Oggetto della mia ricerca è il fondamento dei comportamenti umani collettivi indotti dalla coesione sociale, cioè dal costituirsi di raggruppamenti più o meno organizzati in vista di un fine determinato. Si tratta cioè di scoprire le motivazioni profonde che inducono gli individui a comportarsi nella “massa” diversamente da come si comporterebbero
isolatamente. Gli individui, per effetto della suggestione e del contagio esercitati dalla massa, perdono in autonomia, iniziativa intellettuale, equilibrio e libero discernimento morale, ma al contempo acquistano un sentimento di forza che deriva loro dall'essere parte di un tutto rassicurante e coerente. Nella vita psichica del singolo l'altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore o nemico, e pertanto, in questa accezione ampia, la psicologia individuale è anche, fin dall'inizio, psicologia sociale (Todorov, 1997).
In psicologia non si possono condurre osservazioni su alcun fenomeno senza aver coscienza delle idee che impieghiamo per condurre tali osservazioni. Le idee che non sappiamo di possedere ci posseggono modellando le nostre esperienze dietro le nostre spalle, a nostra completa insaputa. Compito della psicologia è di vedere, prima o durante l'esame dei dati e degli eventi, il fattore soggettivo archetipico che sta ai nostri occhi. La psicologia è vincolata dai suoi limiti psichici e può risparmiarsi la finzione dell'oggettività; anziché l'obbligo ad essere oggettivamente fattuale, ha quello di essere soggettivamente consapevole, il che è possibile soltanto se siamo disposti ad affrontare, senza trascurarne nessuno, tutti i postulati della nostre nozioni più basilari. L'antropologia, dal canto suo, già da molto non si limita più allo studio delle società in via di estinzione: il suo oggetto intellettuale è, più precisamente e più ampiamente, lo studio di quelle relazioni simbolizzate ed istituite tra individui che prendono forma nei contesti più o meno complessi di cui i gruppi studiati dalla prima etnologia forniscono esempi paradigmatica o elementari. L' Antropologia è lo studio delle relazioni sociali; l'individuo avverte la propria identità solo all'interno e attraverso la relazione con gli altri; le regole strutturali di questa relazione gli pre-esistono sempre. È in questo fattore che la collaborazione tra le due scienze raggiunge un apice fecondo: è nell'interstizio tra relazioni sociali e la consapevolezza del nostro funzionamento che le due scienze possono colloquiare, e forse produrre un discorso nuovo. Centrale, nel rapporto tra antropologia e psicologia (in particolare quella infantile e dello sviluppo), è il concetto di inculturazione: le scoperte prodotte nell'ambito della psicologia infantile e di altri campi ad essa collegati, che si possono interpretare come indicative di modi specifici in cui la sensibilità interpersonale dei bambini può essere formata dai loro ambienti sociali, portano oramai a considerare come valida l'ipotesi che i genitori (o i caregivers) di una certa cultura tendano a promuovere comportamenti infantili considerati coerenti con il modello di virtù di quella stessa cultura, e che riescano in media a raggiungere tale obiettivo. È chiaro che lo sviluppo culturale non viene determinato solamente da quanto è stato indotto precocemente nella prima infanzia, ma
l'inculturazione dei piccoli li pone in una posizione di vantaggio per adempiere agli standard di valori locali, in particolare per quanto riguarda alcune dimensioni relazionali, significative dal punto di vista psicologico, quali l'attaccamento, la distanza sociale, la sensibilità per i sentimenti altrui, gli scambi conversazionali. Il dialogo creatosi tra le due scienze nell'ambito dello sviluppo dei bambini in diverse culture (un'interpretazione culturale dello sviluppo sociale precoce) si distingue dal modello universalistico (Bowlby, in LeVine, 1994), opponendosi alla definizione di una singola norma di sviluppo ottimale per tutti gli esseri umani; grazie, anche, agli intrecci di saperi di natura psicologica e antropologica, è oggi patrimonio comune di chi si occupa di differenze culturali che ciascun gruppo culturale induca nei propri bambini comportamenti che riflettono il programma che i genitori o i caregivers condividono per lo sviluppo, e che questo riflette a sua volta le ideologie culturali più generali che prevalgono in una popolazione (LeVine, 1994). Genitori di culture diverse non sono quindi obbligatoriamente d'accordo su ciò che è desiderabile, soprattutto nei primi anni di vita del bambino: comprendere i desideri e i saperi di queste persone significa anche interpretare in modo plurale e multivocale il lavoro di cura richiesto dall'intreccio di diversi modelli di sviluppo, letti non tanto come prescrizioni morali per lacura dei piccoli (la psichiatria infantile di Bowlby ne è un buon esempio) quanto piuttosto come posizioni condizionate culturalmente, espressioni di un codice morale e una costruzione culturale di un contesto particolare, privo perciò di una validità universale.
