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SU ALCUNI ESEMPI DI METASTORIA MITICO-RITUALE NON RELIGIOSA (IL GIOCO, L’ARTE)

PERSONA E CULTURA

LA TRASCENDENZA COME GUARENTIGIA DEL MONDO DEI VALORI (PERSONA E METASTORIA)

5.4 SU ALCUNI ESEMPI DI METASTORIA MITICO-RITUALE NON RELIGIOSA (IL GIOCO, L’ARTE)

Si è detto che il riposo dal divenire nella metastoria è comunque lavoro. Diventa “qualcosa”: Demeter e Kore. O diventa poesia, scriveva de Martino. E cos’altro può diventare? Notiamo come la metastoria sia un orizzonte di senso che accoglie molte più esperienze di quelle che possiamo immaginare. La trascendenza, nella varietà delle sue forme, non è solo dell’uomo arcaico. Certamente, in società contemporanee «in cui il distacco dalle condizioni naturali non va oltre la caccia e la pesca ed alcuni strumenti litici, o in cui il regime economico si è sollevato dall’agricoltura primitiva alla zappa o alla pastorizia o alla agricoltura dell’aratro»,651 così come anche «nelle società primitive e nel mondo antico l’arco della vita individuale nel quadro della vita collettiva è disseminato di rischi esistenziali che per noi hanno perso ogni significato».652 E de Martino in tal senso evoca alcuni esempi: l’incontro con bestie feroci, l’attraversamento di luoghi sconosciuti e selvaggi, l’esito incerto della caccia da cui dipende il destino di una comunità, le vicende metereologiche incerte, la siccità che inaridisce i pascoli e uccide il bestiame, le epidemie sterminatrici e altre ancora. Ma ciò non esclude affatto che anche la nostra civiltà presenti dei momenti critici in cui l’esserci storico-mondano “urti” con la realtà, fino al rischio di inabissarsi. Pensiamo, ancora una volta, al lutto, alle fasi della evoluzione sessuale, alle catastrofi naturali o alla malattia; «senza contare i momenti critici che sono connaturati alla civiltà capitalistica come tale (le crisi economiche e le forme spietate di sfruttamento), o all’atrocità delle guerre moderne, o al crudo dispotismo degli stati dittatoriali capitalistici o socialistici che siano».653 Ma pensiamo pure a dei momenti strettamente autobiografici in cui la storia “sporge”: problemi sul posto di lavoro, sul piano delle relazioni sociali, degli obblighi morali, ma anche –ricorda de Martino- l’ispirazione artistica o speculativa, la vocazione\conversione religiosa, eccetera. Momenti critici dunque essere allora anche quelli «di conflitti morali, di ispirazione poetica, di dubbio logico».654 Dal momento che «ciò che mi fa essere come persona è proprio questo decidere per l’essere che vale»,655 io devo sempre decidere per la storia anche quando la desidero allontanare; e questo non vale per i grandi cataclismi ma anche per il mio banale quotidiano in cui, di tanto in tanto, vado cercando guarentigia nella metastoria. Anche la decisione di uscire dalla storia è valore, se appunto decisione culturale (suicidio o follia, vedremo alla prossima sezione, non sono destorificazioni valorizzate).

L’uomo –è questa la sua condizione- “fa la storia”, la costruisce, scegliendo e valorizzando: non può non storificarsi per questo suo concreto scegliere e valorizzare. Ma quando il

651 E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 36. 652 Ibidem.

653 Ibidem.

654 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 117. 655 E. de Martino, Storia e Metastoria…, cit., p. 101.

146 riconoscimento integrale di tale condizione minaccia di compromettere lo stesso ethos del trascendimento, l’uomo, per proteggersi dalla crisi esistenziale, destorifica il suo “far storia”. 656

