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Mercificazione dell'alterità e della marginalità

Le mode non attraversano soltanto le sfere del costume, delle abitudini sociali e del consumo, ma anche le forme così dette “alte” della cultura, dando origine periodicamente a concetti, forme e figure del pensiero, a rappresentazioni del linguaggio e della realtà, delle “parole” e delle “cose” - e delle loro reciproche connessioni e differenze - che sembrano non poter prescindere dal riferimento a determinati topos figurali e che finiscono per diventare veri e propri concetti passe-partout, parole d’ordine del pensiero e della scrittura atte a convalidare la veridicità del discorso con l’autorità auto-imposta dalla loro

presenza. È questo il caso, negli ultimi anni e seguendo una genealogia che si deve far risalire almeno al “’68 pensiero” ed alla ricezione nordamericana della French Theory (meglio conosciuta come post-strutturalismo), del campo concettuale legato a termini quali “contaminazione”, “contagio”, “differenza”, “fluidità”, “meticciato”, “ibridità”, “sincretismo”, “nomadismo”, “creolizzazione” ecc, che hanno ormai assunto un ruolo centrale nel “lessico” della post-modernità. Negli ultimi anni, in particolar modo, sembra quasi impossibile non imbattersi pressoché ovunque, specie nel campo disseminato dei cultural studies, in simili nozioni, utilizzate come chiavi interpretative negli ambiti critici più disparati, dal cinema alle arti visive, dalla performance alla musica metropolitana, dagli studi interculturali, sulla diaspora e sulle migrazioni, alla letteratura, dalla bioetica alla body art. Sembra, perciò, che qualunque forma e qualunque spazio culturale e sociale della nostra epoca sia innanzitutto caratterizzato da, e leggibile attraverso, il comune denominatore del discorso sul contagio e sull’ibridità. Il rischio implicito, e spesso ben evidente, è quello di creare una suddivisione troppo rigida, binaria e manichea, tra un presente post-moderno - caratterizzato appunto dalla mescolanza, dalla fine delle partizioni binarie della logica classica, da identità fluide e nomadi che attraversano “liberamente” i margini e i confini, da una realtà geo-politica post-nazionale - e una modernità rinchiusa ormai definitivamente in un passato dialetticamente superato, caratterizzata da identità monolitiche ed ancestrali, dalle grandi narrazioni, dalle ideologie e dai miti totalitari della purezza, dalla dialettica binaria del colonialismo che si reggeva su soggettività auto-centrate ed autonome, sulla rigida distinzione tra il Sé dominante dell’Occidente e l’Altro delle colonie. Questo genere di figuralità, che spesso assume forme alquanto accattivanti ma, proprio per questo, da considerare ed impiegare con tanta maggiore cautela ed acume critico, rischia infatti di risultare spesso un discorso oltremodo pacificato e talvolta esotico, che camuffa le rotture, le ambivalenze e le discontinuità che più che mai caratterizzano un certo genere di fenomeni sociali e culturali. Si tratta di un ordine del discorso che rischia di produrre, insomma, un effetto immunitario (Bibeau, 1996; Fassin, 2010) e di rimozione proprio nei confronti di quella conflittualità, spesso drammaticamente inscritta in un contesto storico e sociale segnato da nuove forme di discriminazione, di razzismo, da barriere materiali di tipo giuridico, economico ed anche ideologico, di cui rischia di rendersi silenziosamente complice. L’elogio semplicista della “contaminazione culturale” rischia, infatti, di mascherare ed eludere la componente tragica dei fenomeni sociali e l’impossibilità di ricomporne l’esposizione conflittuale in una dialettica pacificata, nella quale il momento della “contaminazione”, di per sé eterogeneo

