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FISIOLOGIA DELLA FINE DI UN MONDO (LA REGOLA COME “PASSAGGIO”)

PERSONA E CULTURA

IL TRASCENDIMENTO COME FONDAZIONE DEL MONDO DEI VALORI (PERSONA E STORIA)

4.2 FISIOLOGIA DELLA FINE DI UN MONDO (LA REGOLA COME “PASSAGGIO”)

Sappiamo, giunti fin qui, che «l’ethos inaugurale della utilizzazione rende possibile il mondo»;488 o meglio, che «solo per entro un progetto comunitario dell’utilizzabile prende rilievo un “mondo”, si articola e distende un ordine di enti intramondani col loro orizzonte complessivo».489 Pertanto, l’unico mondo possibile per l’uomo, datità a parte, «è sempre un mondo culturale, cioè è sempre esperibile per entro un certo ordine di valorizzazioni intersoggettive umane»;490 quindi in quanto tale è “mondo inesauribile”, «poiché la valorizzazione utilitaria, come ogni altra valorizzazione intersoggettiva, non si esaurisce mai (se si esaurisse segnerebbe la morte dell’ethos del trascendimento)».491 Dire poi “mondo culturale” equivale a dire, sostiene de Martino, che un mondo è un mondo storico, cioè storico-culturale, in quanto «la storicità della condizione umana è il distacco dalla naturalità del vivere mediante l’operare aperto alla permanenza dei valori mondani»492. Pertanto, specifica ancora lo studioso, «il mondano umano è l’ordine dell’operare significativo che produce valori e che oltrepassa le situazioni, e la negatività che le vulnera, mediante la permanenza storicamente condizionata dei valori».493 Mondo e storia, così, sono equivalenti, benché per amore di precisione sarebbe più corretto definire il mondo come l’insieme delle cose trascese e la storia come esistenza diveniente rispetto alle cose trascese. Detto ciò, generalmente «si parla di una pluralità di mondi storico-culturali (il mondo greco), storico- individuali (il mondo del fanciullo), psicopatici (il mondo schizofrenico), animali (lo Umwelt dei pesci). Ma quando il discorso concerne il mondo umano, e quando lo concerne in una prospettiva non naturalistica ma filosofica, allora è innanzitutto il concetto di mondanità umana adulta che occorre aver fermo per poter distinguere questo o quel mondo storico-culturale e –in ciascuno di questi mondi- la mondanità in sviluppo del fanciullo e la mondanità in disgregazione del malato psichico»494. Come sappiamo, il “primato” spetta all’umanità matura e tale primato domina il concetto di mondo, poiché vi è un mondo se vi è un’umanità adulta in grado di fondarlo, custodirlo e conservarlo mediante il compiersi inesauribile dei distacchi.

La mondanità umana adulta è un telos che opera ovunque sia l’uomo, permettendo la stessa comprensione fra mondi storici diversissimi e idealmente lontani quanto si voglia, e rendendo

487 E. de Martino, Scritti filosofici…,cit., p. 42. 488 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 437. 489 Ibidem. Corsivo mio.

490 Ivi, p. 636. 491 Ivi, p. 577. 492 Ivi, pp. 660-661. 493 Ivi, p. 659. 494 Ivi, p. 651.

112 altresì possibili sia le influenze culturali sia la formazione di umanità sempre più irrelate o sospinte l’una contro l’altra nel furore distruttivo della guerra495.

