La nostra società non ha mai funzionato coerentemente alla grande scissura su cui si fonda il suo sistema di rappresentazione del mondo: quello che oppone radicalmente la natura, da una parte, e la cultura, dall'altra.
È davvero impossibile agire sulle nostre nature – culture come si fa altrove?
Tre parole designano le azioni che intendono porre rimedio ai disordini psichici: presa in carico, cura, terapia. Presa in carico traduce alla lettera prise en charge, espressione corrente nell'antropologia medica francese; traduzione preferibile a “farsi carico di qualcuno”, perché fa cadere l'accento sul gesto, di una persona o di un gruppo, di ”caricarsi sulle spalle” chi vive una difficoltà (Coppo, 2003:47). La presa in carico è azione genericamente umana, non richiede una specializzazione professionale, perché è essenzialmente il risultato di una intenzionalità, di una volontà; ha a che fare con il supporto, il sostegno, nel suo aspetto più concreto e reale. Fondamentale, nella presa in carico, è l'interrogazione, da parte di chi la mette in opera, delle motivazioni che la sostengono.
Cura è già più legata alla salute, ai disturbi e alla malattia; in latino, cura significa “sollecitudine, interesse, premura, attenzione, compartecipazione”. Rispetto al prendere in carico, la cura è più calda, allude a una partecipazione affettiva. Nell'uso corrente della lingua italiana, cura è atto medico, ma chi cura non necessariamente ha ricevuto un'istruzione medica o terapeutica, e i ruoli tra chi cura e chi viene curata sono interscambiabili (Quaranta, 2006).
Terapia, invece, è un atto specialistico: in greco therapeìa è “servizio, cura, ossequio, culto” (therapeìa theòn è il culto degli dei, la cura dei loro altari e dei loro simulacri), ma anche “governo, trattamento”, di soma e psiche; evoca la sacralità sia di chi la agisce, sia di chi la riceve, ossia il corpo e la psiche. È un atto specialistico, appunto, delicato, che richiede luoghi, tempi e competenze particolari.
Il manifestarsi del disordine (psichico, sociale) significa lo scacco dei meccanismi di omeostasi culturale: la cultura, infatti, per gli individui che ne fanno parte, è anche una difesa dalla perdita dell'esserci nel mondo come umani, ed è la condizione che rende possibile quella presenza.
Il disordine psichico è caratterizzato da una dinamica disintegrativa rispetto a qualsiasi ordine culturale; ogni cultura è chiamata a risolvere intersoggettivamente il problema del distacco dalla natura, della protezione della vita cosciente, del dispiegamento di forme di
coerenza culturale, ed infine ogni cultura è tale nella misura in cui assicura la possibilità di iniziative, innovazioni, riadattamenti o riplasmazione da parte di singoli individui più dotati di altri (De Martino, 1961).
Tra psiche individuale e cultura esiste una continuità che la consapevole complementarietà tra approcci psicologici, antropologici, sociologici ed etnologici, propria dell'etnopsichiatria, mette in luce e consente di lavorare. L'obiettivo di ogni cura è sempre la riparazione di un tessuto lacerato, della persona, ma anche del gruppo, inevitabilmente. Uno dei modi con cui ogni cultura lavora il disordine è il ricorso a ciò che Ernesto de Martino ha chiamato “simbolismo mitico-rituale” (De Martino, 1973), messo in opera attraverso particolari dispositivi tecnico-pratici allestiti per costruire senso e recuperare ordine dal disordine; il dispositivo allestito funziona come filtro attivo che include ed esclude persone, musiche, atti, eventi, ed è finalizzato a consentire l'incontro e la negoziazione tra umani ed entità immateriali. Ritualizzare il disordine è una funzione della cultura; essa è svolta da esperti capaci di trasformare il disordine collettivo in conferma dell'ordine collettivo, ossia di rafforzare attraverso il singolo caso la cosmovisione cui il gruppo fa riferimento e i nessi che la collegano alla vita quotidiana di ciascuno. Nelle culture che si richiamano a una cosmovisione dominata dalla Luce, dalla ragione, dalle tecniche e dallo scientismo, ad organizzare la ritualizzazione dei disordini psichici e sociali sono i saper-fare di esperti della psiche: psichiatri, psicologi, psicoanalisti.
