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Rituali e prove di affiliazione all'Occidente – il caso di H

1.3 Suggestioni antropologiche a margine di una consultazione

1.3.2 Rituali e prove di affiliazione all'Occidente – il caso di H

La consultazione etnoclinica inizia, di mattina, piuttosto frettolosamente, e già sullo sfondo di un moltiplicarsi di eventi che incideranno sul funzionamento del dispositivo: veniamo fatti accomodare in una sala piuttosto piccola ma accogliente, due divani e due poltrone aspettano, il tavolo al centro della sala viene spostato, accanto al muro opposto all'unica

finestra, in modo che non turbi il cerchio che si sta formando; alcuni arrivano in ritardo, i saluti raddoppiano, le strette di mano aumentano, i caffè e i cioccolatini iniziano a circolare, così come, cosa ben più importante, parole dette ed udite in lingue ed idiomi diversi, l'arabo marocchino, l'inglese, l'italiano, qualcuno azzarda anche il dialetto veronese. Alla consultazione, sono presenti un terapeuta etnoclinico, le educatrice della comunità, due mediatrici dell'area marocchina, due mediatrici ghanesi, un'assistente sociale, una psicologa, ricercatori dell'università, io nello scomodo ruolo di osservatore e soprattutto la madre di H. Lui, il minore, non è presente: è una delle regole che ci siamo dati, nell'etnoclinica ad essere interrogati sono i gruppi e i saperi di cui sono portatori, soprattutto per cercare di allontanare le etichette (nostre) di disagio e soffernza individuale e convocare, all'interno del gruppo etnoclinico, le risorse, le strategie che un collettivo può elaborare, nell'ottica della testimonianza e dell'impegno; sollevare – il singolo dalla situazione di difficoltà -, levare/togliere – il senso di colpa, la maledizione, la fatalità al singolo individuo e rielaborarle secondo le possibilità che la cultura di appartenenza e la cultura dell'accoglienza offrono -, sedersi assieme, sono le azioni che dovrebbero caratterizzare il dispositivo. Le domande istituzionali sono precise1 e testimoniano in

particolare una forte preoccupazione per il futuro del ragazzo. Iniziamo; iniziamo a raccontarci, come spesso accade, cose già sapute, macro-storie, macro-visioni che hanno a che vedere con le pratiche educative, le teorie in campo, le nostre idee sulle "seconde generazioni". Nulla di nuovo, in realtà, ma questa ripetizione, questi pensieri già pensati marcano un passaggio a mio avviso fondamentale: siamo noi operatori italiani a presentarci in questo modo, il ruolo e la professione sono i blasoni, le appartenenze che ci descrivono, che costruiscono mappe e modelli, per semplificare una realtà, quella sociale del quotidiano, troppo complicata da afferrare, da comprendere, e che necessita, appunto, di essere resa semplice, conosciuta. I discorsi sembrano riposare per un bel po' sul bisogno di conferma, dei nostri saperi; ognuno ha una storia particolare, non si deve generalizzare, il ragazzino è vicino all'età della ribellione, ha cattivi esempi in famiglia, e via dicendo. Siamo nel binario morto della ripetizione; ma, c'è la svolta: il terapeuta chiede ad un'educatrice di dire al gruppo (e tutti ne eravamo a conoscenza) il nome della comunità, l'educatrice risponde "le fate". Ah, quindi un ragazzino marocchino dovrebbe costruire un percorso identitario in un luogo chiamato "le fate", "governato" da tre donne? Scappa una risata a tutti i presenti; è una risata sana, non malevola, segna il passaggio da un livello di discorso ad un altro, un passaggio (di soglia?) che genera nuovi discorsi, fa 1 Vedi allegato n.2, presentazione di H.