Ora, la destorificazione può avvenire in modi del tutto “banali”. In tal senso, anche il turpiloquio è esperienza destorificatoria. La “parolaccia” si inscrive nell’urto con la realtà, in una situazione-limite dell’esserci come “parola della crisi” sempre pronta a ripetersi (è dispositivo mitico-rituale) che, pur nella negativa valorizzazione del suo senso, ricerca il mutamento di segno per entro il simbolico linguistico. Si tratta, ovviamente, di una metastoria scarsamente reintegratrice, senza escaton direbbe de Martino, ovvero che scende nella catabasi della crisi con evidente impeto linguistico ma non ha grande forza per risalire alla anabasi del valore. Anche il tatuaggio, specie quello rituale di popolazioni “tradizionali”, è esperienza destorificatrice di passaggi critici sublimati nel divenire corporeo, e benché nel mondo contemporaneo il tatuaggio si sia reso indipendente dalla originaria esigenza di proteggere una crisi “liminare” dell’evoluzione biografica, ancora custodisce –ma con scarsa forza reintegratrice- la stessa esigenza di cancellazione della storia rischiosa, motivo per cui è di grande uso negli adolescenti (essendo questa, per antonomasia, la tappa evolutiva più esposta ai rischi della storia). Ma pure la moda, quanto perseguita con rigidi ritualismi (per esempio vestirsi unicamente di un colore, o con abiti firmati esclusivamente dallo stesso stilista, oppure possedere tutti i colori di uno stesso capo fino a fare salti mortali per collezionarli tutti) diviene esperienza metastorica. A parte questi esempi, de Martino invece si sofferma in particolare nella metastoria del gioco e dell’arte, dove nel primo caso emerge con evidenza il lato rituale e nel secondo quello mitico. Anzitutto, è esperienza di trascendenza il gioco infantile, in quanto «giuocare, nel senso dei giochi infantili (giocare alla mamma e al bambino, alla cucina, al treno, ai ladri, agli indiani, ecc.) significa istituire col reale che ancora non si possiede un rapporto “destorificato”, in virtù del quale si possiedono e si controllano tutti gli elementi, per quanto su un piano metastorico».657 Questo rapporto, scrive de Martino, anticipa la storia reale in cui le cose “giocate” diventeranno a tutti gli effetti “eventi storici”, e come tali «non interamente dipendenti dalla propria signoria, e dotati di tutta la serietà e l’impegno e l’incertezza della dura realtà. (Il bambino reale che la madre un giorno avrà non è così pianificabile secondo il desiderio come lo è la bambola, o il compagno che sta al gioco, ecc.)»658. Spiega quindi lo studioso:

L’urto con la realtà che si rivela viene attenuato nella sua asprezza trasportandosi in una realtà addomesticata, sognante, simbolica e soprattutto manovrabile secondo regole già note, messe in opera dal giuocante via via che svolge il proprio giuoco. Ciò però che nel giuoco non ha rilievo è il mito, l’immagine dei tempi primordiali fondator operati da numi e ripetuti cerimonialmente:

656 Ivi, p. 122.

657 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 229. 658 Ibidem.

147 questo aspetto resta senza espressione nella levità del giuoco, che è un semplice immediato abbandonarsi ad un sognante rapporto demiurgico col reale659.

Se nel gioco il rito prevale rispetto al mito, nell’arte, anch’essa tutto umano anelito alla trascendenza, accade esattamente il contrario: è metastoria in cui il mito pare esaurire il rito. «Se il simbolo mitico-rituale è un certo orizzonte di ripresa della crisi esistenziale, l’immagine di una totalità e il rapportarsi rituale con essa, l’arte non ha rito perché l’immagine della totalità “parla di sé” senza bisogno d’altro: l’arte è un mito che ha ritirato il rapporto col tutto nella potenza espressiva della parola umana e non è quindi più mito, ma coinonia rischiosa ripresa e contemplata in chiare immagini mondane».660 Del resto, come nel gioco vi è comunque il mito di una vicenda che ludicamente ogni volta si ripete, così anche nell’arte vi è –pure se estremamente inconsapevole- la componente rituale. L’arte, in un certo senso, è rito musicale, scultoreo, danzante, pittorico, teatrale, letterario, poetico, cinematografico, eccetera; ed è altresì il mito di questi gesti metastorici, che ogni volta “ripetuti” in una lettura, in un ascolto, in una visione, in una esecuzione, in un verso scritto a penna, eccetera, divengono di nuovo, e sempre originalmente, i Quadri da un’esposizione

di Musorgskij, La pietà del Michelangelo, La bella addormentata di Čajkovskij, La Primavera del