Ogni cultura tende a conservare l'ordine che la costituisce; per svolgere tale funzione, allestisce modi, luoghi, dispositivi che prevengono l'emergere incontrollato del disordine attraverso una sua messa in scena periodica oppure, quando si è ormai manifestato, lo sanziona come crimine o peccato, o lo tratta come disordine psichico. Sullo sfondo, c'è il complesso gioco di simboli, miti e riti che costituiscono il tessuto di ogni cultura e ne consentono le varie funzioni. In greco symbolon è il segno di riconoscimento o di identità, la tessera, l'oggetto che denota il legame di ospitalità tra famiglia e famiglia, città e città: oggetti spezzati in due, di cui due persone possiedono una metà ciascuno, oppure due oggetti uguali tra loro. Il verbo da cui ha origine il sostantivo, symbàllo, significa infatti “mettere insieme, unire”. Simbolo è quindi ciò che unisce gli umani e i gruppi che ne conoscono il significato, e ne rispettano le regole di comportamento che vi sono inscritte; i simboli ricevono il loro potere, il loro contenuto teorico e le istruzioni pratiche conseguenti da un accordo tra umani, e ne sono i custodi. Simbolo è qualsiasi oggetto materiale o immateriale cui un gruppo di umani ha convenuto di attribuire un significato che trascende le informazioni esplicite che reca in sé, e che rinvia ad azioni codificate. I simboli
pervadono l'ambiente cognitivo umano e spesso funzionano in modo inconsapevole, attivando o disattivando quasi automaticamente comportamenti quotidiani. Gli stessi simboli, organizzati consapevolmente, possono evocare modelli cognitivi e comportamentali ben più estesi, intensi e profondi. Bandiere, totem, oggetti sciamanici, icone religiose, loghi commerciali funzionano come potenti evocatori di complessità culturale, e nello stesso tempo come operatori del mettere assieme, del reciproco, consapevole riconoscimento tra coloro che li portano materialmente o li sentono attivi dentro di loro. Sono in grado di farlo perché alcuni processi di inculturazione e socializzazione si sono concentrati e strutturati attorno ad essi, in modo da produrre la massima sintonia dell'intenzionalità dei singoli (Turner, 1993). In tutte le culture i simboli sono utilizzati in contesti e con scopi specifici per attivare intenzionalità presenti in ogni individuo, o innate o innestate e sviluppate attraverso l'acculturazione. Il simbolo, per essere efficace all'interno di un determinato progetto, necessita di un contesto speciale in cui viene messo in presenza di chi ne condivide il senso; questo contesto è il rito, un insieme di regole e procedure codificate, che si ripetono uguali ogni volta e costituiscono una sorta di dimensione parallela a quella ordinaria. L'esecuzione della sequenza rituale ha lo scopo di rinnovare alleanze e di confermare la coesione di un gruppo. I rituali servono anche per preparare la coscienza dei partecipanti a una più efficace penetranza simbolica. Il principale operatore nel rituale è, secondo Turner, il simbolismo: tutti i rituali sono organizzati attorno ad un nucleo simbolico e a un insieme di simboli che infondono coerenza alle varie attività che compongono il rituale, una coerenza che trova nella cosmologia di quella specifica cultura la sua intenzionalità più generale (Turner, 2003). Attraverso l'esposizione a simboli che evocano l'appartenenza comune e il nucleo centrale attorno a cui essa si costruisce, vengono periodicamente rinnovati i miti sui quali poggiano l'origine e la storia del mondo condiviso. Il termine greco mythòs significa “parola, discorso pubblico, racconto, leggenda”; è il discorso comune che mette in forma, ordina la storia del gruppo e le conferisce senso. È il percorso collettivo che collega i presenti tra loro e con la loro storia, che dà senso al momento presente e indica una direzione, un destino; miti e riti sono quindi gli ingredienti di un saper-fare terapeutico, in quanto esperienza, attività e conoscenza fanno parte di un solo processo. Il processo di integrazione della conoscenza e dell'esperienza è implicato in un sistema di feed-back, un processo che Paul Ricoeur ha chiamato “circolo ermeneutico”, ma che può essere anche definito circolo di senso, in cui feed-back positivi e negativi tra cosmologia, espressione simbolica della cosmologia, sfera dell'esperienza e interpretazione dell'esperienza giocano il loro ruolo per la costruzione
della comprensione del mondo nell'ambito di riferimento fornito dalla cosmologia stessa (Ricoeur, 2008). Nello spazio-tempo del rito è concesso al singolo di oltrepassare l'immediatezza della propria esperienza, della propria storia, e di vederla da fuori, da una prospettiva ritagliata e costruita appositamente per sospendere il vissuto ordinario e quotidiano (Kerènyi, 1963). Questo tirarsi fuori dal flusso del vivente è una delle condizioni per superare la crisi che ci getta nel mondo.
