Che si aderisca alle proposte del relativismo, o a quelle del sincretismo, o a quelle dell'universalismo, il metodo etnologico di indagine e ricerca lascia alcuni dubbi, derivanti principalmente dalle origini della scienza antropologica, scienza indubbiamente figlia del colonialismo e delle logiche di potere sottostanti la missione civilizzatrice in cui l'Occidente, senza pause, percorse, e percorre ancora oggi in forme e modalità diverse, nella sua più recente storia (Valsecchi, 1999). Un esemplare caso che esplica i rapporti di forza messi in moto dall'Occidente nella costruzione dello sguardo sull'altro riguarda il mondo dell'arte, e l'incontro tra il nostro concetto di Arte e le altre forme artistiche prodotte altrove. Molto spesso, l'arte delle società non occidentali è stata definita “primitiva”; tale giustapposizione – due parole messe accanto in un unico campo semantico, “arte” e
“primitiva” - sembra enfatizzare, in accordo con quando sostenuto da Edmund Leach, un paradosso, in quanto, se l'arte degli altri è primitiva, allora il concetto, o la nozione, di artista è totalmente europea (Leach, 1976). Tralasciando qui l'impatto che tale arte ha avuto presso i maggiori artisti europei del Novecento (Picasso, Gauguin, Klee, Brancusi, etc..) i quali non hanno mai nascosto di essersi ispirati proprio a tali forme artistiche per rivitalizzare e modificare la scena culturale del Vecchio Continente, l'etichetta di “primitiva” si fuse per bene con le teorie evoluzionistiche in voga nelle scienze sociali, e tali forme artistiche, testimonianza di culture altre, divennero al contempo, e forse prioritariamente, testimonianza anche di tutto ciò che può essere definito come “arte arcaica”, ossia una possibilità per gli studiosi dell'Occidente di guardare in faccia, ed analizzare, prodotti culturali (e non artistici) molto simili ai prodotti culturali delle culture agli albori della civilizzazione umana. Insomma, i primitivi non producevano arte; i loro prodotti, però, erano utili all'Occidente per studiare l'evoluzione della cultura umana, dai suoi inizi fino ai giorni nostri, assumendo, e dando per scontato, che i produttori di tali oggetti si trovassero ad uno stadio di sviluppo molto vicino a quello dei nostri più lontani antenati. L'integrazione dell'arte primitiva avvenne in due fasi, attraverso due operazioni culturali. La prima fu l' “etnologizzazione” della produzione artistica delle culture altre (Eliade, 1976): visti come una deviazione rispetto allo sviluppo umano (umano occidentale, viene da aggiungere), questi prodotti sono, e restano, assolutamente differenti. La domanda fu: come studiarli e comprenderli alla luce della tradizione culturale occidentale? Tylor offre forse la risposta migliore all'interno della prospettiva etnologista: egli stabilì una relazione tra lo sviluppo della tecnica di, tra gli altri fattori, arti materiali e lo sviluppo delle mentalità, e conseguentemente sottolineò l'inferiorità dei primitivi, di cui le loro espressioni “artistiche” erano una prova inconfutabile (Tylor, 2000). L'operazione di etnologizzazione consiste nell'isolare un dato dal suo reale contesto (e i riferimenti al suo background sono generalmente utilizzati solo per studiare il dato come un'entità e mai come un elemento di un insieme culturale), analizzarlo (e nei fatti, differenziarlo da qualsiasi altra cosa), classificarne attributi e modelli, ed infine assegnargli un'etichetta, localizzandolo in una precisa latitudine, longitudine, tribù, etc.. . In quanto artefatto etichettato, il lavoro è pronto per essere registrato, analizzato, e sottoposto ad una griglia di studio etnografico. In questo processo, dalla prima fase di analisi fino alla fase finale di significazione, un'altra operazione ha luogo, ossia l'esteticizzazione: negli studi etnografici, ad un prodotto viene attribuito o negato lo status di arte sulla base di criteri esteriori, in quanto, effettivamente, per appartenere al mondo delle opere d'arte, un lavoro deve possedere caratteristiche
visibili che possano essere localizzate su una scala cronologica culturalmente determinata (in Occidente). Così, ben presto appare una differenza sostanziale tra opera d'arte e artefatto etnografico; mettere questi artefatti nei “musei etnografici” si impone come una necessità, di esibire culture altre per introdurle al grande pubblico in Occidente, ma soprattutto per attrarre l'interesse dei finanziatori che possono, e vogliono, investire nelle colonie (Eliade, 1976). La vocazione etnologica e il colonialismo si mescolano così, splendidamente, in una stessa logica, la logica dell'analisi, dell'etichettamento, della conoscenza, e del sano profitto.
