La soglia è un oggetto delle culture. Parlare di sé, e situarsi, è in fondo lo spirito dell'etnopsichiatria, una disciplina che tiene conto sia della cultura che della storia personale di un individuo. È importante tener presente che quando ci si trasferisce in una terra straniera, si diventa automaticamente il primo della discendenza, un fondatore. L'appartenenza etnica ad un gruppo e il possedere una memoria ancestrale sono assolutamente determinanti nella costruzione di un'identità; l'appartenere ad un gruppo costituisce una chiusura sottile che permette ad un uomo di dire “io” a partire da un “noi”. All'origine di ogni etnia si trovano le divinità: queste affiliazioni alle divinità e agli antenati mitici o reali sono costitutivi delle identità multiple delle persone, che permettono l'umanizzazione progressiva dei bambini attraverso una serie di involucri nidificati: il sistema linguistico, la struttura familiare, le alleanze, i riti di iniziazione e i modi di cucinare. In questi sistemi di appartenenza, la nozione di persona non coincide con la nozione di individuo, che corrisponde invece alla forma latina del greco “atomo”. Una persona è costituita da elementi materiali che gli appartengono (sangue, etc..) o che provengono dal mondo degli antenati. In questo modo la persona aderisce all'ambiente umano, animale e vegetale, possiede delle duplicità e si trasforma man mano che compie riti iniziatici, senza però perdere quel nucleo costitutivo che stabilisce vocazioni e storia individuali.
Per i migranti, tali appartenenze si sgretolano e si ri-articolano nei paesi di accoglienza. Il migrante, abbandonando il suo mondo di origine, non ha che una cultura interiorizzata e priva di risorse esterne, la cui conseguenza provoca la perdita di corrispondenza ed armonia tra mondo interiore ed esteriore. La ricerca etnopsichiatrica studia esattamente la
natura complessa di questa articolazione tra i fatti detti “psichici” e gli elementi di natura culturale. Ciò che è visibile non è il funzionamento psichico, ma la diversità culturale. Un vero contatto passa per la conoscenza dell'intimità etnica; in un gruppo allargato, le appartenenze specifiche di una persona ad un sottogruppo sono generalmente svelate dal nome di origine.
L'istruzione e l'ideologia moderna, come anche le professioni, contribuiscono fortemente a costruire tale individualizzazione.
I figli possono vivere un trauma supplementare quando non percepiscono il perché e la coerenza di un rito iniziatico della loro cultura (Moro, 2005). Il quadro culturale di questi giovani è in sospensione e, contrariamente a quello dei genitori, non è legato profondamente a nessuno dei due paesi, ma questa situazione di mancanza può anche portarli in un cammino di creatività. Il confronto con un'altra lingua ed un'altra cultura crea rotture nei punti di riferimento e nelle identità – essere divisi.
La cultura codifica l'espressione della modalità e dei sintomi: essa prevede non solo il senso della malattia ma anche lo svolgimento della crisi e i dispositivi tecnici che permetteranno al guaritore di riassorbirla. Il terapeuta non può prendere in considerazione solo quelle che i pazienti attribuiscono al loro male, ma deve sorprenderli, offrendo loro un'altra interpretazione e una nuova prescrizione.
Nathan ci regala una definizione di cultura, dal punto di vista clinico, secondo cui essa è: “una sorta di carta geografica che permette ai membri di una certa società di muoversi, di pensare e lavorare, senza paure o perplessità” (Nathan 1996:13). In effetti, se una cultura, in qualità di filtro organizzativo, non descrivesse correttamente un segno o un messaggio proveniente dal mondo interno o dall'ambiente esteriore, si avrebbe uno strappo nelle maglie della realtà. Ridare al paziente confuso un'altra trama codificata, che permette l'elaborazione del racconto, situa la persona in una nuova temporalità.
