L'antropologia ha partecipato alla colonizzazione ed ha promosso ciò che molti autori concordano nel definire “la fase mitologica” fondata su ipotesi che testimoniavano una serie di opposizioni binarie contrastanti tra le virtù della civilizzazione europea e la loro supposta mancanza nei territori colonizzati. È vero anche, però, che tale affermazione si riferisce ad una prima fase di studi antropologici, durata più o meno fino agli anni '30, e caratterizzata dalla presenza sul campo di antropologi formati nelle università – in particolare britanniche – e tutta una serie di personaggi (missionari, viaggiatori, esploratori, avventurieri) che produssero una sorta di “antropologia amatoriale”, i cui racconti, però, erano spesso validi anche da un punto rigorosamente scientifico ed occidentale, in quanto tali persone erano spesso molto istruite e, pur non avendo ricevuto una preparazione formale al metodo etnografico di indagine antropologica, normalmente avevano una alta ed ampia cultura che toccava tutte le scienze sociali, e quindi anche l'antropologia. In più, c'è da sottolineare che, per quanto riguarda soprattutto i missionari, essi, una volta arrivati sul “campo” non lo abbandonavano più, e condividevano il resto della loro vita con gli autoctoni, al contrario dei professionisti dell'antropologia, che permanevano sul campo alcuni mesi, o al massimo un paio d'anni. Se esiste una differenza tra gli studi antropologici e le interpretazioni dei missionari e degli “antropologi amatoriali”, essa deriva dalla particolarità intellettuale delle rispettive missioni: il missionario, con lo scopo di “salvare anime”, aveva il compito di integrare la sua comprensione della comunità autoctona all'interno di un processo di riduzione radicato nella teologia della salvezza, definita entro i limiti della storicità occidentale; l'antropologo, invece, voleva contribuire alla storia dell'umanità raccogliendo quanti più dati sulle peculiarità culturali incontrate sul campo, ed interpretarle in accordo con una griglia metodologica di analisi e di generalizzazioni che dipendeva, anch'essa, dalla stessa tradizione storico-culturale dell'Occidente. C'è, però, tra le due prospettive, una differenza fondamentale:
l'antropologo amatoriale, ed il missionario in particolare, entrava e permaneva sul campo riferendosi ad una esperienza esistenziale, la cui superiorità rispetto a quella dell'autoctono faceva sì che quest'ultimo venisse “ridotto” e tradotto all'interno della fede e delle prospettiva culturale del missionario, mentre l'antropologo professionale entrava e permaneva sul campo riferendosi ad un'autorità esperienziale, espressione di un sapere, l'antropologia appunto, che individuava nel “primitivo” il suo oggetto di lavoro e che lo inseriva in una cornice scientifica di interpretazione. Insomma, i primi erano più predisposti a comprendere la cultura, i secondi a comprendere i significati prodotti dalle interpretazioni. L'antropologia, sia essa più o meno amatoriale o professionale, mutò ovviamente nel corso della sua storia: certamente gli anni '20, con l'opera in particolare di Malinowski e la sua teoria del cambiamento culturale (Malinowski, 2011), segnano un decennio spartiacque, e gli studiosi europei iniziano ad abbandonare i postulati di Lévi- Bruhl riguardanti la presunta mente pre-logica dei non occidentali, o le teorie prodotte dall'evoluzionismo, dal funzionalismo, e dal diffusionismo, che reprimevano l'alterità in nome di una similarità che riduceva il differente al già conosciuto (Barnard, 2002). Ma fu negli anni '50, caratterizzati dai movimenti indipendentisti in opposizione al colonialismo, che rigettare gli aspetti essenziali della prospettiva antropologica in voga fino ad allora divenne compito sia degli antropologi europei, sia degli intellettuali africani (filosofi, antropologi, uomini del clero, politici). Tale mutamento, per l'appunto, fu la conseguenza del sorgere, in tutto il continente africano, di movimenti nazionalisti di liberazione: essi sottolinearono che la relazione tra europei e africani non fu una relazione nata da un incontro di natura “culturale”, ma piuttosto fu una relazione nata dalla situazione coloniale imposta dall'Occidente con la forza, e come tale doveva venire letta ed interpretata. Iniziarono così moltissimi progetti di natura politica, culturale e scientifica miranti allo studio delle culture autoctone, da parte di molti intellettuali africani, e non più solo esperti provenienti dal mondo occidentale; da