Ho voluto scrivere e soffermarmi su questi aspetti perché non solo la logica del museo etnografico esplica meravigliosamente bene un orientamento storico ben preciso, ossia il bisogno e la necessità impellenti – per gli europei – di tracciare e ricercare memorie di arcaiche civilizzazioni e, conseguentemente, decodificare oggetto primitivi ed esotici come segni contemporanei e simbolici di una certa antichità perduta in Occidente, ma soprattutto per il fatto che la “sindrome da museo etnografico” è uno dei fattori che caratterizzano la logica con cui, ancora oggi, incontriamo l'altro. Nel mio lavoro di ricerca, uno degli aspetti centrali è stato quello di interrogare le tradizioni sapienti e le tecniche di cura degli adulti migranti incontrati all'interno delle istituzioni che, sul territorio veronese, si occupano della cura dei loro figli; fare questo ha sempre significato, per me, focalizzare attenzione e sforzi sulla creazione di uno spazio terapeutico, per quanto terapeutici possono essere una parola condivisa o un discorso che trova un bacino di ascolto e di accoglienza, ma soprattutto uno spazio che sappia farsi modificare nelle sue teorie più radicate e nelle sue pratiche più esperte dall'incontro con altre teorie, altre pratiche, altre visioni del mondo, della cura, dell'umano. Molte – troppe, ad essere sincero – volte ho sentito ripetere, invece, di quanto queste parole portassero una testimonianza di come le “cose” si facevano cinquanta anni fa qui da noi; bloccare tali saperi su di una scala evolutiva per cui noi occidentali siamo avanti a tutti, e gli altri hanno solo da faticare un po' per raggiungerci, ovviamente percorrendo la nostra storia, le nostre conquiste, il nostro modello di progresso, mi ricorda inevitabilmente questo atteggiamento da “museo etnografico”, in cui l'arte proveniente da lontano viene sepolta sotto le didascalie chilometriche che spiegano da dove essa arriva, che l'ha prodotta, il materiale di cui è fatta, e che, però, la trasformano anche in artefatto etnografico, che si presta compiacente al nostro sguardo in cerca di esotico e alla nostra fame di memoria dei tempi andati, e ritrovati in questo oggetto prodotto da persone che vivono come vivevano i nostri “nonnetti arcaici”. Direi che bollare e liquidare alcune visioni del mondo come testimonianza di ciò
che qui non c'è più, ma che in un tempo passato c'è stato (e per fortuna che i migranti ci ricordano di come eravamo), è un atteggiamento che non solo denota un soggiacente razzismo di matrice evoluzionistica, ma che non permette di interrogare forme e modalità sapienti che i migranti portano qui dalla loro terra; spesso capita che la sorgente prima e principale dei disturbi dei migranti, ma anche dei nostri disturbi, derivi dall'essere privati di un uditorio che ci ascolta, ed è triste constatare che ciò avviene quotidianamente in luoghi che si dicono “aperti”, ma che nella realtà dei fatti schiacciano e riducono al silenzio le persone che li attraversano, rimettendoli ostinatamente al loro posto, ossia relegati al ruolo di questuanti, di bisognosi.
Un altro grande problema relativo alla costruzione dell'alterità è la correlazione tra etnicità e alterità: l'idea del migrante che arriva da lontano, da un altrove scarsamente indagato e conosciuto dalle istituzioni, è circoscritta da una serie di etnicità, o differenze. Nella più recente letteratura scientifica, il concetto di etnicità rappresenta un tema ricorrente che enfatizza l'alterità di alcune entità culturali di base, definite attraverso un linguaggio e una storia particolari. Per alcuni autori, pensare “antropologicamente” significa validare l'etnicità come categoria, e questo, ovviamente, è quantomeno questionabile, soprattutto perché per antropologia spesso si intende l'antropologia culturale, una tradizione di studi che abbraccia evoluzionismo, diffusionismo, e scuola funzionalista. Le origini dell'antropologia culturale risiedono nel desiderio dell'Occidente di scoprire il suo passato, attraverso, anche, la costruzione di una traiettoria immaginaria che inizia con i cosiddetti primitivi (e di cui molte società nel mondo sarebbero testimonianza vivente) e che culmina con lo splendore dei successi economici, politici, sociali e scientifici dell'Europa e del suo modello di civilizzazione (Goody, 1987).