Nathan considera l'etnopsichiatria clinica una “disciplina capace di interrogare i concetti della psicologia, della psicoanalisi e della psichiatria alla luce id eziologie e teorie generali dei gruppi e dei loro dispositivi tecnici" (Nathan, 1996b:37). Centrale, nella pratica etnoclica, è perciò la capacità di lavorare con i gruppi, convocandone i saperi. Il gruppo non intimidisce il paziente migrante, in questo contesto si passa da un'etica di confidenza ad una politica della testimonianza (Salmi, 2011). Se non si instaura un vero legame attraverso uno sforzo reciproco di conoscenza, il rischio è di costruire un legame perverso e manipolatorio che sfocia in un rapporto di forza in cui il migrante non dice chi è ma
esprime solo incessanti domande materiali insoddisfatte, o aderisce acriticamente alle teorie e alle richieste espresse dall'istituzione. sollevare-togliere-sedersi insieme sono i tre verbi che caratterizzano il dispositivo. Nel gruppo etno-clinico, i ricercatori sono impegnati insieme nel sollevare, dal basso, i pensieri che accomunano o tengono distanti, obbligati alla presentazione reciproca che è primo e principale passo di produzione di conoscenza e sapere; devono poi, a vicenda, togliere e togliersi volontà di affermazione, di azione troppo veloci ed insensate, attendendo che un senso di fiducia emerga, dalla condivisione delle storie, degli affetti; sono, tutti, seduti assieme, in una fantasia di auto-generazione, di partogenesi, in cui è possibile attivare la costruzione o il rimodellamento dei concetti, in cui inizia a emergere, timidamente, un sentimento di alleanze alla cui base dovrebbe esserci la volontà di esplorare le genealogie, l'archeologia, dei saperi evocati e narrati in gruppo (Salmi, 2011). Un gruppo così situato, permette di concepire il lavoro clinico, educativo, di cura appunto nella sua qualità politica, derivante dalla testimonianza, con il suo valore storico e culturale, oltre ovviamente che giuridico e politico, di transito verso la costruzione di uno spazio di cura, in cui il tempo (il prendersi del tempo, a vicenda) asseconda la necessaria condivisione di dolore e risorse, di storie e formazioni, motore in un momento successivo del cambiamento che la cura ha in sé, in quanto presa di posizione inconciliabile con la a-critica proposta di percorsi pensati altrove ed attualizzati in un contesto che non ammette resistenze, ma richiede adesione e arrendevolezza.
Le seconde generazioni possono definirsi solo in opposizione all'altro, perché è il loro modo di delimitare il dentro e il fuori, nello sforzo di distinguere ciò che appartiene loro da ciò che è estraneo. È più facile ottenere l'integrazione quando la cultura sviluppa le sue potenzialità perché la persona, non sentendosi più in pericolo, prende in prestito gli elementi culturali del paese di accoglienza e moltiplica gli spazi di incontro per radicarsi. Far circolare la parola nel gruppo allargato preservando l'intimità delle persone presenti, esige la conoscenza del limite e del pudore, di vergogna e di scherzo, esistenti tra i membri di una famiglia, in una cultura. L'incessante spostamento tra due o più lingue è già di per sé terapeutico: la traduzione mette subito in evidenza l'asimmetria, la delimitazione dei mondi, la diversità culturale, liberando i migranti dalla separazione e dalla confusione delle visioni di vita differenti che trattengono inconsciamente in loro.
Vi possono essere due tipi di discorso alternativi: uno pubblico e l'altro privato; il discorso culturale pubblico è quello del consenso. In molte famiglie i figli imparano dai genitori solo i divieti morali, e ciò li porta a cercare la propria libertà in altri idiomi (vero anche per gli italiani e e per la fascinazione che il mondo hip-hop produce tra i nostri giovani). Inizia così
a delinearsi quella relazione dicotomica tra un dentro ed un fuori, così importante nell'esperienza della migrazione: si impara a fare certi discorsi nel "dentro", occultandoli "fuori"; questo apprendimento, per i minori migranti, è doppiamente difficile, in quanto doppiamente coinvolto nello stabilire una relazione tra dentro e fuori, qui ed altrove.