Per una revisione critica del modello danese 1 Breve premessa
7. Alcune considerazioni di sintes
Pur tenendo in debita considerazione le tendenze appena illustrate, che spingono a interpretare la flexicurity secondo una prospettiva più critica e problematica, è tuttavia evidente il diverso scenario in cui il dibattito sulla flessibilità -o meglio ancora sul rapporto tra flessibilità e sicurezza- si sviluppa nel contesto danese, rispetto a quello non solo italiano, ma anche più generalmente europeo. E’ infatti innegabile che, pur essendo al centro di un importante dibattito interno, la questione della flessibilità non assume in questa realtà quella connotazione di precarizzazione che rappresenta invece un tratto costante nel nostro dibattito interno ed europeo: indubbiamente anche nel contesto danese il fenomeno della precarietà riveste una sua specifica problematicità; anzi, come evidenziato nel paragrafo precedente, si tratta di un aspetto che sta alimentando nuove preoccupazioni, facendo emergere il rischio di un progressivo indebolimento del consenso sociale. Quello che però va messo in evidenza è come questi processi non vengano interpretati come il portato di un mercato del lavoro flessibile, quanto piuttosto come degenerazioni del cambiamento nelle politiche sociali di sostegno al reddito e nell’accentuazione di quella competitività che ha per molto tempo rappresentato la faccia complementare di un’estesa e consolidata impostazione solidaristica. La flessibilità, intesa come polo costitutivo di una dinamica storica, non viene insomma messa in discussione: proprio perché risultato di un consolidato processo consensuale, di un accordo basato su una
visione cooperativa e solidale, ad essa si guarda con la naturalezza di una cultura (economica e del lavoro), che ha da sempre visto in questo strumento un modo per conciliare in maniera virtuosa dinamicità produttiva e coesione sociale.
Come si deve leggere, allora, questo processo e quali le considerazioni che si possano trarre nell’ottica di una riflessione allargata al conteso sociale europeo? Da un punto di vista economico, la flexicurity può essere concepita in prospettiva di una valorizzazione qualitativa della propria competitività di mercato. In questo senso essa può acquistare una forte valenza propositiva se si salda alla valorizzazione dalle risorse umane, possibile attraverso politiche formative mirate ed efficaci, capaci di far elevare i livelli di professionalità, competenze e capacità della propria manodopera. In altri termini, interpretata nella sua componente economica-imprenditoriale, la flexicurity può definire uno scenario di successo solo se impostata in maniera congiunta con politiche formative che, come indicato dalle analisi OCSE sopra citate, ma anche dalle stesse raccomandazioni redatte in sede europea, sappiano muoversi in direzione di un potenziamento del capitale umano e di una valorizzazione della conoscenza, senza le quali essa si trasforma in una rischiosa anticamera della marginalità.
Da un punto di vista più propriamente storico-sociale, la flexicurity non può che essere concepita -vale la pena sottolinearlo ancora una volta- come risultato di una tradizione concertativa, del confronto democratico e della cooperazione, che non trova facile riscontro nelle altre realtà sociali europee. A spingere ulteriormente verso il dialogo sociale, anche in tempi più critici come quelli attuali, è sicuramente la forte matrice locale e decentrata, che consente un quotidiano dialogo tra le parti sociali e le esigenze provenienti dalla base, in questo favorendo quei processi di bottom-up promossi dall’Unione europea e che sembrano qui trovare una loro efficace possibilità di attuazione.
In questa prospettiva, ciò che va colto, senza chiudere ad alcuna considerazione valutativa, ma aprendo anzi ad una riflessione che può trovare in queste pagine spunto per un suo ulteriore approfondimento, è il senso stesso di una transizione che si inserisce nel vivo delle dinamiche economiche e sociali,
cercando di gestirne le sfide più attuali. Come sottolineano numerosi studi in materia, l’esperienza danese può rappresentare rappresentare un importante momento di confronto e di apprendimento per gli altri paesi europei; tuttavia i
policymakers nazionali non possono attingere alle misure di attivazione adottate in
tale contesto e trasferirle automaticamente nei propri sistemi nazionali attendendo gli stessi risultati, senza tener conto delle differenti strutture del mercato del lavoro, della sua diversa organizzazione, delle molteplici, differenziate articolazioni della politica economica, del lavoro e della protezione sociale415. La peculiarità del sistema danese va piuttosto colta nel suo definire un passaggio importante nelle forme e nei modi di intendere la cittadinanza sociale, aprendo in particolare su tre dimensioni principali di riflessione.