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Antropologia e pedagogia: esperienza personale ed esperienza generale
Nell'educazione, nelle sue pratiche, nel suo essere progetto esperto, mi sembra di trovarci un po' tutti in quello che James Hillman (2006) chiama il “nuovo Romanticismo”, dove il sentimento è tutto: “come ti senti?”, esprimi i tuoi sentimenti”, “qual è il tuo vissuto?”, sono tutti buoni esempi di come la comunicazione si è sempre più centrata sulla descrizione dei sentimenti, prendendo il posto della comunicazione delle idee e delle intuizioni. Inoltre, lo spirito intellettuale della psiche e la comunicazione del pensiero vengono considerati un tradimento del movimento umano, di ciò che è tipicamente umano e di ciò che è una persona reale. Di nuovo possiamo vedere come il pensiero e il sentimento prendano la strada di arcaiche opposizioni; e questi sentimenti, espressi e partecipati nei gruppi e nella relazione educativa, sono così personalistici e noiosi! Ci piace tanto oramai pensare che
ciò che è personale al massimo è anche individuale al massimo, ma il personale, compreso l'Io, riflette spesso luoghi comuni e generalizzazioni. Perché l'esperienza possa colpire la psiche, è necessario trasformarla in qualcosa di fantastico, è cioè necessario che essa assuma un aspetto poetico, metaforico, mitico, che vada al di là (e se ne liberi, suggerirei) di ciò che è personalmente sentito. L'esperienza personale è contrapposta all'esperienza generale, o impersonale e astratta; ma essa è solo un livello dell'esperienza comune, generale (Hillman, 1997). Il personale potrebbe essere meglio considerato come il sentimento al banale livello dell'Io, l'Io sincero adolescente, centro sensitivo dell'universo.
educazione
L'educazione ha inizio con l'educazione dei genitori e degli educatori, e con l'istruzione elementare e non con quella superiore; con il ritardato anziché con il progredito, con l'abbassare il nostro sguardo e le sue norme, i suoi canali; con i dipinti eseguiti con le dita; con i giorni più lenti anziché con le ore più lunghe; con l'assaggiare anziché con il saggiare; con i nonsense anziché con la composizione perfettibile. Ovviamente sto parlando di noi, gli adulti, non di quello che i bambini dovrebbero fare.
Per sua stessa definizione, l'educazione deve “condurre fuori”, e condurre, come dire, la fantasia nell'immaginazione; ed eccoci, però, giunti al vecchio enigma, la differenza tra fantasia ed immaginazione, che si può situare nella diade madre – bambino. Fantasia è l'attività del bambino senza la madre; immaginazione è la fantasia che ha ricevuto cure materne, è intenzionale, risponde con sensibilità, si rivela premurosa. La parola chiave dell'immaginare non è libero, bensì fecondo (Jung, 1998), e il suo scopo non è il puro e semplice esplorare, ,a l'incoraggiare, il favorire, e l'ebbrezza della fantasia viene contenuta dalla coerenza e dall'accuratezza (Hillman, 1999). Questo riprendersi l'infanzia da parte dei bambini dà loro la possibilità di raggiungere ponderatezza, dignità e sobrietà, di realizzare il loro desiderio di ragionamento e dovere.