sottolineare che tale avventura nacque segnata da un evidente paradosso, ossia che questi studiosi africani, preparati in scuole pensate e progettate da occidentali, aderivano sinceramente ed entusiasticamente ai presupposti (anche più rigidamente positivisti) delle scienze sociali, finendo per abbracciare la cornice epistemologica e metodologica offerta dal pensiero scientifico occidentale, e negando ciò che più era legato alle tradizioni sapienti dalle quali provenivano. Come sostiene Mudimbe, la tradizione scientifica occidentale, oltre che il trauma del commercio degli schiavi e la colonizzazione, fanno parte dell'eredità culturale che caratterizza il continente africano dei nostri giorni (Mudimbe, 1988). Tale eredità è visibile, nei nostri consultori, nelle
nostre istituzioni di cura, nei progetti di lavoro con i migranti, quando essi si presentano come perfettamente “occidentalizzati”, quando ci dicono che “per carità, queste sono tradizioni vecchie, cose che facevano i miei nonni, io sono un uomo moderno”; credo che un operatore debba stare assolutamente attento a cogliere segnali di questo genere, perché testimoniano la forza che il colonialismo e il pensiero occidentali hanno esercitato sulle popolazioni colonizzate, deprivandole dell'orgoglio di essere diverse da noi, ed addestrandole a misurarsi su di una scala evolutiva, il cui scalino più alto è rappresentato da tutto ciò che è occidentale, quindi moderno, più facile, appariscente, comodo, migliore. Tali momenti vanno accolti nel pieno del loro valore di memoria in cui tradizioni sapienti, che resistono, e nuove tradizioni, spesso imposte da cui ha maggior forza militare ed economica, si incontrano e riattivano ricordi, storie, parole, immagini che seguono, e alle volte inseguono, il migrante nel suo viaggio migratorio, fino a ricreare, qui da noi, uno sfondo in cui le ferite inferte dal colonialismo alla storia personale e familiare si riacutizzano, nella forma di una negazione (“io sono moderno”) o di un orgoglioso e doloroso diniego (“ciò che voi mi state offrendo non mi sta bene”).
Dal diario di ricerca del 09 Settembre 2011
Foucault disse che il potere di sovranità guarda al passato; ciò lo fa apparire costituzionalmente debole e per questo deve essere riattualizzato. A questo servirebbero i rituali, a riattualizzare un potere impregnato di passato che si palesa sotto forma di significante da celebrare periodicamente, in un'ottica pubblica e sociale, per riconfermare infinitamente l'ordine sociale prestabilito. Avendo a che fare con le persone che migrano da lontano e che conservano, spesso, una forte vicinanza e una profonda conoscenza dei significati rituali caratteristici di alcuni passaggi fondanti la loro cultura, abbiamo nella realtà dei fatti la possibilità di confrontarci con esseri umani che costantemente riattualizzano le loro tradizioni e la loro Storia.
Spazio: ogni corpo ha la sua collocazione. Agire sull'individuo e sull'individualità elimina ogni possibile azione della molteplicità, quei fenomeni collettivi nati attraverso la comunicazione dal basso tra individui, per evitare il diffondersi del male (diffusione morale del male attraverso l'imitazione dell'appena più grande). Perché suddividere in 3 gruppi i minori:
– collocazione spaziale; – agire sull'individualità;
– evitamento della diffusione per contagio e imitazione.
Uno degli obiettivi del lavoro in gruppo può essere: visto che il potere disciplinare agisce come collettivo al suo centro, ma sempre individualmente in periferia, ecco che pensare alla genitorialità in forma gruppale – il gruppo dei genitori – fa riappropriare la periferia di quella sorta di molteplicità che la cultura occidentale ha occultato, e della quale ha espropriato la periferia stessa.
Individualizzazione come tappa nel processo di cura, attraverso il PEI, in cui confluiscono gli sguardi molteplici delle varie gerarchie interessate al minore: il medico nell'area sanitaria e fisica del progetto,la scuola nell'area scolastica, l'educatore e l'assistente sociale in tutto il resto del processo, a rappresentare degnamente l'interesse generico dell'istituzione sociale, inteso sia come interesse che riguarda un po' tutti gli aspetti di vita del ragazzo, sia come un interesse mai specificamente indirizzato a quel preciso ragazzo, proprio a lui, ma piuttosto ad un ideale di minore, ad un ragazzo che risponde bene o male alla misura impostagli dall'istituzione, e costruita su ciò che essa pensa sia, o debba essere, un ragazzo di quell'età.