In primo luogo, infatti, si assiste alla definizione di una nuova articolazione del rapporto tra decommodification e recommodification416. La de-mercificazione intesa come grado di libertà offerta al cittadino attraverso le prestazioni sociali al fine di ridurre la sua dipendenza dal mercato,417 si saldava nel modello scandinavo idela-tipico con una parallela ed altrettanto elevata capacità di (re)inserimento sul mercato del lavoro, resa possibile da politiche pubbliche (in particolare politiche attive) particolarmente sviluppate (recommodification). Questa equilibrata dinamica, in cui l’alto grado di demercificazione si rafforzava di una complementare buona capacità di reinserimento attraverso le politiche attive, tende però ora a farsi più instabile, in seguito alle recenti riforme intercorse proprio sul fronte dell’attivazione, che tendono a sbilanciare l’asse di questo binomio verso il polo della rimercificazione. Ciò che cambia quindi –e qui possiamo rintracciare la seconda area di riflessione- è il concetto stesso di cittadinanza sociale, sempre più intesa come una duplice inscindibile acquisizione
415 J. K
VIST and L. PEDERSEN,o.c., p. 111; P.K. MADSEN, Contribution to the EEO
Autumn Review 2006 ‘Flexicurity’, European Employment Observatory, November 2006.
416 Cfr. C. P
OLANY, The Great Transformation, Rinheart, New York, 1944, G. ESPING
ANDERSEN, I fondamenti sociali delle economie postindustriali, o.c, 1999.
417 Essa si traduce, per esempio, nella possibilità per il soggetto che ha perso il proprio
lavoro di non vendere subito la propria forza lavoro (mercificazione), ma di poter usufruire della garanzie sociali che lo proteggono temporaneamente dai rischi sociali.
di diritti e doveri sociali, che apre sul senso della partecipazione attiva come dimensione complementare della cittadinanza sociale418. Il cambiamento in questo senso è radicale, spingendo alla promozione dell’autonomia e sul rafforzamento degli obblighi sociali.
Il rafforzamento della componente attiva comporta infine un’ulteriore conseguenza: gli studi e le valutazioni in materia evidenziano infatti come i miglior risultati delle politiche attive si registrino tra coloro che ne avrebbero meno bisogno (cioè i lavoratori già qualificati), mentre per i gruppi più svantaggiati l’obiettivo di un’occupazione tradizionalmente intesa resta purtroppo molto spesso un obiettivo scarsamente realizzabile. Benché i livelli di demercificazione per questi gruppi si presentino ancora comparativamente elevati, resta infatti prioritario insistere maggiormente sulla capacità/possibilità di inserire le categorie più vulnerabili, riducendo le disuguaglianze fondate sul genere, le competenze, l’età, ma anche l’origine etnica. Il rischio di una potenziale segmentazione sociale basata sull’accesso all’occupazione si dimostra infatti una delle sfide prioritarie che anche i più consolidati sistemi universalistici devono affrontare, specialmente nel contesto di una crisi mondiale che potrebbe riproporre i problemi occupazionali a cui proprio le politiche attive hanno cercato di rispondere in questi ultimi decenni.
418 Cfr. G. S
TANDING, The Road to Workfare: Alternative to Welfare of Threat to
Occupation? In «International Labour Review», 129(6), 1990, pp. 677-691; T. JANOSKI,
Citizenship and Civil Society: A Framework of Rights and Obligations in Liberal, Traditional and Social Democratic Regimes, Cambridge University Press, Cambridge 1998.