ed ambivalente, produrrebbe una nuova ontologia ed una logica perfettamente (o quasi) sovra-scrivibili all’ordine dominante del capitale transnazionale. Quel sistema semiotico, che Graham Huggan ha definito “postcolonial exotic” consisterebbe proprio nella mercificazione globale dell’alterità culturale, dove il postcolonialismo sarebbe ambiguamente complice ed avversario della “alterity industry” e di un sistema di traduzione culturale che opera sotto il segno dell’esotico (Huggan, 2001). Un meccanismo semiotico, insomma, di controllo della traduzione culturale che riconduce l’altro inesorabilmente verso il medesimo, addomesticandolo. Un sistema imperfetto, però, che non riesce mai ad attuare la completa ri-semantizzazione dell’altro e che lascia inevitabilmente percepire delle rotture e delle ambivalenze, sulle quali la critica culturale deve essere in grado di lavorare. In questa caduta sono dunque “i detriti dell’anima”, frantumati e assurdi, a mescolarsi e a ricomporsi in una metamorfosi, verso misteriose e nuove combinazioni. Indirettamente e quasi di soppiatto il narratore ci introduce ad alcuni elementi fondamentali: i ricordi, la lingua, le espressioni intraducibili, i legami sociali, l’attaccamento alla propria terra, alla proprietà, alla patria. Tutto ciò si frantuma e si trasforma nel corso di questo precipitare, si cambia e si traduce (nel senso etimologico del termine trans-ducĕre, che significa letteralmente “portare al di là”) in qualcosa di diverso e di nuovo. Potremmo ridurre, un po’ artificialmente, quest’insieme di elementi a due termini tanto problematici quanto familiari: identità e cultura. Che cosa si perde? Che cosa si guadagna? Che cosa si trasforma? Si mostra evidente una dinamica ambivalente di identità e differenza, un’appartenenza profonda, il “cuore altrove”, ed un ibrido trasformismo rappresentato dai suoi abiti provenienti dai luoghi più disparati. Uno dei bersagli principali della critica post-coloniale consiste proprio nella nozione essenzialista di “cultura”, elaborata dai sostenitori di un relativismo radicale, intesa come tradizione, autenticità e rigida continuità con un passato condiviso e sacralizzato da un gruppo (Remotti, 2008) . Questa nozione rischia di supportare un’immagine divisionista della cultura, che rappresenti l’umanità come un mosaico di pezzi differenti e separati e tra di loro largamente non-comunicanti, lasciando spazio al risorgere di integralismi e fondamentalismi identitari ed ignorando gli elementi fecondi della relazione, della contaminazione, del meticciato e dell’ibridazione, i quali da sempre hanno contrassegnato i momenti più creativi e vitali di ogni civiltà. E’ un chiaro segno di questa politica culturale il recente e diffuso revival culturalista sul tema delle “radici culturali” dell’Europa, e le incessanti critiche al relativismo culturale che si associano paradossalmente a visioni che coniugano i residui di un universalismo etnocentrico con la vulgata dello “scontro di civiltà”.

Essa rappresenta, come ben sappiamo, proprio il trionfo di quel relativismo culturalista ed essenzialista che legge il mondo come un macro-insieme di culture, etnie o civiltà separate, non comunicanti ed inconciliabili e per questo destinate irrevocabilmente allo scontro. Queste posizioni, spesso semplificatorie ed ideologiche e soprattutto motivate da interessi politici, spingono verso una rigida alternativa tra relativismo ed universalismo, che rivela il pregiudizio etnocentrico e l’approccio imperialista che le élites dominanti, in Europa e nell'Occidente del mondo, attuano economicamente e politicamente nei confronti delle minoranze subalterne del pianeta. E’ proprio in opposizione a questi discorsi ideologici speculari che i migliori critici post-coloniali hanno cercato di elaborare un contro- discorso che li ha spinti a privilegiare figure marginali e dinamiche, come le soggettività migranti o diasporiche, attuando una sovrapposizione, spesso, a dire il vero, marcata da una certa retorica, tra la figura del migrante e quella dell’intellettuale transnazionale o, più romanticamente, “in esilio”, che ne costituirebbe la “voce” e la “coscienza”, come sottolinea, nella sua prosa appassionata, l’intellettuale palestinese Edward Said:

[…] non è esagerato dire che la liberazione come missione intellettuale, nata dalla resistenza e dall’opposizione alle costrizioni e ai saccheggi dell’imperialismo, è passata da una dinamica prefissata, codificata e addomesticata alla cultura, a un tipo di energia liberatoria, senza patria, decentrata, espressione dell’esilio. L’incarnazione di questa forma di energia è data oggi dalla figura del migrante, la cui coscienza è rappresentata dall’intellettuale e dall’artista in esilio; ovvero da una figura politica che si colloca tra più territori, tra più forme, tra più case, tra più lingue. Allora sì, in questa prospettiva, tutte le cose veramente si rispondono, originali, rare e strane (Said, 1995:48).