Come la persona si auto-forma nel continuo “muori e diventa” della situazione trascesa nel valore, così il mondo quale manifestazione di questo personale morire e rinascere continuo (da intendersi husserlianamente come processo di “riduzione” del Weltvernichtung). «Il negare il mondo per affermarlo, il sospenderlo per riprenderlo, il distruggerlo per ricostruirlo, è il ritmo fungente del doverci essere individuale come compito di presentificazione. Questo ritmo deve esplicarsi in tutti gli uomini, quale che sia la coscienza teorica che essi ne hanno».496 De Martino, in tal senso, individua un fisiologico perdere il mondo e una fisiologica conquista di un altro mondo che è il normale “movimento” valorizzante della cultura. Per cui «la fine di “un” mondo non ha nulla di patologico: è anzi una esperienza salutare, connessa alla storicità della condizione umana».497 La persona non potrebbe maturare, compiersi senza questa esperienza. Da questo punto di vista (vedremo più avanti il senso “patologico” e non più “fisiologico” di questa perdita mondana), sostiene de Martino che «la fine di un mondo nelle sue varie accezioni –per es. del mondo dell’adolescenza, del mondo dei nostri cari, di un’epoca o di una civiltà- non produce necessariamente angoscia, almeno nella misura in cui possiamo oltrepassare le situazioni relative, dischiudendoci al mondo della maturità, a quello delle care memorie, a quello della nuova epoca o civiltà».498 Ed infatti la fine di “un” mondo è necessaria condizione del crescere umano:

Finisce il mondo della infanzia e comincia quello della adolescenza; finisce il mondo della adolescenza e comincia quello della maturità; finisce il mondo della maturità e comincia quello della vecchiaia. Con le nozze, nella nostra società, i giovani sposi abbandonano di regola il mondo delle loro famiglie e cominciano una nuova vita che comporta la nascita di un nuovo mondo: e un sentimento misto di tenerezza e di melanconia vela la felicità durante la celebrazione del nuovo vincolo e soprattutto al momento del distacco definitivo. Quando le persone che abbiamo amato e che erano parte viva e vitale del nostro mondo ci sono rapite dalla morte o si allontanano per un evento di separazione che equivale praticamente alla morte, par che non solo dileguino insieme al loro mondo, ma anche con il nostro, ed immane è talora la fatica di superare la crisi del cordoglio, e di ricostruire lentamente un nuovo mondo senza di loro. Finisce un’epoca di libertà e ne comincia una di servitù: e per quanto si possa non tollerare la perdita del mondo in cui eravamo liberi e si cerchi la morte, la crisi è superata purchè resti un piccolo margine di ripresa, quel piccolo e impercettibile margine che poterono conservare per esempio quanti riuscirono a sopravvivere dai campi di sterminio tedeschi.499

Pertanto nella fisiologia della mondanità quotidiana, questa perdita di “un mondo” non è una fatale esperienza apocalittica, ma «una espressione che si riferisce alla difficoltà con la quale ha luogo il distacco decisivo da una certa cosmicizzazione della vita e l’accettazione di una nuova

495 Ibidem.

496 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 142. 497 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 630. 498 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 104 499 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 630.

113 cosmicizzazione, con le sue responsabilità e con i suoi orizzonti rinnovati»500; difficoltà certamente mai completamente immune dal rischio di caduta valoriale, e quindi di conversione alla temibile perdita “del” mondo501 (che più avanti affrontiamo), ma in linea di massima affrontabile nel valore e segnata da una sempre più importante maturazione personale. Si pensi all’adolescente che “muore” come tale per impegnarsi nelle responsabilità del mondo adulto; e certamente l’adolescenza è, in tutte le culture, come tale un’età critica e questa criticità non è altro che difficoltà impegnata a dare la morte a qualcosa che “deve” morire affinchè ce ne sia un’altra migliore. Ogni morte, come tale, è esperienza critica. Ma questa fisiologica “morte” del giovane è necessaria e fruttifica per la “nascita” dell’uomo adulto. Si era detto che piante e animali non hanno mondo poiché mancano di trascendimento della natura verso un “esserci intersoggettivamente aperto”. Per il medesimo motivo «il mondo degli animali ‘non può’ finire, e la sua ‘fine’ è la catastrofe della specie»502, mentre «l’uomo invece ‘passa’ da un mondo all’altro»,503 in una maturazione diveniente e mai esauribile.

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