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Il potere del discorso missionario e la conversione in Africa

Il discorso missionario in Africa è stato sia un segno sia un simbolo di un modello culturale. Per un lungo periodo, assieme ai racconti dei viaggiatori e alle interpretazioni degli antropologi, il discorso dei missionari costituì una forma di conoscenza. Nel primo quarto del ventesimo secolo, divenne chiaro a chiunque che il viaggiatore era diventato il colonizzatore, l'antropologo il suo consigliere scientifico, e il missionario continuò, in questo assetto di conquista economica ed intellettuale, in teoria come nella pratica, ad espandere e a diffondere il modello di nuova spiritualità e di metamorfosi culturale. Il programma delle missioni fu, sin dagli inizi, ben più ambizioso della semplice trasmissione della fede cristiana: dal sedicesimo secolo e fino al diciottesimo, i missionari furono parte di un processo politico di creazione ed estensione del diritto di sovranità dell'Europa su tutte le nuove terre scoperte, obbedendo alle “sacre istruzioni” di papa Alessandro VI nella sua bolla Inter Caetera del 1493 (Mudimbe, 1988), in cui si chiedeva di annientare il paganesimo e portare la fede cristiana in tutte le nazioni barbare. Grande attenzione, quindi, nella missione civilizzatrice, fu riservato all'occupare lo spazio, oltre che a conquistarlo: a seguito dell'arrivo e della conquista di un territorio, avvenivano normalmente elaborate cerimonie di appropriazione anche simbolica di queste terre, che ricerca utilizzati. Esse differiscono, principalmente, nella loro scelta di prospettive complementari: la Storia organizza i suoi dati in relazione all'espressione cosciente della vita sociale, mentre l'antropologia procede attraverso le sue fondazioni inconsce (Lévi-Strauss, 2009:68).

consistevano nella costruzione di un simbolo (un pilastro, una croce) del potere dell'impero a cui i conquistatori appartenevano, una solenne dichiarazione che annunciava la nuova sovranità, e la simbolizzazione finale della nuova giurisdizione a cui i “selvaggi” dovevano sottostare (Lanternari, 1998b). Molto spesso, e paradossalmente, il simbolo migliore dell'impresa coloniale fu il missionario, in qualità di devoto sostenitore degli ideali del colonialismo, ossia l'espansione della civilizzazione, la disseminazione della cristianità, e l'avanzamento del progresso. Ovviamente, gli obiettivi dei missionari dovevano essere in accordo con la visione e la prospettiva culturali e politiche del paese da cui provenivano, oltre che con la loro visione cristiana dell'ordine religioso di appartenenza. Il missionario era al contempo agente di un impero politico, un rappresentante di un modello di civilizzazione, ed in inviato di dio. Tra i tre ruoli non vi era alcuna contraddizione, in quanto implicavano il medesimo scopo, la conversione delle menti africane e dello spazio. Il discorso dei missionari, allo scopo di evangelizzare e convertire, per la salvezza e la conversione culturale, evolse all'interno di una cornice teoretica che è stata definita da diversi studiosi “l'autorità della verità” (Eboussi-Boulaga, 2002; Korang, 2003), poiché il messaggio che essi diffondevano era testimonianza della volontà di dio, nei termini di una conversione del mondo intero attraverso una rigenerazione culturale e socio-politica, il progresso economico e la salvezza spirituale. Ciò implica, quanto meno, che il missionario, moto raramente se non mai, è interessato ad un dialogo con i pagani e i selvaggi, ma piuttosto impone loro la legge di dio, che egli incarna. Una persona i cui ideali e la cui missione provengono direttamente da dio, ha tutto il diritto di usare ogni possibile mezzo, anche la violenza, per ottenere i risultati prefissati; di conseguenza, la “conversione africana” non fu mai il risultato di un dialogo, ma piuttosto rappresentò sempre la sola ed unica posizione che il conquistato poteva assumere, per sopravvivere in qualità di essere umano. Mi sembra quasi inutile insistere sulla pervasività e la violenza simbolica e fisica esercitate dalle missioni in quei territori: il risultato odierno è che moltissime persone provenienti dall'Africa siano oggi credenti, profondamente, cristiani, ma che allo stesso tempo, il loro corpo, nella migrazione, tenda a rivivere una storia di coercizione e sopraffazione attraverso sintomi, malesseri e disturbi che colpiscono appunto il soma, prima della psiche, in quanto possibile ed autentico teatro in cui mettere in scena lotte post-coloniali, guerre tra dei, richiami instancabili ed incancellabili dalla terra di origine.