CAPITOLO 3
IL LABORATORIO, ALLA SOGLIA DELLE ISTITUZIONI
Dal diario di ricerca del 16 Novembre 2011
L'arte di Michel Foucault consisteva nel “diagonalizzare” l'attualità attraverso la storia; in questo sottile incrocio tra costruzione dei saperi, impegno personale e lavoro sul materiale culturale risiede l'articolazione particolare del lavoro che propongo, e, prendendo esempio dal lavoro del grande intellettuale francese, mi sono impegnato, con i professionisti che ho incontrato sul campo, a pensare ad un percorso in cui la Storia occupasse un posto privilegiato, dal quale osservare ed essere osservati, dagli altri, affinché divenisse pratica, o almeno tensione, quotidiana quella di misurare la forza del nostro sapere con il metro offerto dalla Storia, che ristabilisce la verità in quanto fa apparire come costrutto culturale, specifico e particolare, ciò che normalmente viene avvertito come naturale, ossia il nostro punto di vista, il nostro modo di vita e di pensiero.
Paragrafo 1
Foucault tra potere e storia: discorsi e strumenti dell'analisi istituzionale
Il potere non è mai ciò che qualcuno detiene o che da qualcuno promana. Il potere non appartiene né a qualcuno in particolare né ad un gruppo; il potere esiste solo perché esistono dispersione, correlazioni, scambi, reti, punti d'appoggio reciproci, differenze di potenziale, scarti e così via. È all'interno di questo sistema di differenze che il potere potrà funzionare (Foucault, 2000). Esistono però le gerarchie: nelle istituzioni che si occupano di cura dei minori, l'educatore siede sul gradino più in basso di tale gerarchia, ma ciò non significa che il suo ruolo e l'esercizio delle sue funzioni non siano importanti a garantire quella sorta di controllo esteso sul minore e la sua famiglia, necessario a conservare una dose sufficiente di potere nella relazione con la famiglia, e a mantenere e rafforzare il posto occupato da ciascuno nella scena abituale e quotidiana che si svolge all'interno dell'istituzione, quando, ad esempio, i genitori vengono convocati per incontrare l'assistente sociale e gli educatori (convocare è proprio il verbo di uso comune per indicare la serie di strategie atte a coinvolgere i genitori in riunioni con gli esperti) ma anche quando, a fine giornata, i genitori vengono a riprendere i figli, per riportarli a casa. In
questo caso specifico, i genitori vengono in un certo senso raggirati dagli educatori, che potranno osservarli sul piano della loro quotidianità e della più intima ma anche banale relazione con i figli: gli educatori sembrano non stancarsi mai di sottolineare quanto ricchezza, in termini di materiale osservato, si possa raccogliere in questi momenti “informali” in cui i genitori, per una volta non convocati, ma liberamente presenti al centro per riaccompagnare a casa i loro figli, consegnano agli esperti desideri da cui sono animati, richieste da trasmettere a qualcuno più in alto nella gerarchia istituzionale, atteggiamenti e comportamenti che vengono annotati e poi saranno oggetto di discussione con l'assistente sociale, figura, questa, peraltro, che rimane sempre sullo sfondo della scena, suggerendo l'idea che la sua capacità di controllo si realizzi anche in sua assenza, avendo però dato istruzioni precise ed ordini determinati all'equipe di lavoro. La parola, ed il suo utilizzo, sembra dominare la pratica educativa e la relazione con i genitori; poco importa che sia una parola spesso dettata da un comune buon senso piuttosto che dallo studio preciso e specifico, una parola diciamo esperta, essa è l'arma invisibile attraverso cui ottenere risultati, e perpetuare all'infinito il dispositivo di potere che ha costruito la possibilità di dire quelle parole, avendole rese docili da un pezzo. L'educatore, con il minore arrabbiato o disubbidiente per un qualche motivo, gli parla, con tono via via più fermo possibile, e se non bastasse, anche il più minaccioso, ricorrendo ad ingiunzioni adeguatamente dosate e mai eccessive; può aver inizio una sorta di balletto tra i due, o una battaglia, dove si stabilisce un determinato rapporto di forza, e ciò che è fondamentale in questa scena pedagogica frequente e ricorrente è che in un dato momento la verità deve emergere in tutta la sua evidenza, attraverso, spesso, la confessione di un errore da parte del minore. Avvenuta la confessione, si compie e in un certo modo, forse un po' dilettantistico, si ritualizza il ritorno alla normalità – una pacca sulla spalla e delle scuse dette “sinceramente” suggellano tale momento, seguito poi dal reinserimento del ragazzo nel gruppo di pari.
Domande di ricerca: in che misura un dispositivo di potere può essere in grado di produrre un certo numero di enunciati, di discorsi e, di conseguenza, tutte le forme di rappresentazione che possono in seguito derivarne? In che modo una certa organizzazione e disposizione del potere, determinate tattiche e strategie del potere, possono dar luogo ad un insieme di affermazioni, negazioni, esperienze, teorie, in breve, ad un complesso gioco della verità? Dispositivo di potere e gioco della verità; dispositivo di potere e discorso di verità (Foucault, 2004:25).