Non è questo il luogo per addentrarci nel complesso e stratificato dibattito sugli studi post- coloniali, sulla loro definizione, innanzitutto, e sulla validità ed i limiti di questo campo “disseminato” e fortemente eterogeneo di indagine e di critica intellettuale. Il mio intento è quello di presentare alcuni tratti salienti di questa “filosofia politica attivista”, con particolare attenzione ai temi della differenza, dell’identità culturale, dell’ibridazione, delle diaspore e dei cosmopolitismi, fornendo una serie di spunti epistemologici e politici che ci consentano un approccio articolato alla complessità dei panorami culturali del presente. Mi accontento, pertanto, di citare questo passaggio dell’Introduzione al postcolonialismo di Robert J.C. Young (2005):

Sin dai primi anni Ottanta, il postcolonialismo ha sviluppato un corpus di scritti il cui obbiettivo principale è cambiare i modi dominanti di pensare i rapporti tra mondo occidentale e non occidentale. […] Per prima cosa, il postcolonialismo si propone come un’altra forma di intervento politico sulla realtà, si prefigge l’inserimento dei suoi saperi alternativi nelle strutture di potere tanto occidentali quanto non occidentali. Cerca di cambiare il modo in cui la gente pensa, il modo in cui si comporta, vuole dare vita ad un rapporto più giusto ed egualitario tra le diverse popolazioni del mondo.

I personaggi del post-colonialismo, nel loro precipitare tra due mondi, uno perduto, ma custodito nel loro “cuore altrove” e nelle narrazioni della memoria, uno ignoto dove dovranno ri-costruirsi, metamorfizzarsi e tra-dursi, rappresentano perfettamente le dinamiche del soggetto post-coloniale e migrante, quel suo trovarsi nel mezzo, lungo una soglia o un margine, in uno spazio privo di appartenenze definite. Homi K. Bhabha, senz’altro uno dei più influenti critici post-coloniali, utilizza a tal proposito l’espressione “in- between space” e ritiene questo spazio “teoricamente innovativo” e “politicamente essenziale”. Egli, coniugando sempre il daimon della teoria con l’agency politica, interpreta questo vivere attraverso i confini come un’“arte del presente” (Bhabha, 1997), che mette in atto una potenzialità molteplice e differenziata di alternative e forme di resistenza nei confronti di quell’essenzialismo identitario che caratterizza le politiche nazionaliste e il discorso coloniale. Nel mondo post-moderno, gli interrogativi “poetici” di romanzieri come Rushdie (1994) si intrecciano, così, a quelli “teorici” posti da Bhabha, sin dall’introduzione al suo ormai celebre I Luoghi della cultura (2001):

Teoricamente innovativo, e politicamente essenziale, è il bisogno di pensare al di là delle tradizionali narrazioni relative a soggettività originarie e aurorali, focalizzandosi invece su quei momenti o processi che si producono negli interstizi, nell’articolarsi delle differenze culturali. Questi spazi “inter-medi” (in-between spaces) costituiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé – come singoli o gruppo – che danno il via a nuovi segni di identità e luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell’atto stesso in cui si definisce l’idea di società. E’ negli interstizi – emersi dal sovrapporsi e dal succedersi delle differenze – che vengono negoziate le esperienze intersoggettive e collettive di appartenenza ad una nazione, di interesse della comunità e di valore culturale (Bhabha, 2001:4-5).

L’analisi di Bhabha, e di gran parte della critica post-coloniale, traccia una visione dell’identità liminale, ibrida e composita che, ponendosi ai margini delle grandi narrative essenzialiste della nazione e dell’imperialismo etnocentrico, ed attraversandole in continuazione, ne decostruisce le stesse fondamenta discorsive e politiche. Egli utilizza la metafora architettonica della “tromba delle scale” come luogo interstiziale e di collegamento/transito tra alto e basso, paradiso e inferno, Bianco e Nero, gruppi dominanti e subalterni, come spazio di interazione simbolica e di movimento spazio/temporale tra due estremi, che impedisce a quegli stessi estremi di fissarsi in “poli primordiali”. Bhabha sostiene che “il passaggio interstiziale fra identificazioni fisse apre la possibilità di un’ibridità culturale che accetta la differenza senza una gerarchia accolta o imposta” (Bhabha, 2001). In questo spazio liminale e di transito attraverso i confini di identità stabili si produce perciò una dinamica ambivalente di “traduzione”, dove alla perdita si affianca qualcos’altro, un atto ri-creativo, un nuovo nascere di soggettività destabilizzanti, di personaggi che si metamorfizzano nella caduta, in questo spazio aereo “in-between”, letteralmente tra due mondi, l’atto magico del volare cantando, che permette loro di sopravvivere, e che rappresenta questa forma di traduzione, che egli definisce altrove in questi termini:

La parola traduzione deriva, etimologicamente, dal latino “portare di là”. Poiché noi siamo persone portate di là dal mondo, siamo individui tradotti. Si ritiene solitamente che qualcosa dell’originale si perda in una traduzione; insisto sul fatto che si possa guadagnare qualcosa. La migrazione […] ci offre una delle più ricche metafore del nostro tempo. Lo stesso termine, metafora, le cui radici risalgono al termine greco per trasportare, descrive una sorta di migrazione, la migrazione delle idee in immagini. I migranti – individui trasportati – sono esseri metaforici nella loro stessa essenza; e la migrazione, vista come metafora, è dappertutto intorno a noi – tutti attraversiamo delle frontiere; in questo senso, tutti siamo emigranti (Bhabha, 1997:144).

