Ciò che il prof. Sala definisce come una vera e propria guerra di religione (Sala, 2003), che ha nel corpo del migrante il suo campo di battaglia privilegiato, testimonia, certamente, il disagio prodotto dalla perdita di riferimenti spazio-temporali e socio-culturali nella migrazione, che normalmente contengono l'ansia e le paure della vita quotidiana, al paese di origine, e che appunto vengono a mancare nel paese di accoglienza, in cui vigono altre regolamentazioni dello spazio, del trascorrere del tempo, di ciò che la cultura permette e ciò che, invece, sanziona o scoraggia. Vengono a mancare legami e vincoli che funzionano da rete di supporto in caso di malattia, di disturbi, di problematiche economiche o lavorative; viene a mancare la parola, in lingua madre, che sostiene e riscalda, detta proprio nel momento in cui ci si attende che esse si manifesti, e che possa essere ascoltata. La conversione ad una nuova religione, come il cristianesimo, avviene spessissimo nella terra di origine (molti migranti nascono in famiglie convertite a nuove religioni già da una o due generazioni), ma ciò non impedisce ad una persona di ricorrere, all'occorrenza, a saperi e tradizioni mantenuti all'interno della rete familiare allargata o nel più ampio contesto sociale di appartenenza; tutto questo però traballa pericolosamente quando la persona decide, o si trova costretta, a migrare. Allora può capitare che, molto distante da casa e nell'impossibilità di adempiere ad alcune obbligazioni di natura rituale e religiosa, il migrante inizi a soffrire di disturbi che si manifestano, anche all'interno dei gruppi di cura etnoclinici, come una testimonianza di una lotta tra una radicalità mai recisa con il mondo degli antenati e con la cosmogonia della propria cultura e l'aver abbracciato una nuova religione, trascurando di curare le radici, che tornano a farsi sentire, nei sogni ad occhi aperti o durante la notte, nelle nostre chiese, sui loro corpi. Credo però che tali spiegazioni non siano sufficienti: valutando come essenziale nel lavoro etnoclinico la matrice storica, sostengo che tali patologie debbano essere studiate ed affrontate, avendo ben presente l'altissimo costo che queste persone, o i loro genitori o nonni, hanno dovuto pagare nella conversione, che non è stata una semplice vittoria di un dio (il nostro) più forte dei loro “spiriti”, ma è stata una parte essenziale di quel progetto perseguito dagli imperi coloniali, e che può essere ben definito come “missione civilizzatrice”, ossia una missione che ha avuto lo scopo di conquistare beni e territori, passando anche attraverso l'addomesticamento delle menti e dei corpi delle persone (Goody, 1987), che abitavano quei territori. Una missione così poderosa che non solo ha prodotto forme abominevoli di sfruttamento e di schiavitù, ma ha anche allontanato – anche se non completamente -
intere culture dal pantheon delle loro divinità e ha trasformato la Storia di interi popoli nella storia della conquista coloniale. La conversione al cristianesimo in questo ha giocato un ruolo fondamentale: la conversione all'Occidente assume la stessa forma della conversione alla cristianità, e, di conseguenza, accettare ideologie non cristiane nella pratica coloniale significava mettere in discussione, e a repentaglio, le basi profonde del diritto stesso dell'Occidente a colonizzare. La questione è fondamentale: essa dimostra essenzialmente che la pratica coloniale era – pensata come – guidata da un'oggettività scientifica e neutrale, che andava ben oltre i limiti del pensiero umano; il colonialismo divenne scienza. Fin dall'inizio dell'esperienza coloniale, la missione civilizzatrice adoperò il cristianesimo sia come risorsa e mezzo di salvezza sia come risorsa e mezzo di rinnovamento per interi continenti, e questi due aspetti non vennero mai separati, in quanto perfettamente si accompagnavano in direzione di un unico obiettivo, ossia di una civilizzazione universale di stampo cristiano, ed occidentale (Mudimbe, 1994). Se il primo periodo di conquista fu caratterizzato da una progressiva manifestazione di aggressività e violenza, tesa a cancellare ogni traccia di cultura indigena per sostituirla con l'illuminata civiltà occidentale, imponendo anche una nuova forma di religione, con un dio unico e certamente superiore agli spiriti che infestavano la boscaglia (luogo, per altro, simbolo di una natura selvaggia che doveva essere culturalizzata), dagli anni '30 in poi, conquistatori, affaristi, politici e missionari, influenzati dal crescente malessere verso tali azioni e dagli scrupoli morali e dai sensi di colpa che iniziavano a serpeggiare in Occidente, mutarono i presupposti della loro stessa missione, che da lì in poi non sarebbe più stata dominata dal modello del contrasto/inversione (andare, distruggere, sostituire) ma sarebbe stata guidata dalla pressante domanda di come guidare tutte quelle popolazioni verso la salvezza, senza umiliarle? Qual era, insomma, la nuova idea di Africa da promuovere? Vi fu, come risposta, un'inversione rispetto al passato: la missione religiosa, i suoi postulati teoretici, la colonizzazione e la conversione dello spazio e dei suoi abitanti mantennero lo stesso obiettivo, ossia la civilizzazione secondo modalità cristiane ed occidentali, ma i metodi e i mezzi per perseguirla si riconfigurarono, seguendo il sentiero offerto dal più profondo messaggio cristiano, cioè l'autenticità e l'autoconversione che dovevano essere testimoniate dall'esempio portato dai colonizzatori. I missionari, i politici, gli uomini d'affari iniziarono a parlare di meno, ad evitare di imporsi brutalmente, ed iniziarono ad ascoltare e ad osservare i nativi, che, con l'esempio offerto dal modello di relazione tra antropologo ed informatore, cominciarono ad essere interpellati come interlocutori validi, e non solo come selvaggi da convertire. Sorgono i primi centri di accoglienza per orfani (intorno al