Christopher Miller, nel suo Theories of Africans del 1990 mette in correlazione etnicità e alterità: l'autore sottolinea che il concetto di etnie fu costruito dai colonizzatori con l'obiettivo di dividere i territori e conquistarli. Egli, poi, pone una domanda, ossia se il concetto stesso di etnicità sia un'illusione, un'inutile categoria di interpretazione; la sua posizione è quella di mantenere valida tale nozione per una ricerca esplorativa dei concetti di identità e differenza, che definisce come “un senso di identità e differenza tra i popoli, fondato sui temi delle origini culturali e della discendenza e soggetto a forze politiche, commerciali, linguistiche, culturali e religiose” (Miller, 1990:34-35). Ancora, l'autore sottolinea la forza pervasiva dell'antropologia, che obbliga il non-africano a cercare di attraversare la distanza che lo separa dall'africano, attraverso lo studio dei testi prodotti dall'antropologia occidentale (Miller, 1990); insomma, l'accesso ai sistemi di pensiero
africani sembra offrirsi ad una mediazione fornita da una disciplina, l'antropologia, che è stata inventata, e che viene controllata, dall'Occidente, e che, nel suo approccio più autoritario, fu, e rimane, la modalità più potente per costruire il discorso coloniale. Non a caso, credo, le parole che più facilmente vengono colte dagli operatori dei servizi e che stimolano il loro interesse riguardano le origini culturali, la discendenza, il processo di nominazione: tutti aspetti che, visti nella logica di potere del discorso coloniale, confermano come tale discorso abbai costruito qualcosa giudicabile come affascinante ma non perturbante, esotico in un certo senso ma anche molto vicino a noi. Tracciare un percorso culturale di presunte origini, lavorare sul significato dei nomi dei bambini che affollano i nostri servizi, significa anche “rimettere a posto” queste persone, inchiodarle in una biografia dal sapore romanzesco (e troppo spesso romanzato), inscrivere le storie di esseri umani all'interno di repertori che ci suonano familiari, perché frutto di un discorso, quello coloniale, che ha descritto tutto un mondo altro seguendo categorie del nostro pensiero scientifico. Sono, per noi, esseri umani che si offrono alla nostra conoscenza – che non può fare a meno di riferirsi alla tradizione degli studi etnografici – ma di cui noi occultiamo i saperi di cui sono portatori. Stando a quanto scriveva Foucault, per conoscenza noi intendiamo la relazione tra il soggetto e l'oggetto e le regole formali che la governano, mentre sapere si riferisce alle condizioni che sono necessarie, in un dato periodo, ad un oggetto di mettersi a disposizione della conoscenza e ad un enunciato di poter essere formulato (Foucault, 1998); la distinzione deriva dalla separazione tra due aree concettuali ben definiti in molti lingue neo-latine, in cui sapere significa “saper come, essere in grado, essere consapevole” mentre conoscenza, o conoscere, significa letteralmente “essere familiare con, essere a conoscenza di”. Questa distinzione, per quel che mi riguarda, è alla base della nostra incapacità, o mancanza di volontà, di interrogare profondamente i saperi dei nostri migranti, in quanto tali saperi potrebbero davvero essere motivo, e motore, di spaesamento, di disturbo, in quanto inaspettati, radicalmente altro da noi, prodotti e processi di saperi costruitesi altrove; preferiamo “conoscere” queste persone, perché le possiamo conoscere attraverso le nostre più peculiari modalità di approccio e di costruzione dell'altro, ci possiamo avvicinare perché essi sono già vicini a noi, ci sono familiari, potendoli osservare senza cambiarci le lenti che usualmente utilizziamo per guardare noi stessi e gli altri, tutti gli altri.