In questa accezione il termine traduzione diventa sinonimo di transculturazione, ossia del “processo di negoziazione e selezione interculturale” che consente di trasportare da un luogo all’altro non solo parole, ma anche concetti, idee, costumi, religioni, immagini e simboli. I postcolonial studies si collocano in questa prospettiva “irrequieta e revisionista”, cercando di “trasformare il presente in un luogo espanso ed eccentrico di esperienza e potenziamento”. Alla critica epistemologica si unisce quindi una forte valenza politica la

quale, per essere attuata, deve spingere la teoria oltre la semplice costruzione di una nuova ontologia del presente e di una “logica culturale del tardo capitalismo”, dirigendosi verso più concrete locations che mettano in atto queste “altre storie, voci dissonanti e persino antagoniste – delle donne, dei colonizzati, dei gruppi minoritari, di chi appartiene a gruppi sessuali protetti”. Miguel Mellino, nel suo recente La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies (2005), ha messo chiaramente in evidenza il limite ed il rischio, presente in buona parte di questo orientamento teorico e critico, di allontanarsi troppo dalle realtà sociali per rifugiarsi in astratti principi teorici, lasciando che la valenza ontologica si imponga su quella epistemologica, e finendo per opporre ad una filosofia del soggetto, quella dell’umanesimo metafisico moderno, un’altra, quella dell’antiumanesimo postmoderno (Mellino, 2005). Anche l’antropologo James Clifford mette ben in guardia da questa “deriva astratta”, quando afferma che:

[…] nulla autorizza a pensare che le pratiche di ibridazione siano sempre liberatorie o che l’adoperarsi ad articolare un’identità autonoma o una cultura nazionale sia sempre reazionario. La politica dell’ibridismo ha carattere congiunturale e non può venir dedotta da principi teoretici. Il più delle volte, ciò che conta politicamente è chi mette in scena la nazionalità o la transnazionalità, l’autenticità o l’ibridismo, e contro chi lo fa, con quale potere relativo e capacità di sostenere un’egemonia (Clifford, 1997:46).

Nel contesto del nostro discorso sulla contaminazione, il concetto di différance torna utile ad una critica dell’identità/diversità culturale intesa in termini essenzialisti. Homi Bhabha introduce un’importante distinzione tra diversità e differenza culturale (Bhabha, 1997). Secondo il teorico indiano, la “diversità culturale” è un mero oggetto epistemologico, ossia la cultura come oggetto di conoscenza empirica, mentre la “differenza culturale” consisterebbe nel “processo di enunciazione della cultura come “conoscenza/conoscibile”, fonte di autorità e strumento che asseconda la creazione di sistemi di identificazione culturale” (Bhabha, 1997; Bhabha, 2001). Egli pone quindi l’accento, come abbiamo sottolineato in precedenza, sul valore performativo degli enunciati riguardanti l’identità e la cultura. “Se la diversità culturale”, prosegue Bhabha, “è una categoria dell’etica, dell’estetica o dell’etnologia comparata, la differenza culturale è un processo di significazione attraverso il quale le affermazioni della cultura e sulla cultura differiscono, distinguono e autorizzano il prodursi di campi di forza, riferimento, applicabilità e capacità”

