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Ogni atto è oggetto di negoziazione con il paziente e il suo gruppo. Il percorso terapeutico è guidato dall'intenzione di non spezzare il legame tra l'individuo e la collettività visibile e invisibile cui si riferisce, di salvaguardare quindi le sue appartenenze fondamentali. Intenzione a cui non si potrebbe dar corso se il terapeuta non assumesse consapevolmente la propria appartenenza culturale (e quella del saper-fare che rappresenta) e non ne facesse esplicito materiale di lavoro; di conseguenza, il setting sarà aperto, molteplice e plurale, con l'obiettivo di indurre e sostenere processi trasformativi laddove il lavoro di costruzione dell'individualità non sia stato completato o, per traumi subiti, si siano prodotte nell'involucro delle persone lesioni irrisolte che inficiano la sua possibilità di essere nel mondo.

Alcuni autori propongono la “psicoterapia biografica dell'esperienza migratoria” (Mellina, 1997), basata sul principio che un evento traumatico provoca sempre una soluzione di continuità sul fluire dell'esistenza individuale. L'evento, nel nostro caso la migrazione,

produce una fattura, una lacerazione, talvolta un buco, una cesura temporale del vissuto in colui che la esperisce. Tale evento diviene tanto più significativo e comprensibile allorché venga letto ed interpretato nel senso propriamente biografico (ossia storico e personale) della continuità dell'esser-ci del soggetto migrante. L'obiettivo è ricontestualizzare il paziente decontestualizzato dalla migrazione.

Anche per Nathan il racconto è un elemento essenziale in etnopsichiatria. Nelle pratiche sapienti tradizionali si configura come un oggetto singolare che trascende il discorso; utilizzato nella nominazione o in veste di matrice mitica, enunciato o implicito, è un oggetto di origine esterna, è poco sensibile alle distorsioni e alle elaborazioni interne, organizza delle strutture nell'apparato psichico di chi lo riceve; impone, in questo modo, delle continue riorganizzazioni.

L'aspetto più importante della metodologia etnopsichiatrica è l'utilizzazione delle leve culturali per facilitare l'elaborazione di insights mentali prima impensabili. Devereux segnala il rischio rappresentato dal misconoscimento da parte del terapeuta del doppio e complementare lavoro di fabbricazione culturale e di costruzione psicologica attraverso cui viene prodotto ogni individuo appartenente a un qualunque gruppo umano. La caratteristica fondamentale dell'etnopsichiatria è dunque quella di includere tra il materiale da lavorare la continuità tra psiche e cultura cui si riferiscono i vari (tutti gli) attori implicati nel processo. L'etnoclinico assume fino in fondo l'alterità propria ed altrui, la lascia intatta, la esplicita e ne fa oggetto di lavoro; questo obbligo a cui tutti si legano rappresenta l'ossatura del saper-fare etnoclinico, e comporta fondamentali conseguenze. La prima è far intervenire nella scena terapeutica la lingua del paziente e del suo gruppo, e convocare sul setting dei mediatori, rappresentanti della lingua e della cultura del paziente. La loro comparsa discosta di molto la situazione etnopsichiatrica da quelle classiche psicoterapeutiche e psicoanalitiche; è un'innovazione che Nathan pone come momento fondante il dispositivo etnopsichiatrico. Insieme con la lingua, sono anche convocate le teorie dei presenti: del paziente e del suo gruppo, ma anche dei mediatori e del terapeuta. Ne deriva un setting plurale, percorso da voci, rappresentazioni, riferimenti molteplici e contraddittori; il terapeuta principale, al quale è stata affidata la conduzione della seduta, identifica la teoria da mettere alla prova in quella che è maggiormente in continuità con la cultura del paziente e del suo gruppo, e con l'aiuto del mediatore ne sviluppa, attraverso indicazioni, prescrizioni e riferimenti, insomma le potenzialità risolutive. Poiché l'etnopsichiatria considera ogni umano nel contesto dei suoi gruppi di appartenenza, l'etnoclinico deve essere in grado di intervenire, per trasformarle o completarle, sulle

stesse catene logiche e operative che costituiscono la trama dell'individualità.

L'etnopsichiatria è coinvolta nei transiti di popoli e culture, di individualità e di gruppi; poiché è animata innanzitutto dall'interesse per le differenze, essa riconosce a ciascuno la piena competenza sulla propria storia ed esistenza; si preoccupa di non veicolare visioni del mondo, morali, concezioni antropologiche sue proprie, ma evoca piuttosto quelle relative ai pazienti e ai loro gruppi, le fa interagire tra loro, favorisce i confronti e la negoziazione. Il rischio maggiore è che nell'etnopsichiatria finisca per depositarsi, anziché un corpo di teorie e pratiche sottoposte a continui aggiornamenti e verifiche da parte della critica e dell'analisi del controtransfert culturale, una ideologia con relativa morale e visione del mondo; su tutto aleggia l'esotismo, vera piaga di tutte le scienze che si occupano dell'altro, del diverso.

Alcune precondizioni sono richieste a coloro che operano nell'etnopsichiatria e nell'etnoclinica, indipendentemente dalla specifica formazione professionale: occorre che abbiano raggiunto la consapevolezza di essere costruiti da una specifica storia e cultura, di rappresentare solo uno dei modi possibili dell'esserci nel mondo come umani, e che abbiano rinunciato alla pretesa di incarnare l'ideale umano. L'obiettivo è acquisire la neutralità culturale che permette di cogliere il vero senso di cui è investito un dato tratto culturale nella società contemporanea e nel gruppo a cui appartiene il paziente (Devereux, 2007:106). Viene raccomandata la necessità di viver uno “spaesamento formativo”: nella nostra vita quotidiana prendiamo per naturale ciò che è solo convenzionale, e l'abitudine sottrae alla percezione una moltitudine di gesti, essendo resi ciechi dall'automatismo. Il migrante non ha però questo handicap: non condividendo le nostre abitudini, le percepisce piuttosto che subirle; egli procede costantemente per comparazione implicita con il proprio paese, cosa che gli dà il privilegio di scoprire le nostre carenze, cioè quello che noi non vediamo, e gli conferisce lo statuto del doppio esperto, della propria cultura e delle costruzioni implicite della nostra.

Alcuni principi teorici risultano poi indispensabili a chi naviga nelle acque agitate dell'etnopsichiatria:

– deve partire dal presupposto che tutti i sistemi terapeutici, tutti i vari saper-fare che attengono alla cura di psiche (psichiatria, psicologia e psicoanalisi comprese) sono culturalmente determinati e meritano di essere presi in considerazione, analizzati, messi alla prova;

– è tenuto ad esercitare una sospensione del giudizio anche di lunga durata, nel rispetto delle scelte del paziente e del suo gruppo, e a ritenere innanzitutto costoro

gli esperti del problema;

– deve sostenere la funzione generativa dei conflitti e la coesistenza in modelli pluralistici e non gerarchici. La strategia deve infatti essere sempre finalizzata a rafforzare la continuità tra individualità impegnate in specifici processi di crescita ed esperienza e i gruppo visibili ed invisibili, presenti o assenti, cui sentono di appartenere, nonché a promuovere forme di complementarietà tra individualità e gruppi diversi che intendono rimanere tali;

– deve voler/poter decostruire l'ideologia individualistica e resistere alle affiliazioni a gruppi artificiali, tenendo come riferimenti il gruppo e le culture testimoniate dal paziente.