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Esclusione sociale e lavoro

3. Inclusione e lavoro: i nodi critici.

Inquadrare il lavoro in una prospettiva di inclusione-esclusione sociale vuol dire guardare ad esso «non come ad un rapporto tecnico di produzione, bensì come ad una struttura di integrazione sociale».85 Assunto nella sua dimensione non strettamente economicistica, ma anzi interpretato come strumento di partecipazione ed integrazione sociale, il lavoro si svela allora nella sua valenza di norma sociale. Se attribuire il carattere di “normatività” ad un concetto significa considerarlo non esclusivamente nel suo essere fattuale, ma anche come espressione di un dover essere (di un carattere, appunto, normativo)86, nel caso del lavoro, allora, la sua interpretazione come norma sociale fa riferimento alla sua ineliminabile valenza di concetto storicamente e socialmente connesso al riconoscimento di certe caratteristiche, che non si esauriscono nell’essere economicamente remunerativo e socialmente regolamentato, bensì si saldano all’idea di riconoscimento sociale che il lavoro ha da sempre implicato. Certo, come sostiene Prieto, «il lavoro non è l’unico fatto sociale che comporta in se stesso “normatività”, ma probabilmente è quello che è arrivato ad acquistare un’intensità normativa maggiore. La ragione è relativamente semplice: nei paesi sviluppati, nel corso del XX secolo, il lavoro è stato trasformato nella “colonna vertebrale” intorno a cui si è tentato di costruire un ordine sociale giusto e legittimo […], che oggi si chiama coesione sociale.»87

Ed è proprio in questo nesso tra lavoro e coesione sociale che si può rintracciare la contraddittorietà più evidente della crisi della regolazione sociale attuale88: nel momento in cui il tema della coesione diviene prioritario

85

C. RANCI, Le nuove disuguaglianze in Italia, Il Mulino, Bologna 2002, p.23.

86

Cfr. C. PRIETO, Il lavoro in Europa: trasformazioni, tendenze e logiche in gioco.

Introduzione, in F. BIANCHI e P. GIOVANNINI, «Il lavoro nei paesi d’Europa. Un’analisi comparativa», Franco Angeli, Milano 2000, pp.7-23 (in particolare pp.8-9); R. DOMBOIS, Verso un

nuovo modello nel rapporto di lavoro? L’erosione dei normali rapporti di lavoro e le nuove strategie, in ID., pp.47-84.

87 C. Prieto, o.c., p. 10.

88 Per quanto attiene alla crisi della regolazione sociale, in particolare nell’ambito

lavorativo europeo, si rimanda a M. REGINI, L’Europa fra de-regolazione e patti sociali, in «Stato e Mercato», numero 55, aprile 1999, pp. 3-38; G. ESPING-ANDERSEN, Serve la deregolazione del

nell’elaborazione delle strategie di sviluppo sociale, il lavoro, o meglio, la sua regolamentazione sociale, che ha rappresentato la cornice storica di una certo equilibrio sociale (il cosiddetto compromesso sociale del trentennio d’oro89) si sta indebolendo. Storicamente, infatti, le società si sono articolate sulla base di una divisione del lavoro che ha scandito l’organizzazione della vita sociale e collettiva. Negli svolgimenti tipici del ventesimo secolo, poi, lo status lavorativo è stato quello che più di ogni altro ha influenzato la collocazione dell’individuo nello svolgimento delle proprie attività sociali, nell’esercizio dei propri diritti e più ampiamente nell’affermazione della cittadinanza: il riconoscimento sociale del lavoro ha funzionato insomma come momento di legittimazione dell’esistenza sociale del soggetto, dotandosi quindi di una forte connotazione normativa.

Ma proprio questa spiccata normatività sociale sembra ora mutare, non per una maturazione (e -si vorrebbe poter dire- per un consolidamento) di statuti e modalità organizzative naturalmente volti al cambiamento90 nel quadro però di una solida regolazione sociale del lavoro; quanto piuttosto per una generale tendenza al ribasso, che mentre allenta la forza di tale regolamentazione, mina anche la portata normativa del lavoro in termini di strumento di legittimazione ed inclusione sociale.