(Bhabha, 2001:108). Lo spostamento dell’attenzione sul carattere performativo ed enunciativo della differenza culturale permette così di rilevarne l’ambivalenza. Proprio quest’ambivalenza favorisce l’emersione di un “Terzo Spazio” in cui si attua il superamento degli stereotipi dualisti prodotti dal discorso coloniale, espressione, come abbiamo visto, di una visione/costruzione essenzialista dell’identità culturale. L’obiettivo primario del progetto teorico postcoloniale consiste proprio nello smantellamento delle costruzioni identitarie basate sulla purezza e l’essenzialismo, prodotto storico della dialettica coloniale della modernità. Sul piano filosofico potremmo dire che lo spettro da abbattere resta quello della dialettica sintetica hegeliana, che tende a contrapporre due opposti nettamente chiusi e separati, il cui incontro produrrebbe una sintesi/superamento, tanto unitario e pacificato quanto egemonico, per sottolineare invece l’ambivalenza implicita in ogni costrutto culturale e identitario, e quindi l’indecidibilità e l’irrisolvibilità in chiave dialettica e trascendentale della tensione tragica ed immanente del fenomeno. In sostanza, le teorie di Bhabha affermano che il discorso coloniale non è onnipotente, ma nasce relazionalmente e di conseguenza le identità coloniali che ne sono il prodotto, sono “instabili, antagonistiche e costantemente fluide” (Bhabha, 1997:62). Col concetto di mimicry - “imitazione ironica” - egli evidenzia il carattere ironico e distanziatorio dell’atto mimetico del colonizzato, che tende ad imitare e a riprodurre le forme culturali imposte dal colonizzatore, inscrivendovi un atto di libertà parodica, attraverso cui il subalterno apre la possibilità di creare nuove identità, ibride o meticce (Amselle, 1999; Bhabha, 2001). Da ciò risulta evidente come, nel campo della critica culturale contemporanea, venga attribuito un valore positivo alla marginalità ed al processo culturale ad essa strettamente connesso della contaminazione, visti sia come siti di esclusione sociale e di deprivazione, sia come luoghi di resistenza agli standard culturali ed alle norme coercitive e disciplinari imposte dalla cultura dominante. La critica afro-americana e femminista Bell Hooks ha insistito particolarmente, in Elogio del margine (1998), proprio su questo aspetto:

"Io sono nel margine. Faccio una distinzione precisa tra la marginalità imposta da strutture oppressive e marginalità eletta a luogo di resistenza – spazio di possibilità e apertura radicale. […] Noi giungiamo in questo spazio attraverso la sofferenza, il dolore e la lotta. Sappiamo che la lotta è il solo strumento capace di soddisfare, esaudire e appagare il desiderio. La nostra trasformazione, individuale e collettiva, avviene attraverso la costruzione di uno spazio creativo radicale, capace di affermare e sostenere la nostra soggettività, di assegnarci una posizione nuova da

cui poter articolare il nostro senso del mondo" (Hooks, 1998: 47).

La marginalità risulta quindi una strategia discorsiva oppositiva che sfida le costruzioni sociali gerarchiche e i codici culturali egemonici, decostruendo l’opposizione tra un “centro” monolitico e i suoi “margini” designati, ed offrendo perciò la possibilità politica di una centralità multisituata e di un’intersezione creativa delle marginalità stesse. Qui il soggetto si muove in un mondo che non è più definito da opposizioni fisse e binarie, ma da una rete di interconnessioni e di alleanze sincretiche e politicamente strategiche. Negli ultimi anni, in corrispondenza della progressiva affermazione nelle accademie occidentali degli studi postcoloniali, si sono moltiplicate le critiche, provenienti da diversi ambiti disciplinari, all’impostazione intellettuale che abbiamo sinora delineato. Dobbiamo premettere che gran parte di queste critiche, talora vere e proprie stroncature ed accuse di complicità con l’establishment dominante della mercificazione globale e con la sua logica culturale, risultano spesso estremamente e strategicamente riduzioniste (Huggan, 2001; Mellino, 2005). Esse tendono ad appiattire la complessità e la pluralità delle posizioni espresse a talune ambiguità che, se ne deve prendere atto, caratterizzano effettivamente la prossimità di questi critici ai centri di produzione del sapere istituzionale dell’Occidente. Non possiamo, quindi, ignorare il rischio implicito in alcune letture eccessivamente culturaliste prodotte in questo campo di studi, che si traduce spesso nella presunzione dell’accademico, o dello scrittore postcoloniale, di parlare per i soggetti subalterni o marginali, intrappolandoli ancor più nella loro condizione “priva di voce” e, al tempo stesso, feticizzandola per trasformare la loro condizione materialmente svantaggiata in un “capitale culturale” spendibile e consumabile nelle metropoli (Bayart, 2005). Questo significherebbe, inoltre, evitare una critica del posizionamento del soggetto del discorso all’interno della rete di relazioni di potere, tra le quali si riproduce il capitale cognitivo. La componente “esotica”, implicita in alcune narrazioni postcoloniali, tende a camuffare proprio le relazioni di potere, permettendo alla cultura dominante di attribuire valore alla marginalità da un punto di vista meramente estetico, privandola così delle sue implicazioni sovversive sul piano politico (Huggan, 2001). La diversità rischia di essere così manipolata allo scopo di canalizzare la differenza verso aree in cui può essere agevolmente controllata ed impacchettata. Come ho accennato sopra, si tratta di un processo di traduzione culturale in cui l’altro marginalizzato può essere appreso e descritto in termini