riflessione
La riflessione è un atto spirituale in senso contrario al corso della natura, cioè un fermarsi, un richiamare qualcosa alla mente, un formare un quadro, uno stabilire un rapporto entrando in contatto con ciò che abbiamo visto (Jung, 1998). Essa deve perciò essere intesa come un atto del divenire cosciente. Pur sottolineando l'importanza della riflessione per la coscienza, Jung non identifica le due cose: la riflessione è uno dei modi, un atto del
processo di divenire coscienti, che richiede certamente altri atti (fare, sentire, avere sensazioni) diversi dalla riflessione (Jung, 1998).
riti di passaggio ed individuazione dei confini
I riti di passaggio sono i meccanismi cerimoniali che guidano, controllano e regolamentano i mutamenti di ogni tipo degli individui e dei gruppi. In diversi settori della società moderna e meticcia, laddove agisce il sacro, i riti di passaggio svolgono la loro imprescindibile funzione sociale, che è quella di facilitare i mutamenti di stato senza scosse violente per la società, né bruschi arresti della vita individuale e collettiva. La struttura dei riti di passaggio riproduce, in termini simbolici, questa articolazione fisica, per cui i riti di passaggio si configurano necessariamente come:
– riti di separazione o preliminari; – riti di margine o liminari;
– riti di aggregazione o postliminari.
I primi agevolano il distacco dell'individuo da una situazione originaria; i secondi lo collocano in uno stato di sospensione; i terzi assecondano la sua introduzione nel nuovo territorio, nel nuovo gruppo o nella nuova categoria sociale. Da questa esposizione, risulta chiaramente la centralità, spaziale ma anche funzionale, della nozione di margine: è in effetti il margine ciò che elimina dal passaggio quell'immediatezza che provocherebbe turbamenti sia nella vita sociale che nella dimensione individuale; è il margine che rallenta il passaggio e vi introduce la gradualità tipica del rituale; è il margine, in altre parole, che impedisce la coincidenza tra il movimento di separazione e il movimento di aggregazione, perché senza margine l'allontanamento da una situazione iniziale coinciderebbe con l'avvicinamento all'altra situazione (Hillman, 1985; Van Gennep, 1981).
Sebbene il territorio occupato dai migranti nella loro terra originaria sia delimitato, solitamente, da limiti naturali, i suoi abitanti conoscono molto bene i limiti territoriali entro i quali si estendono i loro diritti e le loro prerogative; frequentemente, il confine è contrassegnato da un oggetto (un palo, un portico, una pietra) collocato nel punto preciso dell'entrata con l'accompagnamento di riti di consacrazione. Chiunque passi da un punto esterno, collocato nel fuori, ad un punto interno, collocato dentro, si trova da un punto di vista materiale e magico-religioso, per un periodo più o meno lungo, in una situazione particolare, nel senso che vive una sospensione tra due mondi. È questa la situazione designata al meglio con il termine di margine, e questo margine, ideale e materiale al
tempo stesso, accompagna il passaggio, sempre irto di questioni, dubbi, paure, da una situazione ad un'altra, da un mondo che si lascia ad un mondo nuovo; varcare la soglia, per quel padre, significa aggregarsi a un mondo nuovo, significa essere preso in una lotta tra il mondo familiare, delle radici, delle origini appena lasciate, di quello specifico nutrimento che solo la terra madre può garantire, e il mondo nuovo, il paese che accoglie il migrante e nel quale i figli crescono, vengono nutriti ed inevitabilmente ne vengono modificati, e ne viene modificato anche il progetto, educativo e sociale, che i genitori avevano giustamente pensato, secondo la propria visione del mondo, secondo il proprio specifico esserci nel mondo.
La commensalità, o rito di mangiare e di bere assieme, è chiaramente un rito di aggregazione: è un'unione propriamente materiale, possiede un'efficacia diretta, accettare di condividere spazio, tempo e cibo significa legarsi alle persone.
Nella migrazione, per i gruppi come per gli individui, vi è un movimento che significa disaggregarsi e riaggregarsi di continuo, una metamorfosi che fa mutare stato e forma, un po' morire per poi rinascere, altrove; si tratta insomma di agire per poi fermarsi, aspettare e riprendere fiato per poi ricominciare ad agire, ma in modo via via diverso. Sono, infatti, sempre nuove le soglie da varcare.