Il discorso missionario, convinto della superiorità della cristianità, espressa nella sua qualità essenziale, ossia l'identificazione con la ragione, storia e potere, si è sempre

presentato, in accordo con gli studi del filosofo camerunense Eboussi-Boulaga (2002), come caratterizzato da cinque elementi fondamentali:

– prima di tutto, il suo linguaggio di derisione, utilizzato principalmente per ridicolizzare gli dei “pagani” (questo tratto è per me particolarmente significativo, perché nel lavoro etnoclinico capita spessissimo, soprattutto nei primi attimi di presentazione o di inizio della consultazione, che il migrante stesso si dichiari cristiano – cattolico o protestante – e derida la religione tradizionale della sua cultura, bollandola come semplice e sciocca superstizione; lavorare nell'etnoclinica significa, quindi, essere anche consapevoli che tale discorso è frutto di un'azione ben mirata – la missione civilizzatrice –, radicata nel tempo, nello spazio e nelle menti delle persone che l'hanno subita, con il dichiarato scopo di rigenerare intere popolazioni attraverso un profondo cambiamento culturale e una conversione spirituale). E non ci si deve dimenticare che sin dai suoi inizi, il cristianesimo si è appropriato sia dell'unico modo per comunicare veramente con dio sia dell'unica vera immagine di dio e della sua magnificenza;

– secondo, il discorso missionario è il linguaggio del rifiuto o della sistematica riduzione: tutte le religione pagane rappresentano il lato oscuro della pura trascendenza cristiana, e questa simbolica contrapposizione di colori stava a significare anche una contrapposizione tra bene e male, dio e satana;

– il terzo attributo è quello che più caratterizza gli obiettivi pragmatici delle missioni, ossia che la loro azione è sempre supportata da un linguaggio di dimostrazione che riflette la volontà divina. Per poter deridere e rifiutare le pratiche e le credenze non cristiane, i missionari enfatizzarono la fede cristiana in termini della sua coerenza e delle sue virtù rigenerative; categorie religiose e bibliche invadono la logica coloniale, rendendo in tal modo sacro un modello culturale;

– il quarto è rappresentato dall'ortodossia cristiana che mette così in relazione fede in dio e conoscenza, o meglio, la fede come unica strada per arrivare alla conoscenza di un'unica e sola verità, quella rivelata da dio; inutile sottolineare che questa è la pietra su cui costruire in Africa la credenza in una supremazia dell'esperienza europea;

– per ultimo, il discorso missionario è il discorso che conforma le pratiche umane alla volontà suprema di dio: i missionari stessi, attraverso l'esempio offerto dalle loro azioni, testimoniano che nessuna impresa umana è destinata al successo senza

l'accordo di dio (e quindi testimoniano anche che la missione coloniale ha avuto l'avvallo del dio cristiano); lo spirito santo appare, in ultima istanza, quindi, come l'unica vera forza storica (Eboussi Boulaga, 2002).

Le categorie del discorso coloniale, di cui l'azione dei missionari costituiva un'asse portante, il sostegno, per così dire, teologico, derivavano da una combinazione strutturale di vari fattori: da un lato, i commenti e le interpretazioni etnografiche sui popoli conquistati venivano arrangiate in modo da prospettare la loro possibile conversione; dall'altro, specifici simboli socio-culturali designavano il passaggio dalla stato “primitivo” a quello civilizzato. Molto spesso, le tesi evoluzionistiche esprimevano la conversione da arretratezza ed oscurità – di satana – a luce della civilizzazione e del regno di dio; altre volte la trasformazione veniva descritta come la guarigione in un mondo malato, l'imposizione di ordine in un mondo di disordine, follia, corruzione, e illusioni diaboliche. Nella sua forma standard, il processo di conversione, che era la via maestra per una vita “civilizzata”, veniva presentato come un percorso graduale e gerarchico: al livello più basso vi erano primitivi e pagani; questi, convinti dai missionari, venivano battezzati, esprimendo così la volontà di abbracciare la nuova fede, ma al contempo di voler diventare, se non proprio occidentale, almeno occidentalizzati; e, per ultimo, al top del percorso di conversione, vi erano i cristiani a tutti gli effetti, gli evoluti, gli occidentalizzati. I missionari delle chiese cristiane hanno dato comunemente per scontato che la civilizzazione europea, ed occidentale, e la cristianità fossero due aspetti di uno stesso dono che loro, in particolare, erano incaricati di offrire al resto dell'umanità, anche se, molto spesso, tale affermazione viene negata dai religiosi stessi (anche se, altrettanto spesso direi, viene orgogliosamente ribadita). Fondamentalmente, come ricordava Benedetto XV nella sua enciclica del 1919, Maximum Illud, basata su fondamenti evoluzionistici che guidavano anche il pensiero antropologico del tempo (Mudimbe, 1988), i missionari dovevano impegnarsi nel lottare contro satana e portare la salvezza a “poveri popoli dell'Africa vittimizzati dalle forze del male”, alternando programmi di assimilazione forzata ed imposta ad una conversione le cui modalità non mirassero a distruggere i valori e i principi di vita e di pensiero delle popolazioni conquistate, come, ad esempio, propose e fece il missionario belga Placide F. Tempels con la cultura Bantu, da egli incontrata in Centro Africa (Tempels, 2005).