udire nuove parole, forse mette in moto nuovi pensieri, anche se non è garanzia di successo, come vedremo. Ecco il nocciolo, quel nucleo inviolabile che, se rotto o miancciato gravemente, può produrre una rottura identitaria, una fuga dall'io e dal gruppo di appartenenza, una radice senza più linfa. Il ragazzo vive quella doppia assenza, di cui tanti manuali specialistici parlano: assenza di una figura maschile in casa, assenza di figure maschili nell'istituzione; assenza dei luoghi in cui vivere un rito di passaggio, dalla fanciullezza alla adultità; assenza di un gruppo di persone che guidino il ragazzo a, e tra, i confini, e che ne testimonino l'avvenuta iniziazione. La meditrice marocchina ci ricorda che è la strada a fornire, tradizionalmente, questo percorso identitario2, e questo però si

scontra con un territorio, il nostro, diverso, percepito diversamente, sconosciuto; "le strade qui non sono come le nostra". La strada, il dentro e il fuori, l'onore (Salmi, 2011), il maschile e il femminile: quali vincoli creano, quali percorsi offrono, di quali pratiche dispongono, quali tracce culturali permangono, quanto le tradizioni subiscono nella migrazione, oppure reinventano? Una mediatrice presente propone alla madre di far frequentare la scuola coranica al figlio; la madre trattiene una risata, sembra più consapevole di noi dei vincoli e delle rinunce a cui la cultura diasporica nella migrazione deve sottostare. C'è uno zio che fa il macellaio, e potrebbe prendersi carico della situazione del figlio; la madre ci fa notare che è il fratello del marito, quello che l'ha abbandonata, facendoci notare quanto spesso la solidarietà della famiglia tradizionale allargata, marocchina come di altre culture, sia spesso più un'immagine idealizzata che reale (almeno nel paese di accoglienza, in cui di questa famiglia allargata vi è magari un solo componente, o due). C'è uno zio in Francia; significherebbe fuggire, dall'Italia, nel segno di un fallimento del progetto migratorio ancora impensabile per la madre. E l'idea di fuga inizia a serpeggiare tra il gruppo: siamo stanchi, ce ne vogliamo andare, abbiamo già moltiplicato abbastanza i discorsi, e frettolosamente ci diamo appuntamento per una seconda consultazione3 – una prescrizione di gruppo troppo debole, per tradursi in

operatività -, troppo soddisfatti per aver appreso un po' di più riguardo ai concetti di onore, di confine nella cultura arabo-marocchina. La madre però ci "stana": infatti, minuta fisicamente ma dotata di voce ben udibile, in italiano incerto misto a francese – un meticciamento che va al punto, diretto - ci dice che "ha avuto la sensazione che suo figlio fosse un caso/studio". È l'amarezza di aver imparato, senza ascoltare nulla.

2 Per un approfondimento sull'importanza della strada nella ricerca identitaria per i maschi, quale luogo di incontri ed apprendimenti, che avvengono fuori ed in qualche misura lontani dalla protezione offerta dal dentro (la casa, la cura femminile) in Marocco e nel mondo nord-africano, vedi Bourdieu (2003), Maher (1989), Salmi (2011).

La vita di ogni individuo è segnata da riti di passaggio. Ogni cultura ha sviluppato riti che accompagnano le trasformazioni dell'individuo nei momenti critici del ciclo vitale, come, ad esempio, il passaggio dall'adolescenza all'età adulta. Ogni cultura ha elaborato cerimonie che trasformano i ragazzi in uomini e donne, con l'obbligo sociale di essere economicamente produttivi e di perpetuare la specie; nel mondo occidentale sono visibili ed identificabili in cerimonie laiche, più che in quelle a carattere religioso. Van Gennep distingue nettamente tre fasi del rito di passaggio: una fase preliminare di separazione fisica e mentale dal proprio contesto di vita, una fase liminare di trasformazione, in cui il soggetto non è più ciò che era, ma non è ancora ciò che dovrebbe essere, ed una fase post-liminare di integrazione nel nuovo contesto (Van Gennep, 1981). La fase liminare è il margine creativo tra status sociali differenti, il luogo e il tempo di transizione da un gruppo di appartenenza ad un altro; esso è un periodo di sospensione, in cui l'iniziando è segregato in un luogo sacro, caratterizzato dall'indeterminatezza e dall'ignoto, ma anche da regole ben precise e taboo che non devono essere infranti, pena l'esclusione certa dal nuovo gruppo di appartenenza. È una fase delicata: l'iniziando dovrà superare delle prove di abilità, e il passaggio verrà poi sancito dai riti propri della terza fase. Se il ragazzo non supera le prove tali riti segneranno in maniera irreversibile la mancata affiliazione, mentre il fallimento gli costerà l'esilio dal proprio gruppo e l'affiliazione al gruppo marginale dei reietti.