Botticelli, L’avaro di Molière, l’Anna Karenina di Tolstoj, L’infinito di leopardi, La fontana della

vergine di Bergman. Tutta quest’arte è “fuori dal tempo”, potenzialmente ripetibile e ripercorribile;

ha arrestato la storia in una metastoria che può ripetersi mediante altri artisti ed altri volti che ne contemplano questa eternità. E l’arte, più di ogni altra forma di metastoria non religiosa, consente di giungere negli abissi più profondi della crisi e di risalirvi con esito felice. Del resto, anche l’ispirazione artistica può concludersi infelicemente; vedremo alla prossima sezione esempi artistici negativi, cioè discese nella catabasi senza risalita. L’opera d’arte, sia essa pittorica, musicale, letteraria, teatrale o di altro genere, è in quanto vicenda metastorica, «un modo di recuperare gli eventi minacciati dall’irrigidimento e dal caos».661 E questo recupero, che si compie “a vari livelli” sia a seconda dei periodi storici e delle civiltà sia a seconda del genere di arte (un meno codificato e simbolizzato “ballo da discoteca” non raggiunge la liberazione morale intersoggettiva del uno strutturato balletto classico), sempre e comunque comporta «un momento di discesa agli inferi, cioè sino al piano in cui l’oggetto è in crisi»:662 l’arte è catartica perché entro gli argini controllati di questa custodia metastorica la persona “tocca” la sua crisi, “sprofondando” in essa (catabasi) per poi risalire ai piani del valore (anabasi), dove l’opera è a tutti gli effetti “arte” e non “estetismo” quanto più è in grado di realizzare compiutamente il movimento critico catabasi\anabasi (in tal senso, il balletto classico si dice è “più artistico” del ballo da discoteca in quanto con più forza rituale

659 Ibidem.

660 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 32. 661 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 473. 662 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 473.

148 compie il movimento di discesa e risalita). «Non può essere stabilito una volta per sempre di quanti gradini è lecito scendere per compiere poi l’anabasi. Ciò che importa è che il piano sia raggiunto e che l’anabasi si compia (sia comunicabile, intersoggettiva, reintegratrice), di guisa che l’opera singola consenta di leggere questa vicenda».663 De Martino, in tal senso inquadra l’arte come esperienza metastorica potenzialmente morale;664 ed individua nell’arte fortemente catartica la solidità di un orizzonte patrio da cui emergere: potremmo dire quindi che quanto più l’orizzonte mondano è saldo, tanto più l’iniziativa artistica può concedersi di calarsi negli abissi più cupi della crisi con la certezza “vittoriosa” di poter risalite compiutamente alla storia. Nell’arte antica, supportata da una “patria culturale” più salda di quella moderno-contemporaneo, secondo de Martino il riscatto dalla catabasi alla anabasi avviene pienamente e per mezzo di opere dotate di altissima liberazione morale; ma essendo anche minore il “viaggio” critico che comporta una discesa e una risalita. Non tutta l’arte antica, però, presenta il rapporto stretto tra catabasi e anabasi. La tragedia antica, ad esempio, col suo preciso descrivere drammi umani pure nelle sue componenti più irrazionali, e manifestando con forza lo scontro tra necessità e libertà, per certi versi ricorda la letteratura moderna –su cui nella prossima sezione ci soffermeremo- con le sue descrizioni senza riscatto del perdersi umano e dell’esperienza patologica. L’angoscia del cordoglio, nel duplice dramma irrelato di ebetudine stuporosa ed esplosione parossistica, la si ritrova, scrive de Martino, in Euripide: dall’Alcesti (si pensi alle parole di Admeto al rientro del funerale di Alcesti: «“Ahimè, ahi

ahi, | Dove andare? Dove stare? | Che dire? Che tacere? | Come morire?”»665); alle Troiane (in cui «Ecuba che giace a terra annientata, prima di inaugurare la lamentazione pronunzia analoghe parole di smarrimento: “Che debbo tacere? | Che cosa non tacere? | Su che lamentarmi…”»666); fino a Medea, in cui Cleonte, quando si risolleva dalle spoglie della cara figlia Glauca, «cercava di

rimettersi in piedi, ed essa, in senso inverso, lo tratteneva. Tirava con violenza? Le sue vecchie carni si strappavano dalle ossa. Infine vi rinunciò e rese l’anima, impotente ad aver ragione della sciagura».667 Diverso è il caso dell’estetica di Omero con la sua anabasi “ben riuscita”, sulla quale del Martino si sofferma anzitutto per il fatto che «ove prescindiamo dalla risoluzione poetica di Omero, la crisi di Achille per la morte di Patroclo si manifesta in modi “eccessivi” che noi oggi non saremmo disposti a concedere a un uomo “normale”, e che possiamo al più tollerare con varia

663 Ibidem.

664 In questo senso, notiamo uno stacco rispetto alla concezione crociana dell’arte. Per de Martino un atto artistico

mal riuscito è direttamente riferibile alla bassa reintegrazione morale anastrofica. Per Croce l’arte non deve invece avere a che fare con le altre forme dello spirito, compresa la morale. Per Croce, dunque, «il “brutto” nasce anche quando per esempio si mette in versi un sentimento morale o un concetto filosofico, cioè quando non solo l’utile, ma la moralità o la filosofia o la scienza o la politica si confondono con la poesia», E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 41.

