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Relativismo culturale: la sua formulazione teorica

Il relativismo culturale è una teoria della moderna antropologia; l'impegno con cui gli antropologi agli inizi del XX secolo si erano dedicati agli studi interculturali in contrapposizione al determinismo e alle teorie evoluzionistiche, all'epoca dominanti, li aveva portati ad affermare la necessità di giudicare i valori di ciascuna cultura nel suo precipuo tessuto culturale. Malinowski (1992) aveva dimostrato che ogni cultura è un insieme di istituzioni interdipendenti, invitando a comprendere le funzioni di ogni istituzione nel suo contesto; Ruth Benedict (2010) aveva affermato che ogni cultura era caratterizzata da un suo substrato ideologico ed affettivo, e quindi, per arrivare alla comprensione di singoli elementi culturali, si doveva individuare il pattern culturale di una popolazione. In tali posizioni è riscontrabile l'embrione del relativismo: ogni comunità elabora un suo specifico sistema di valori strettamente connessi al mondo culturale in cui nasce, vive e si evolve. L'esponente di spicco del relativismo fu l'antropologo americano Melville Herskovits, che sviluppò in una teoria organica tale principio. Velocemente, si può dire che per il relativismo ciascuna cultura sarebbe un mondo a sé stante, con un suo specifico quadro di riferimento etico e sociale; di fatto, seguendo tale impostazione, i giudizi, positivi o negativi, su un'altra cultura risulterebbero essere irrazionali poiché riferiti a fenomeni

culturali estranei (Barnard, 2002; Mudimbe, 1994). Tali giudizi, secondo questo approccio, derivano dall'etnocentrismo, ossia dal considerare il proprio gruppo superiore a tutti gli altri, ed Herskovits, attraverso lo studio e l'analisi di miti di fondazione di diverse popolazioni, suggeriva che tale principio è operante in qualsiasi cultura; l'etnocentrismo diviene quindi presunta superiorità. Il relativismo combatté, con particolare vigore, il criterio evoluzionistico per classificare in maniera gerarchica le culture (primitivi/moderni; prelogici/logici), sostenendo che la moralità non esiste in assoluto, ma essa è un valore universale, specificando che esiste però una differenza tra “assoluto” ed “universale”. Assoluto, per Herskovits, è un valore immobile, che non ammette variazioni e si trova in ogni cultura; universale è, per dire, ciò che resta in comune di un fenomeno culturale riscontrabile in diverse culture, tolte le differenze o le variazioni. Nel caso della moralità, essa è universale, ma si manifesta in modalità differenti, assumendo connotazioni particolari e culturalmente determinate; non è quindi un valore assoluto (Mudimbe, 1988). Herskovits sottolinea che il relativismo culturale – un approccio anti-etnocentrico all'alterità – dovrebbe essere compreso come un metodo, una filosofia, e una pratica. Come metodo, il relativismo comprende i principi delle nostre scienze (scienze occidentali) nello studiare una cultura, grazie ai quali lo studioso cerca di ottenere il grado maggiore di conoscenza oggettiva possibile. Lo studioso deve evitare di giudicare, o peggio, di modificare, i modi di vita e di comportamento che sta descrivendo; egli, piuttosto, cerca di capire le sanzioni del comportamento nei termini delle relazioni stabilite e possibili all'interno di una cultura, ed evitare interpretazioni che derivano da preconcetti costruiti nella cornice di riferimento della sua cultura di appartenenza. Il relativismo come filosofia, poi, riguarda la natura dei valori culturali e, oltre a questi, le implicazioni di una epistemologia che deriva dalla ricognizione della forza del condizionamento culturale operante nel dare forma a pensieri e comportamenti. I suoi aspetti pratici riguardano l'applicazione – le pratiche – dei principi filosofici derivati dal metodo ed applicati ad una più ampia scena sociale. L'esigenza di un tale orientamento attualizza, negli studi africanisti degli anni '40, e in avanti, un compito ermeneutico, ossia quello di interrogare la realtà di una distanza temporale e di un'alterità con un rigore simile a quello proposto da Hans-Georg Gadamer a proposito della coscienza storica: “noi dobbiamo arrivare ad un livello pienamente cosciente dei pregiudizi che governano la comprensione e, in questo modo, realizzare la piena possibilità delle altrui mire che emergono dalla loro stessa tradizione; che non è niente altro che realizzare la possibilità, per noi, di comprendere qualcosa di questa alterità”. (Gadamer, 2004:56-57). Il relativismo fu bersaglio di molte critiche, in alcuni casi immeritate, ma in generale