Dal 1950 in poi, un nuovo orientamento apparve nelle missioni cristiane in Africa: gradualmente, la politica ufficiale delle chiese sostituì la conversione totale e la cancellazione di aspetti culturali lontani da quelli promossi dai valori cristiani con un esame

ed uno studio attento del contenuto della cristianità sviluppatasi nel contesto africano (Mudimbe, 1994). Nuove premesse costruirono una prospettiva totalmente differente: la cultura “pagana” viene considerata ed analizzata come un campo abbandonato in cui, comunque, già prima dell'arrivo delle missioni esistevano i segni della presenza di dio; così, se ci deve comunque essere un solo obiettivo, una sola mira – la cristianità – i metodi per arrivarci devono essere modificati ed adattati alle diverse circostanze e culture (Lanternari, 1994).

Questa nuova corrente deve molto al fatto che, dal '50 in poi, la diffusione del messaggio cristiano in tutto il continente africano era nelle mani, quasi esclusivamente, di un clero autoctono, composto da uomini che avevano studiato presso le scuole dei bianchi, nella loro terra di origine o in Europa, che avevano percorso tutto il cammino della conversione fino a diventare non solo cristiani ed “occidentalizzati”, ma anche il canale preferenziale per trasmettere e diffondere il messaggio della missione civilizzatrice. Un nuovo vocabolario sorge e si diffonde, e, nei principi espressi, promuove anche una forma nuova di evangelizzazione: africanizzazione, indigenizzazione, naturalizzazione, adozione della cristianità. Il clero africano, influenzato dagli insegnamenti degli europei, così come da molti testi prodotti dall'antropologia culturale del tempo sulle religioni africane e la stregoneria, legge ed utilizza tali riferimenti alla ricerca di modalità per trasformare la religione tradizionale o, almeno, per usare alcuni dei suoi elementi nel processo di adozione della cristianità da parte degli autoctoni. In quel periodo, una teologia dell'incarnazione fu promossa con particolare enfasi, basandosi su di alcune nuove premesse: la “negritudine” e la personalità nera viste come espressione di una civilizzazione africana, la Storia africana vista come una preparazione per la cristianità, e alla fine l'esperienza della schiavitù, dello sfruttamento e della colonizzazione come segni della sofferenza che dio ha imposto ai popoli scelti. Dagli anni '50 e per tutti gli anni '60, l'obiettivo principale fu chiaramente quello di discernere i più importanti fattori che contribuirono alla costruzione progressiva di una teologia dell'incarnazione (Komla-Ebri, 2005; Mudimbe, 1988). Tali fattori furono:

– un forte interesse nell'africanizzazione della cristianità nella misura in cui essa permise una separazione tra cristianità e storia e cultura dell'Occidente, e introdusse elementi africani nella istituzione della chiesa;

– una ricerca per un elemento africano nel campo delle attività e degli studi teologico- religiosi;

progetti di ricerca condotti da studiosi africani.

Sarebbe inaccurato dire che la maggior parte dei missionari dagli anni '60 in poi sostenne una nuova prospettiva evangelizzatrice, che rispettasse così tanto le cultura autoctone; vi era, accanto ai timori politici degli imperi coloniali derivanti dal crescente malcontento nelle colonia, anche il sentore, all'interno delle chiese occidentali, che appoggiare queste nuove teorie, questi nuovi approcci significasse la fine delle iniziative missionarie in Africa. Ma i tempi oramai erano maturi per chiedersi chi poteva e doveva parlare propriamente del continente africano, e da quale punto di vista, e per mettere in forte discussione il discorso antropologico e missionario sulla questione dell'alterità: i “selvaggi” sapevano parlare, non solo quando le loro tradizioni e i loro più profondi modi di vita e di pensiero erano a rischio, ma anche riguardo l'individuazione e la valutazione delle procedure e delle tecniche utilizzate per descrivere ed interpretare le loro culture, le loro tradizioni, i loro saperi.

4.7 L'influenza dell'antropologia nella politica della conversione. Un breve