665 E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 44. 666 Ivi, p. 45.

149 disposizione d’animo nelle contadine dell’Italia meridionale o della penisola balcanica».668 In particolare, de Martino evoca l’episodio omerico del fabbro divino Efesto che prepara per Achille uno scudo dai decori particolarmente significativi, ovvero in esso vi si ritrovano al centro l’ordine naturale, con le raffigurazioni del cosmo inteso come permanente e come eterno ritorno: con la terra, il mare, il cielo, il sole, la luna, ecc.; e alla periferia l’ordine culturale proprio dell’intervento umano: il matrimonio, la giustizia, la guerra propri dell’ordine cittadino, e l’aratura, la mietitura e la vendemmia, l’allevamento, la caccia, il riposo, la danza festiva propri dell’ordine agricolo. Ordine, questo, circoscritto da Oceano, il quale “contiene” tali scene di vita e opera umane con la corrente che simbolicamente abbraccia gli estremi dello scudo al di là dei quali vi è il regno delle tenebre, della morte. Vita e morte, fedeltà e infedeltà all’ethos, cultura e natura stanno insieme nell’orizzonte metastorico contenuto nello scudo di Efesto. Sebbene possa sfuggire il significato di questa descrizione omerica all’interno dell’economia dell’Iliade, De Martino –anche grazie a note interpretazioni critiche669- rilegge tutto ciò alla luce dell’orizzonte metastorico quale custodia della presenza umana: lo scudo non protegge “solo” in quanto arma di difesa ma in quanto mito poiché la sua “storicità di scudo” è trascesa nel mito delle origini dell’ordine umano di natura trascesa in cultura. Emerge infatti come il poeta antico «rappresenti l’ordine della natura secondo la fondamentale intuizione unitaria di ciò che nella natura già è inserito nell’ordine della civiltà: sole e luna sono i grandi notificatori del tempo, le stelle valgono come guida per il pellegrino e per il marinaio, Odisseo viaggia verso l’occidente mantenendo alla sua destra l’Orsa maggiore quale infallibile segno del Nord, e infine fra l’apparizione e la scomparsa delle Pleiadi, delle Iadi e di Orione il contadino esiodeo ripartisce i lavori agricoli».670 Così, per quanto Omero non lo espliciti, ciò che riscatta Achille dalla crisi della presenza (in tal caso dalla crisi del cordoglio) non è solo il “richiamo al destino eroico” di quel dono divino, ma specialmente la contemplazione delle raffigurazioni destorificatrici nello scudo dell’ordine della civiltà oltre la morte che Oceano separa. Questo scenario riscatta Achille dalla crisi incombente di fronte al cadavere di Patroclo; lo scenario dello scudo «evoca dunque in adatte immagini di ripresa il compito del superamento della crisi, la meta della riconquista dei valori, il mondo della cultura intercalato fra l’ordine naturale e la corrente Oceano».671 Nel contemplare questo “ordine laico dell’opera civile”–così lo definisce de Martino- Achille argina la crisi della presenza e si adopera per la reintegrazione dei valori, sapendo che per attuarlo dovrà però sforzarsi alle regole del vivere civile, quindi «percorrere per intero le vie degli obblighi rituali, dalla vendetta al sacrificio, dagli agoni al banchetto, compiendo in tal modo quanto

668 Ivi, p. 43.

669 Come quella di W. Schadewalt, Von Homers Welt und Werk (Stoccarda 1944). 670 E. de Martino, Morte e piano rituale…, cit., p. 209.