corrette, nella misura in cui una teoria ambisce a divenire una pratica operativa e metodologica. Nelle formulazioni teoriche di Herskovits, un posto centrale è riservato a ciò che può essere definito “determinismo culturale”: una cultura determina i valori conosciuti, e conoscibili, dai suoi membri, e, di fatto, una cultura determina ciò che i suoi membri devono conoscere. Ma oggi (ammesso che nel passato lo sia mai stata) sarebbe accettabile affermare che tutti i valori conosciuti dagli appartenenti ad uno stesso gruppo sono determinati dalla loro cultura? Compiendo la sua analisi, l'antropologo dovrebbe certamente chiedersi in quale misura e grado la cultura determina i valori; detto questo, risulta oggi inammissibile pensare che i valori determinati da una cultura sono i valori che i membri devono riconoscere; tale affermazione non tiene conto della distinzione tra i reali costumi di una comunità e i suoi ideali e le sue norme di condotta, anche non operative, in altre parole, non tiene conto della differenza tra le azioni umane e gli ideali che le sorreggono e le motivano. Un'altra feroce critica mossa alle concettualizzazioni di Herskovits riguardava la sua raccomandazione, destinata agli antropologi, ad escludere rigidamente i giudizi di valore dalla ricerca etnografica (Mellina, 1997); chiaramente, tale affermazione rimandava ad un concetto di oggettività scientifica abbondantemente superato oggigiorno, poiché chi si occupa di scienze sociali e di ricerca sa che certamente vanno sospese le formulazioni preconcette riguardanti la comunità studiata, e che l'oggettività della ricerca si realizza assumendo un atteggiamento critico nei confronti dei propri valori, della proprie ipotesi, ma nessuno può pretendere di rinunciare alle qualità umane, nel farsi di una ricerca, compresa quella di formulare ed emettere giudizi. Insomma, la posizione relativista che raccomandava di evitare la formulazione di giudizi sull'alterità incontrata durante la permanenza sul campo di ricerca (e anche dopo) si scontrò, e perse, con il mondo post-moderno in cui anche l'obiettività e l'oggettività vengono perseguite anche attraverso i giudizi; infatti, solo per mezzo del giudizio si riesce a raggiungere la comprensione.

Il relativismo culturale rappresenta comunque la premessa da cui l'antropologia culturale prende le mosse, ma non deve essere confuso con le sue finalità; per fare in modo che l'antropologia possa trarre significative generalizzazioni sui valori e i processi culturali, essa deve muoversi verso lo studio comparato delle culture e dei suoi quadri di riferimento, e ciò prevede anche la formulazione di giudizi da parte degli interessati. Per quanto riguarda invece la critica all'etnocentrismo, valutata certamente in termini positivi, sembra che, nella posizione relativista che pure attribuisce tanta importanza ai processi di inculturazione, venga occultato proprio il condizionamento che tale processualità produce

nei confronti della propria cultura, e che fa apparire come inevitabile un certo grado di etnocentrismo. I relativisti sostenevano che un sistema di valori, in quanto proprio di una cultura, non avesse validità al di fuori dei suoi confini; ma, perché il processo di inculturazione, o meglio, di umanizzazione, avvenga attraverso la trasmissione di schemi, principi e valori, è indispensabile che la loro validità sia ritenuta fondamentale per lo sviluppo e la conservazione di tutta l'umanità, e non possa essere limitata all'ambito della cultura del singolo gruppo.