Il mito precede la storia della persona; e il rito sospende per un tempo dato il fluire continuo del vivente (Kerènyi, 1963), mettendo momentaneamente al riparo dal rischio di perdersi. In ogni cultura, la sequenza cosmovisione – ideali di salute – forme della malattia – modalità di cura ed il patrimonio di simboli e riti costituiscono lo sfondo che dà il senso ultimi ad ogni attività umana, individuale o collettiva. L'attività terapeutica è sempre confermativa della cultura di cui il terapeuta (non necessariamente il paziente) è espressione; ogni atto terapeutico contiene un'intenzionalità implicita, ossia integrare il paziente nella cultura, ed in particolare, nella cosmovisione del terapeuta. Quando terapeuta e paziente appartengono allo stesso gruppo, il terapeuta rafforza e sostiene, con il suo lavoro, l'identità culturale dell'altro; l'etnopsichiatria, come ci ricorda Devereux, inizia laddove il terapeuta è consapevole del gradiente culturale che lo separa dal paziente, dell'intenzionalità propria della sua azione terapeutica e dell'eventuale conflitto che essa può generare, e decide di fare di questo quadro il suo primo e principale oggetto di lavoro. Il tutto si complica, e non poco, quando terapeuta e paziente condividono almeno la stessa costruzione culturale; ciò, normalmente, ha importanti, ed inaspettate, ricadute sull'intero saper-fare psicologico e psichiatrico.
Il terapeuta è prima di tutto un operatore della cultura e agisce per conto della e sulla cultura. Oltre che terapeuta, può essere,a seconda dei contesti, negoziatore tra il gruppo degli umani e l'ambiente visibile ed invisibile, custode degli elementi costitutivi dell'identità e della storia del gruppo, oppure sacerdote. Il potere terapeutico deriva in genere da un'istruzione formale o da un'iniziazione riconosciute entrambe dal gruppo in cui il terapeuta opera; poi, dalla prova che l'aspirante terapeuta ha dato delle sue capacità; infine, dalla verifica continua che la comunità esercita sull'efficacia del suo saper-fare. Mago, medicine-man, guaritore, sciamano, stregone, sono tutti ruoli di difficile e complessa definizione, anche se è comune separare le pratiche destinate a far del bene (magia bianca) da quelle stregonesche, e quindi la figura del guaritore da quella dello stregone10.
Il gruppo etnopsichiatrico è un gruppo sincretico, che mescola cioè varie tecniche terapeutiche e saperi tradizionali e scientifici. La medicina convenzionale continua ad essere nella sua pratica un saper-fare composito che trae una parte del suo potere dallo sfondo sacro cui si riferisce, la Scienza, e dal sigillo di verità che ne deriva. Il medico, e ancor più lo psichiatra e lo psicoanalista, cosi come i loro colleghi guaritori, sono terapeuti nel contesto di una più ampia funzione che consente loro di costruire, e confermare, la cultura di cui fanno parte. Mi permetto di tracciare una linea di confine, debole, in cui caratteristiche del migrante come iniziato e lo psicoanalista come “grande iniziato della cultura occidentale” si mescolano e si specchiano: il segreto del migrante (il suo viaggio e il suo progetto) è quello di un'esperienza vivente, profondamente vissuta, difficilmente comunicabile; l'aspirante psicoanalista, muto nella relazione con il paziente, vive profondamente anche egli un'esperienza che impegna la sua totalità, il suo coraggio, l'autodisciplina, la sua disponibilità ad esperire il non ordinario. Ma, come insegna il lavoro etnoclinico, più che le somiglianze, l'incontro con i migranti getta luce sulle differenze, radicali: ecco che l'aspirante psicoanalista esplora i suoi fantasmi sdraiato sul divano del maestro, obbligato alla verbalizzazione dell'esperienza; il migrante, frequenta e vive immediatamente il mondo dell'altro, dell'altro incolto e della radicale alterità, e facendo questo, potrebbe anche arrivare ad essere, nel paese di accoglienza, egli stesso buon mediatore tra la parte culturalizzata dell'esistente e la parte caotica, al di qua e al di là dei suoi e dei nostri limiti.