Potrebbe sembrare un puro esercizio di retorica o di stile paragonare la migrazione ad un rito di iniziazione (al mondo occidentale), e che facendo così, in realtà, si cada in quell'atteggiamento di assistenzialismo per cui serve il nostro aiuto per affrancare da una condizione di inferiorità culturale ed economica chi proviene da lontano; di fatto, però, nel momento stesso in cui l'aereo decolla, la nave lascia il porto, l'auto o il camion si mettono in moto, la vita del (futuro) migrante entra effettivamente in un periodo di sospensione spazio-temporale nella quale ogni infrazione può costargli la possibilità di affiliazione al nuovo mondo.

Spesso mi è capitato di guardare a questi uomini, a queste donne, ai loro figli e figlie come a degli autentici eroi, esemplari mitici di racconti fiabeschi, in cui anche lo zelo particolarmente vivace di un funzionario di polizia o di un impiegato di un ufficio preposto alla gestione del fenomeno migratorio (o anche l'arroganza e il non poi tanto velato cipiglio razzista) può influire nella fortuna del progetto migratorio di alcuni. Interpretare il percorso migratorio dei ragazzi, degli uomini e delle donne come performance rituale mi ha spinto

però anche a considerare tante situazioni attraversate dai migranti come vari mondi che non solo non comunicano, ma che costruiscono varie barriere, o prove, se li guardiamo come eroi, difficilmente superabili. Luoghi geografici, luoghi di attesa, sostanze, infine istituzioni, come la scuola, i servizi sociali, il carcere, che “strutturano destrutturando”. Anche l'aiuto fornito dal gruppo di etnopsichiatria in formazione non ha determinato quegli effetti che noi, e forse anche il ragazzo, desideravamo4. Ciò perché il gruppo è stato

incapace di uscire dal sentiero stretto tracciato dalla clinica per trasferirsi fisicamente in quei luoghi, attraversarli assieme al ragazzo e alla madre; il gruppo è stato incapace di uscire dal suo sogno di formazione, dal progettare l'intervento perfetto, rinunciando a far sognare il ragazzo, nei colori, sapori, odori e suoni propri del suo desiderio. Il ragazzo è sparito, e questo è il segno più doloroso del nostro insuccesso, che si va a sommare a quello degli altri che si sono interessati a lui, che l'hanno convocato senza averne autorità e capacità; e questo insuccesso è forse l'indicazione di una ulteriore responsabilità che un gruppo etnopsichiatrico è costretto ad assumersi, se non vuole diventare l'ennesima pedina di un sistema di discriminazioni, la responsabilità, cioè, politica e civile di sostenere importanti trasformazioni, la vera presa in carico non di utenti singoli, segnati e forse rassegnati al fallimento del loro progetto, ma anche delle comunità di riferimento e di appartenenza, in un esteso programma di inclusione nella dinamica sociale. Questo fallimento, ovviamente, non deve essere utilizzato a dimostrazione di alcunché sul ragazzo, è il nostro fallimento, è l'incapacità del nostro mondo di accoglierlo.