Herskovits presentò la sua teoria come una filosofia; agli occhi dei suoi critici, anche di quelli più contemporanei, il relativismo appare più come una ideologia, degna di rispetto ed interesse, ma comunque sempre un'ideologia legata e condizionata dalla storia che l'ha prodotta (Mudimbe, 1994). Esso, infatti, sorse come una risposta in opposizione all'opera dei colonialisti, nel tentativo di salvare i “poveri primitivi” dalla violenza simbolica e materiale operata a loro danno dagli sfruttatori occidentali, dalle usurpazioni compiute contro la loro dignità, e alle ideologie che sostenevano e giustificavano l'oppressione e lo sfruttamento. Nella teoria, tale approccio è salutare e direi inevitabile, visto che nacque come critica ed attacco all'imperialismo culturale ed economico e il colonialismo; nelle sue realizzazioni pratiche, però, rifletteva l'attitudine predominante delle società “democratiche” in cui era sorto, ossia quel certo laissez faire frutto di un'impostazione romantica che dominava il relativismo e che vedeva in ogni manifestazione culturale un oggetto da apprezzare e valutare esteticamente, ma non compatibile con l'urgenza sociale dei problemi attuali (post-colonialismo, migrazioni). In un mondo in cui eliminare, o attutire, almeno, gli attriti culturali tra popolazioni diverse, la posizione relativista risulterebbe dannosa: insistendo sulle qualità monadiche di ciascuna cultura, si rischierebbe di favorire il separatismo tra gruppi, che diminuirebbe la possibilità di incontro e dialogo tra culture, e porterebbe, al contrario, alla lotta, di matrice ideologica. Oggi, nella letteratura antropologica così come nelle scienze sociali che si occupano di migrazione, il posto centrale è occupato da concetti quali la transizione, le soglie, i confini, gli incontri/scontri, con le relative crisi di valori, trasformazioni ed innovazioni culturali prodotte proprio dall'ibridismo (Amselle, 1999; Hall, 2006); i metodi proposti dal relativismo, oggigiorno, si sono rivelati inadatti a studiare le crisi e i cambiamenti delle società in transizione, per colpa in particolare della visione monadica elaborata dal relativismo, che considerava in astratto le culture come genuine e piuttosto statiche.

Certamente, di questo approccio non vanno dimenticati gli apporti critici al modo in cui l'Occidente del mondo costruiva il suo concetto di alterità: il relativismo culturale di

Herskovits testimonia la volontà dell'Occidente di provare una profonda empatia per gli altri, dovuta forse al crescente senso di colpa derivante dagli orrori della missione civilizzatrice compiuta ai danni di persone, cose, culture. Tale empatia trova in Placide Tempels, negli anni '40, il suo esponente di spicco: il missionario belga affrontò, nella sua vita e nei suoi studi, la costante tentazione di fondersi con l'altro, di identificarsi con l'altro talmente a fondo da divenire l'altro, per poter così parlare sensibilmente delle culture altre che gli antropologi incontravano lontano dalle loro case. Herskovits e Tempels sembrano presupporre due tesi ambiziose: la prima riguarda la possibilità di una fusione totale tra il Sé e l'Altro, che, trascendendo o negando l'indeterminatezza e l'impredicibilità dell'Io, suggerirebbe che l'Io può davvero conoscere l'Altro; la seconda deriva invece dalla trasparenza, presunta e tutt'altro che certa, dell'oggetto dell'antropologia, che, in questa visione, sarebbe, in qualità di oggetto di conoscenza e scienza, un dato ovvio che è supportato dalla Storia e dalle specifiche dinamiche di uno spazio culturalizzato (Tempels, 2005). Insomma, per i relativisti conta la cultura come totalità organica, e la coscienza individuale sparisce lentamente di scena. Merito del relativismo culturale è stato comunque quello di porre l'accento sul valore intrinseco di ciascuna cultura, e sul contributo che lo studio delle differenze e delle similitudini tra gruppi e individui può apportare alla comprensione di quell'attributo di umanità che contraddistingue qualsiasi forma culturale di cui gli uomini sono testimoni, costruttori – ma da cui vengono anche costruiti.