150 è tecnicamente necessario per l’effettiva risoluzione della crisi, cioè l’allontanamento nell’Ade di Patroclo morto e al tempo stesso la riappropriazione dell’amico nell’ethos di una benefica memoria interiore e nella riconquista del diritto dei vivi».672

La discesa agli inferi e la risalita al valore si intravvedono specialmente in tutte quelle forme d’arte che con più forte evidenza separano, mediante espedienti propri di ogni tecnica artistica, la catabasi dalla anabasi. Per de Martino questa è l’arte più autentica benché egli non giunga a definire di quanto l’arte, per essere tale, debba scendere negli abissi della crisi umana. Tuttavia, lo studioso si esprime in tal senso; e «se non si può prescrivere in astratto di quanto occorra perdere il mondo ordinato per ricondurlo di nuovo all’ordine, ciò che importa è che la ripresa avvenga, quale che sia il livello cui si deve scendere per tale riprendere: avvenga, cioè, la ripresa verso la forma, verso i valori, verso l’ordine intersoggettivo, comunicabile, umano».673 La Commedia di Dante, con il precipizio nella “selva oscura” e la risalita trionfante al Paradiso ne è un valido esempio. La fiabistica popolare altresì conserva sempre –nei demeriti dell’antagonista e nelle virtù dell’eroe- il simbolico passaggio di catabasi e anabasi, generalmente espresso con molta nettezza. Si pensi alla fiaba tedesca Der geraubte Schleier (Il velo rubato), trasposta poi nel balletto di danza classica “Il lago dei cigni”, sinfonicamente musicato da Čajkovskij. Si narrano le vicende del principe Siegfried per prendere in sposa la sua amata Odette, fanciulla trasformata in cigno da un sortilegio del malvagio mago Rothbart. Ora, qui catabasi e anabasi sono il cigno nero e il cigno bianco. Il balletto non è solo “regola del ballo” ma è dispositivo mitico-rituale messo in musica; esso contiene

l’exemplum risolutore che, da fine ottocento ad oggi, ripete nei teatri del mondo il mito originale del

precipizio verso il “nero” della crisi e l’emergenza vittoriosa al “bianco” del valore. Anche i colori, oltre all’opposizione protagonista-antagonista, realizzano efficacemente il rapporto crisi\valore del dispositivo metastorico: si pensi all’uso del colore in Caravaggio, dove ombra e luce vogliono mostrare all’uomo una via di salvezza dalla crisi (si pensi all’uso della luce che irrompe nel buio in

Vocazione di san Matteo). In generale de Martino rileva come l’opera d’arte fortemente catartica

non possa emergere se non da uno sfondo patrio solidamente funzionante, integro; solidità che generalmente la religione si adopera per garantire. E non è per caso se, specifica lo studioso, nell’antichità «le civiltà hanno tratto alimento dalla vita religiosa –che la religione greca rese possibile la poesia di Omero e la religione cristiana la poesia di Dante».674

672 Ivi, p. 213.

673 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 472. 674 E. de Martino, Storia e Metastoria…, cit., p. 63.

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5.5LA METASTORIA MAGICO RELIGIOSA

Possiamo tornare, adesso, alla domanda iniziale di questo capitolo: e cioè, «come è nata e come si giustifica l’aspirazione religiosa?»675 In parte abbiamo già risposto. De Martino nella sua attenzione scientifica rivolta alla metastoria, decise di “limitarsi”, come egli precisò, «al grande tema della destorificazione religiosa», mediante cui –come anticipato- «viene anzitutto istituito un rapporto con il se stesso alienato (o naturalizzato o destorificato)».676 Per meglio comprendere lo specifico del rapporto “ambivalente” con il sé naturalizzato, è utile evocare una tra le più antiche esperienze di destorificazione religiosa: quella del tempo storico destorificato in anno liturgico, sulla base del ciclo astronomico (tempo biologico vs tempo storico vs tempo metastorico). L’anno liturgico si spiega «come un sistema protettivo per mediare la storicità del divenire umano difendendolo dal rischio, sempre presente come tentazione, di annientarlo nella grande pigrizia della ripetizione dell’identico e della pura ciclicità del tornare-a».677 Come già visto per la ninna-nanna, il tempo culturale, come quello naturale, appare “circolare”, dove «il simbolo mitico rituale della ripetizione di un mito delle origini segna una sorta di imitatio naturae»;678 ma pur nella circolarità questo tempo è “innocuo” e, anzi, catartico perchè si riplasma in un orizzonte culturale il ritornare- a:

Gli anni storici calcolati sulla base del ciclo solare, e articolati in mesi storici calcolati sulla base del ciclo lunare, sono destorificati nell’anno liturgico. Ogni anno liturgico ripete innanzitutto il ciclo della nascita, passione, morte e risurrezione di Cristo, e tocca il suo vertice di destorificazione nella risurrezione dell’Uomo-Dio, che toglie i peccati del mondo. La Pasqua è pertanto il vertice di destorificazione dell’anno liturgico cattolico. La settimana di Pasqua è la settimana esemplare, la

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