1900); molti missionari iniziano a combattere la logica del commercio degli schiavi, e si alleano ai nativi nella lotta per migliori condizioni di vita, trovando spesso anche l'appoggio dei governi europei (il Belgio in Congo, ad esempio, che ricompensa i missionari e il loro impegno in una più umana civilizzazione costruendo i primi edifici per tutti gli ordini religiosi operativi in quella zona). I colonizzatori comprendono che la carota funziona altrettanto bene, se non meglio, del bastone; è il presentarsi come esseri umani autorevoli ed autentici che può convincere i popoli delle colonie a convertirsi, è attraverso il pio esempio che la forza e la salvezza offerta dal nostro dio si palesa e si diffonde. La colonizzazione si manifesta come sfruttamento e missione civilizzatrice, nella realtà, ma si presenta un po' meglio del bieco estirpare, per poi sostituire: nella realtà contingente, e nel rispetto delle missioni cristiane, esiste un a priori che guida gli imperi coloniali, ossia che la loro impresa richiede una strategia per una radicale trasformazione di una natura (umana?) corrotta che viene combattuta dalla cristianità, in quanto perdita (un eccesso di natura a discapito della cultura, e un peccato), sfida (l'inimmaginabile deve diventare pensabile), e crimine (la negazione della civilizzazione). Alcuni missionari del Belgio ed altri della Gran Bretagna (operativi in Congo, i primi, e in Nigeria e Ghana i secondi) raccomandano i politici, i viaggiatori e gli affaristi delle loro nazioni di seguire alcuni punti essenziali, facenti parte di una vera e propria “ strategia didattica di addomesticamento” delle menti e dei contesti culturali dei territori conquistati, e miranti alla produzione di “nuovi” esseri umani:
– l'applicazione di un metodo appropriato (punto alquanto controverso, visto che i nativi erano considerati simultaneamente “bambini”, e quindi innocenti, e primitivi totalmente corrotti);
– una particolare attenzione alla “loro” ragione, per capire meglio il “loro” comportamento;
– una manipolazione costante del loro immaginario per poter creare un nuovo ordine di conoscenze;
– la promozione di nuove abitudini, individuali e collettive;
– l'introduzione dei principi salvifici di una attività lavorativa costante e regolare (Mudimbe, 1988).
Questi punti facevano parte di una più ampia strategia di pratiche coloniali che avevano lo scopo di favorire una conversione, ed includevano, appunto, anche l'insegnamento di una nuova forma di religione e di approccio alla spiritualità. Tale strategia didattica convogliava
postulati impliciti, come la superiorità del modo di essere e di vivere degli occidentali, oppure il primato della ragione, sempre occidentale, e principi espliciti, quali l'uso dell'immaginario per cambiare le modalità di conoscenza o lo sviluppo di nuove abitudini, basate su un'economia capitalistica ed espansionistica.
I sistemi scolastici, in questo ambizioso programma di conversione, ed inversione, dell'ordine culturale delle colonie, giocarono, e giocano tutt'oggi, un ruolo preminente ed incredibilmente efficace: le scuole, che erano soprattutto fino agli anni '60 scuole missionarie, furono pensate e progettate per fornire un'educazione di base alle masse, ossia a quante più persone possibili. L'orientamento di tale educazione, in accordo con quanto stabilito dai programmi ufficiali emanati dal 1880 e fino al 1950, doveva muoversi verso la promozione di un nuovo sistema di valori, una nuova visione del mondo, una nuova ideologia di vita fabbricati all'interno della tradizione giudeo-cristiana (Mudimbe, 1994). Agli studenti veniva trasmesso un senso della moralità basato su valori familiari e responsabilità civica di stampo occidentale; a chi completava il percorso di studi, si spalancava la porta di ingresso per lavorare come ufficiale nelle amministrazioni coloniali oppure come mediatore nelle transizioni commerciali (ciò va sottolineato in quanto il successo nella scuola cristiana occidentale contribuiva ad un eccezionale aumento della ricchezza monetaria per la famiglia di origine, e la possibilità di salire la scala sociale; va anche ricordato, però, che, in molte comunità locali, la persona che faceva carriera presso l'amministrazione coloniale perdeva il capitale di rispetto e prestigio accumulato, a nome suo, dal suo lignaggio, e spesso finiva per diventare un emarginato all'interno del suo stesso contesto sociale).
