Per una revisione critica del modello danese 1 Breve premessa
3. Sistema sociale e mercato del lavoro: le specificità del caso danese.
Il sistema sociale danese si caratterizza per un alto livello di mobilità lavorativa equilibrato però da un sistema di benefici e di politiche di attivazione ampiamente sviluppati. Tale sistema ha suscitato negli ultimi anni una crescente attenzione nel dibattito internazionale, in quanto assunto come ottimo esempio di un sistema sociale che ha saputo adeguarsi ai cambiamenti in atto nella struttura economica e produttiva, rafforzando un’articolata dinamica di relazioni interconnesse tra stato e parti sociali. Con il concetto di flexicurity, espressione con la quale si sintetizza in un unico concetto le due anime contrapposte di questo modello392, definito anche della ‘solidarietà competitiva’, si delinea così un
392
La prima definizione, coniata con riferimento all’Olanda, descrive la flexicurity come una strategia politica finalizzata a conciliare la flessibilità del mercato del lavoro, dell’organizzazione
sistema che, specialmente nell’elaborazione comunitaria più recente393, è spesso accolto come possibile approccio per un’elaborazione nel sociale che sappia confrontarsi con il cambiamento tecnologico, l’innovazione e la globalizzazione, mantenendo però salde quelle sicurezze sociali consolidate nella tradizione welfaristica europea394.
Nella realtà danese, tale processo si sviluppa all’interno di una più ampia prospettiva di riforma del welfare che prende avvio a partire dalla metà degli anni Novanta, a causa di un preoccupante incremento dei livelli di disoccupazione. In questo contesto, la tradizione solidaristica danese si salda ad una più spiccata apertura al mercato, stabilendo un sistema di relazioni in cui lo spirito di matrice universalistica lascia spazio ad un approccio mirato ad un crescente innalzamento dei livelli di responsabilizzazione individuale della cittadinanza. In particolare a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, il principio base nell’implementazione delle nuove politiche sociali diviene infatti quello della responsabilizzazione e dell’attivazione individuale, dando vita ad un sistema sociale altamente flessibile, integrante le diverse parti sociali (pubbliche, private e non governative) e impostato su un sempre maggiore livello di decentramento che, come si vedrà approfondendo più avanti la questione della flexicurity, assumerà grande rilevanza nel mercato del lavoro. Ma è anche la dimensione più del lavoro e delle relazioni industriali da un lato con la sicurezza dell’impiego per i lavoratori dall’altro (Cfr. T. WILTHAGEN and F. ROGOWSKI, Legal Regulation of transitional labour markets, in G. SCHMID and B. GAZIER (eds.) «The Dynamics of full employment: social integration trough transitional labour markets», 2002, pp.233-273). Una successiva e più comprensiva definizione, invece, interpreta la flexicurity come una combinazione tra lavoro, occupazione, reddito e sicurezza che faciliti il percorso di inserimento nel mercato del lavoro per i lavoratori con posizione debole, favorendo sia un rafforzamento della qualità del lavoro, sia una più ampia partecipazione ed inclusione sociale, provvedendo al tempo stesso ad una serie di aggiustamenti (temporali e quantitativi) delle condizioni lavorative, al fine di mantenere e rafforzare la produttività e la competitività (Cfr. ID., The concept of ‘Flexicurity’: a new approach to regulating
employment and labour markets, in «Flexicurity: Conceptual Issues and Political Implementation
in Europe Transfer», European Review of Labour and Research, vol.10, n.2 2004).
393
L’idea di istituire, a partire dal 2007, un Fondo Europeo di adeguamento alla Globalizzazione, mirato a favorire il reinserimento dei lavoratori che subiscono le conseguenze negative della concorrenza e della delocalizzazione, si inspira infatti proprio al modello della
flexicurity danese.
394
Cfr. Agenda Social- Flexicurité: concilier flexibilité et sécurité de l’emploi, numero 13, marzo 2006
propriamente economica a svolgere un ruolo di primaria importanza nell’articolazione di questo sistema di relazioni e definendo il tratto forse più tipico della flexicurity danese. Rispetto alle altre realtà scandinave, la struttura economica della Danimarca si caratterizza infatti per un’imprenditorialità di piccole e medie dimensioni, molto legata alle proprie trazioni agricole. Con questo non si vuol dire che non si sia sviluppato un certo numero di aziende ad alto contenuto tecnologico (alcune esperienze importanti si ritrovano in particolare nei settori biomedicale, delle telecomunicazioni, della farmaceutica e della meccanica avanzata), piuttosto però si è preferito promuovere una cultura innovativa nell’ambito di produzioni, quali quella alimentare, tessile e della lavorazione del legno, generalmente collocate tra le produzioni scarsamente tecnologizzate. Per esempio nel tessile, l’introduzione di nuovi processi tecnologici, nonché lo sviluppo di nuovi settori come quello del design, ha favorito lo sviluppo di una produzione altamente specializzata, capace di fronteggiare la concorrenza dei nuovi paesi emergenti395. Tali processi hanno sicuramente incentivato la richiesta di flessibilità, che, già tipica nelle aziende di piccole-medie dimensioni, diviene ancor più centrale nel momento in cui l’impresa richiede livelli di specializzazione e diversificazione crescente.
Quello che si delinea è perciò un sistema altamente complesso che spinge, sia sul fronte economico quanto su quello più propriamente sociale, verso l’articolazione di una dinamica di cambiamento-flessibilità-individualizzazione, in cui la tradizione del sistema welfaristico tenta di conciliarsi con le esigenze del mercato, insistendo sull’innovazione, la formazione e l’attivazione. Tali riforme, secondo l’interpretazione data negli ultimi anni dagli studiosi dell’Università di Roskilde, hanno condotto ad uno spostamento nel modo di concepire il welfare, sempre più inteso come ‘risorsa competitiva’, in un contesto di innalzamento qualitativo dei propri standards produttivi.
395 E’ quanto emerge dai colloqui effettuati con studiosi ed economisti dell’Università di
Roskilde, nonché da numerosi studi sulla realtà scandinava, per i quali si rimanda in particolare a P. BORIONI (2005) e J. JESPERSEN (2006).
In questo senso il concetto stesso di flessibilità assume una valenza tutta particolare, aprendo ad una riflessione sulla possibilità di conciliare efficacemente l’alta produttività con la qualità del lavoro, ma ponendo anche nuovi interrogativi circa la salvaguardia della coesione e dell’equità sociale.