Un esempio particolarmente significativo a tale proposito è sicuramente quello del lavoro flessibile, che, da tipologia atipica e residuale, sta divenendo sempre più diffusamente forma occupazionale e contrattuale tipica. Si tratta di un cambiamento in sé privo di una connotazione valoriale negativa, anzi nato come strumento per favorire l’adeguamento ad un sistema economico-produttivo che chiede al lavoratore rapidità, capacità di adattarsi al cambiamento e mobilità, ma

mercato del lavoro? Occupazione e disoccupazione in America e in Europa, in «Stato e mercato»,

numero 56, agosto 1999, pp. 185-212.

89

Cfr. in particolare C. CROUCH, Sociologia dell’Europa occidentale, Il Mulino, Bologna 2001

90 Si pensi solo alle trasformazioni in atto nei tempi e modi di produzione conseguenti alla

tecnologizzazione ed all’impatto della globalizzazione, ma anche più semplicemente ai cambiamenti socio-demografici e degli stili di vita tipici delle società avanzate contemporanee nelle loro implicazioni occupazionali, in particolare per quanto attiene all’occupazione femminile.

che sta portando con sé un preoccupante allentamento delle garanzie sociali tradizionalmente acquisite attraverso lo status occupazionale, con il rischio crescente di sostituire una regolazione troppo rigida, ormai inadeguata e necessariamente da reimpostare, con un’ancor più preoccupante carenza di regolazione.

Questa crisi della regolazione sociale del lavoro (che rischia di essere il preludio di forme più gravi di nuova de-regolamentazione sociale) si esplica in un duplice, contemporaneo processo di frammentazione e individualizzazione. La frammentazione riporta ad una dimensione sempre più tipica della società contemporanea, definendo una sorta di comune denominatore (sia delle dinamiche socio-relazionali, sia di quelle socio-economiche) che contribuisce alla ristrutturazione nel profondo degli stessi rapporti tra individuo e collettività, quindi giocando un ruolo di primo piano nell’elaborazione di una coesione sociale che, come si è visto, appare sempre più sottoposta a tensioni critiche. Nella sfera lavorativa, tale frammentazione si riflette come incapacità del lavoro di istituire riconoscimento sociale91, aprendo su nuovi potenziali di esclusione che possono anche investire misure e pratiche formalmente istituite proprio per promuovere integrazione e partecipazione sul mercato del lavoro92.

L’individualizzazione93, invece, che può rappresentare tanto una conseguenza della frammentazione, quanto un suo tratto costitutivo (se non addirittura una sua pre-condizione), trova un proprio spazio all’interno dei processi di contrattazione, la cui solidità come strumento di garanzie sociali

91 Cfr. V. B

ORGHI, Esclusione sociale, lavoro ed istituzioni: una introduzione, in ID. (a cura di), «Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro», o.c., pp.9-34 (in particolare pp.18-19).

92

Il riferimento è, in prima istanza, alle politiche ed ai programmi di attivazione, da molti interpretati criticamente come possibili fonti di nuovi circuiti di marginalizzazione ed esclusione (v. cap. VI-VII), ma anche a tutta una serie di interventi di politica sociale e del lavoro che, secondo Haller, sono stati attivati in Europa negli anni Sessanta e Settanta, originando inconsapevolmente «strategie di chiusura sociale» (p.3), i cui esiti sono purtroppo particolarmente visibili oggi, nell’esclusione dei giovani dal mercato del lavoro (M. HALLER, Significato e

dimensioni delle disuguaglianze, in L. GALLINO (a cura di), «Disuguaglianze ed equità in Europa», o.c., pp.3-44.)

93

Cfr. R. CASTEL, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004.

collettivamente riconosciute e protette si sta allentando a favore di sempre più frequenti forme di accordi personali tra datore di lavoro e lavoratore, in una prospettiva che sposta la riflessione sull’indebolimento dei tessuti di solidarietà sociale classica ed apre sulla necessità di reimpostare nuove pratiche di solidarietà, non più centrate sulla dimensione di classe. Si tratta di una dimensione che, come vedremo, inciderà in maniera determinante anche sugli attuali sistemi di welfare, spingendo verso una revisione di istituti e modalità d’intervento ormai inadeguati e richiamando alla necessità di fronteggiare il crescente rischio di un’individualizzazione che può trovare una sua pericolosa degenerazione proprio attraverso una certa applicazione di quelle politiche attive, finalizzate al reinserimento lavorativo dei soggetti vulnerabili94.

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