Il nuovo corso della missione civilizzatrice dell'Occidente, più attento alle tradizioni, alle abitudini, alle culture, ai modi di vita e di pensiero, rimarcò ben presto un problema culturale che doveva essere affrontato: il territorio dove operare una così profonda conversione culturale, economica, sociale e politica era abitato da persone spesso molto differenti tra loro, per linguaggio, cultura, usi e costumi, che co-abitavano tale spazio ma che rispondevano a costruzioni culturali radicalmente diverse (ad esempio, in uno stesso territorio potevano esistere gruppi matrilineari e patrilineari); promuovere lo sviluppo di un nuovo sistema, e in definitiva, di una nuova memoria collettiva, divenne una preoccupazione centrale per le autorità coloniali. Dal 1930 in poi, l'obiettivo coloniale si definirà attorno all'invenzione di una nuova cultura, caratterizzata da un alto grado di coesione ed omogeneità. Questa “nuova” cultura doveva agire su tre differenti livelli:
progetto della cristianità; il matrimonio secondo le norme cristiane e la successione patrilineare simboleggiavano l'integrazione del tessuto sociale autoctono con l'ordine coloniale;
– i linguaggi vennero sistematizzati in ordine gerarchico: la lingua del padrone (inglese, francese, portoghese, etc..) sedeva ovviamente nel punto più alto di tale gerarchia e, sebbene non fosse proibito agli autoctoni parlare la lingua del colonizzatore, essa rimaneva sempre e comunque “proprietà” dell'elite – ecco come si può agire sull'immaginario di un intero popolo, basta associare il desiderio di migliorare il proprio status economico e sociale alla lingua dei padroni, ed il gioco sembra fatto -; gli altri linguaggi, espressione delle varie etnie abitanti un territorio conquistato, vennero ordinati sulla scala gerarchica in base alla propensione delle persone che li parlavano a collaborare e a farsi convertire dalla missione civilizzatrice (o anche, come successe in Congo Belga o in Rwanda, sulla base di teorie evoluzionistiche secondo cui l'africano con tratti somatici più attenuati – simili a quelli europei – era anche quello che si trovava su uno scalino un po' più alto dell'evoluzione della specie umana, e quindi anche il suo linguaggio meritava una posizione migliore nella gerarchia delle lingue da utilizzare, sempre dopo la lingua del paese europeo che dominava il territorio in questione);
– la graduale costruzione di classi sociali, basata sulla professionalizzazione degli autoctoni, per cui, da una lista di possibili professioni che andava dai servi ai mercanti ed artigiani, si svilupparono tre principali categorie sociali: tecnici al servizio delle amministrazioni coloniali o di nuove istituzioni come banche, ospedali, tribunali, etc.., coloro,insomma, che riuscivano a farsi strada all'interno della struttura di potere coloniale, e occuparne i gradini più in basso; una piccola borghesia occupata dagli affari, e che divenne la via per diffondere i valori occidentali nello strato sociale più tradizionale; una neo-nata classe operaia, attratta da stabilimenti, fabbriche, laboratori che sorgevano in tutto il continente.
In tutto questo si può facilmente notare come, accanto all'azione puramente evangelizzatrice delle chiese occidentali, anche l'economia, con le sue regole di mercato, la valorizzazione della competizione e delle capacità individuali, abbia contribuito massicciamente alla creazione di un nuovo sistema organizzativo, in cui la conversione spirituale andava a braccetto con l'adesione, più o meno forzata, a modelli economici e sociali di matrice europea; l'economia, con la promessa di un guadagno certo in cambio di un'attività lavorativa costante, l'assetto sociale, con l'inserimento di nuovi modelli di
suddivisione, di successo, di emancipazione, e la religione, in equilibrio tra ascoltare i nativi ed imporre loro una via di salvezza e una possibilità di rigenerazione, controllarono e regolamentarono la graduale integrazione di quelli, tra i nativi, ritenuti “adatti” all'addomesticamento (Goody, 1987; Mudimbe, 1994).