nathan, comporta due sensi, due movimenti; emigrare ed immigrare. Emigrare è lasciare, perdere l'involucro dei luoghi, suoni, odori, sensazioni, che costituiscono le prime impronte sulle quali si è impiantato il codice di funzionamento psichico e di registrazione della realtà; immigrare è ricostruire, da soli molto spesso, nello spazio nuovo ed oscuro, in un arco di tempo breve, quello che generazioni hanno lentamente elaborato e trasmesso (Nathan, 1998).
Nel gruppo di migranti è importante sapere chi ha migrato per primo e che è arrivato da poco, perché molto spesso la migrazione nella sua prima fase è perdita di riferimenti quotidiani, è un processo violento per la persona, fa avvertire un senso di estraneità alla
nuova realtà, in senso ecologico-ambientale ma anche rivolto all'interno, negli abissi della psiche umana e del suo funzionamento.
La decisione di migrare è aspirazione a migliorare la propria esistenza, desiderio di conoscenza e di esplorazione, necessità, insoddisfazione, critica radicale del proprio mondo e, contemporaneamente, nostalgia per esso. Ed è proprio il bisogno di emancipazione in cui matura il carattere sovversivo e destabilizzante della migrazione, come scelta individuale ma più spesso come richiesta di un nucleo familiare (e quindi come specifico fenomeno sociale), che sa mettere in crisi i concetti stessi di cittadinanza e di diritto universale, rivelando la loro parzialità e i meccanismi iniqui di inclusione ed esclusione perpetuati continuamente a livello globale. “Persona fuori luogo” per eccellenza, incongrua ed inopportuna, priva di un luogo appropriato nello spazio sociale e di un luogo assegnato nelle classificazioni culturali, il migrante funziona come uno straordinario strumento di messa a fuoco delle zone più oscure del non detto sociale e politico. E la difficoltà che si ha nel pensarlo, non fa altro che rivelare l'imbarazzo creato dalla sua inesistenza ingombrante, anche per gran parte degli strumenti della conoscenza, che del resto riproducono, spesso acriticamente, le categorie, i presupposti e le omissioni del linguaggio politico e normativo.
Bourdieu, a proposito, disse che "ormai ovunque di troppo, sia nella sua società di origine, sia nella società di appartenenza, il migrante obbliga a ripensare da cima a fondo la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza e della relazione tra il cittadino e lo Stato, la nazione e la nazionalità" (Bourdieu, 2002:6)
Con le sofferenze fisiche e psichiche che questa doppia assenza lo costringe a sopportare, il migrante ci rivela tutto ciò che la dimensione etnocentrica della nostra appartenenza culturale ha iscritto nell'intimità più profonda dei nostri pensieri e dei nostri comportamenti.
Ci costringe a scoprire le menti e i corpi colonizzati e reciprocamente irriproducibili, di dominanti e dominati; l'approccio alla migrazione e alle persone migranti, essendo profondamente condizionato da un sistema cognitivo di segno coloniale, assorbito ed interiorizzato, attraverso le forme e la storia del dominio, anche dagli stessi colonizzati, rende necessario un ripensamento della complessa relazione che sta alla base della clinica culturale e del conflitto identitario, palese o latente, che la rende necessaria. Ripensare la clinica e la cura all'interno del gruppo terapeutico comporta innanzitutto un riposizionamento dello sguardo, una ristrutturazione di quello che sappiamo o crediamo di
sapere dei nostri rapporti con la diversità e la lontananza, per arrivare ad una paziente decostruzione di tutto il sapere che sta alla base della nostra stabilità identitaria, in cui è profondamente, e anche inconsapevolmente, iscritta l'epistemologia coloniale.