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LE CARATTERISTICHE DELL’ETHOS.

PERSONA E NATURA

L’ETHOS DEL TRASCENDIMENTO CONDIZIONE TRASCENDENTALE DELLA NATURA UMANA

2.2 LE CARATTERISTICHE DELL’ETHOS.

L’ethos è forza etica nel senso di principio “etico” e non “logico”, in quanto al medesimo tempo principio trascendentale e attività, per cui «la possibilità che postula deve necessariamente tradursi in atto, almeno nella misura e fin quando quest’ethos vince la pigrizia

205 E. de Martino, Le fine del mondo, cit., p. 654.

206 S.F. Berardini, op. cit. p. 285. La stessa considerazione di un avvicinamento di de Martino al piano ontologico è

espressa da Clara Gallini nella introduzione degli scritti di de Martino raggruppati in “Ethos del trascendimento” ne La

fine del mondo. La discepola di de Martino spiega che «gli appunti relativi a questa tematica erano raccolti in ben due

cartelle, indice dell’importanza che l’A. assegnava alla dimensione filosofico-ontologica del proprio lavoro», C. Gallini, in E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 629.

207 E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 3. 208 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 675. 209 E de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 167. 210 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 674. 211 E de Martino, Scritti filosofici, cit., pp. 139-140.

55 dell’annientamento».212 Non si confonda, dunque, l’ethos con la “consapevolezza morale” dell’agire (che, vedremo, è teleologicamente il suo “esito”), «poiché è il fondamento di tutte le consapevolezze, cioè la volontà di distinguersi in una particolare consapevolezza operativa, e di oltrepassarla ciascuna evitando che soffochino le altre»213. Così, sostiene de Martino, «in principio non è né il logos né la materia, ma l’ethos che fa passare la vita bisognosa e angosciata nei distinti valori del logos, a cominciare dalla progettazione comunitaria dell’utilizzabile».214 In quanto forza etica, l’ethos è “dovere di valore”, «dove però il “deve” non esprime una necessità morale ma vitale, cioè inerente alla vitalità umana»,215 intrinseca dunque alla umana natura che si realizza sempre e soltanto per entro il trascendimento, che dunque è “doveroso” ai fini della sua realizzazione: l’uomo è libero nel suo dover essere o non dover essere valore (in tal senso l’umanità, per de Martino, «è il regno della libertà»),216 ciò però non toglie che la sua natura si compia nel dover essere valore, e tale dovere non può prescindere dalla vita da cui si innalza (ecco perché il “deve” implica una necessità vitale). L’ethos, però, non è necessità morale, per cui l’uomo deve giungere (nella consapevolezza) a volere liberamente questo dovere, a voler essere essenzialmente dovere di oltrepassare sempre la natura nella norma culturale; l’ethos, così, si traduce in «volontà etica di mondo, di significato, di valorizzazione»;217 quindi in «volontà primordiale di cultura e di storia».218 Si osservi bene che rispetto all’ethos, in quanto esso dovere etico e non necessità morale, resta “possibile” abdicare, mostrare inerzia o infedeltà rispetto ad esso. L’uomo può “peccare” di fronte all’ethos quando non lo realizza nel dovere etico, e avverte tale inadempienza come “peccato”, una sorta di “esperienza della colpa” per il mancato distacco dalla natura da cui doverosamente è chiamato a trarsi219. In qualche modo, se il dovere può essere o non essere adempiuto nella fedeltà, l’ethos in ultima analisi coincide con la volontà umana: è volontà di dovere. E nella misura in cui è volontà di dover essere, l’ethos è essenzialmente libertà, dove – precisa de Martino - per l’essere umano, in ultimo, «l’opzione fondamentale è essere libero o non

212 E de Martino, Scritti filosofici…, op. cit., p. 27. 213 Ivi, pp. 103-4.

214 Ivi, p. 123

215 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 654. 216 Ibidem.

217 E de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 166. 218 Ibidem.

219 Così, si presenta in de Martino «un motivo che fu originariamente elaborato da Kierkegaard, il quale, ne La malattia

per la morte, meditando sul problema del peccato, rilevò che il principio condizionante dell’esistenza non è il pensiero,

bensì la volontà – per cui non basta sapere qual è il bene, bisogna anche volerlo. In questo senso, l’essere dell’uomo, che per Kierkegaard è processo e divenire, cioè un farsi, non coincide col pensiero, ma con il volere; ovvero con il

credere, nella misura in cui, l’uomo, nel costituirsi come questo essere, come questo Sé, presta o non presta fede e

fedeltà al bene, al suo dover-essere – essere che è un compito, non un dato» S. F. Berardini, cit., p. 257.

Analogamente, in de Martino “al principio era l’ethos”, dunque la volontà, da cui conseguono e si realizzano «valori di intuizione, di comprensione e di azione», ivi.

56 libero»220, opzione negata alla bestia, condannata alla prigionia del vitale; e negata all’uomo stesso –vedremo meglio- dalla follia. In tal senso, la libertà personale, dirà de Martino, è già radicata nel trascendere il limite naturale in “regola” culturale, cioè nel porre dei limiti consapevoli alla propria valorizzazione, tanto che «il problema della libertà è tale in quanto problema dei suoi limiti. […] La storia della libertà, se ha un senso, è storia della libertà che si limita».221 Ed è la distinzione e la differenza propria della cultura, per de Martino, la più evidente testimonianza della libertà umana alla decisione.222. Ora, se normalmente questa volontà etico-trascendentale resta sopita, ovvero l’ethos informa l’uomo pure se non se ne accorge (de Martino in tal senso parla di un “ethos vergognoso”),223 vedremo a breve nel principio teleologico, come il fine dell’ethos sia quello di condurre l’uomo dalla coscienza morale all’autocoscienza propriamente etica, cioè alla consapevolezza dell’ethos, e della coappartenenza di vita e valore nella persona.

Questa energia morale oltrepassante le situazioni, tale umano “atto di aprirsi” è anche dovere inesauribile, nel senso che «non si esaurisce affatto nei mores storico-culturali, nei costumi, nelle singole “morali”, in questa o quella etica, ma mores, costumi, singole morali, singole etiche procedono dal modo e dai limiti dentro i quali l’ethos si fa consapevole di sé e si esercita nelle

220 E. de Martino, Scritti Filosofici, cit., p. 9.Ora, se il fatto che de Martino declini questa doverosità “libera” sul piano

del mondo cultura è di ispirazione gramsciana e crociana, lo specifico della libertà dell’ethos è, di nuovo, un motivo di distacco con il marxismo, stavolta specialmente gramsciano, dove al sollen (dovere nel senso di “è opportuno”, “consigliato”, “cosa buona”) dell’ethos in de Martino, libero e non necessitato), corrisponde il müssen di Gramsci (dovere nel senso di “necessario”, “obbligatorio”), sottoposto a necessità della natura in sé. Senza entrare, per ovvi motivi, nella specificità di tale discorso, qui basti ragionare sul fatto che l’importante distanza tra de Martino e il marxismo concerne la libertà dell’ethos trascendentale che Marx non riconosce nell’umana natura: «Vi è dunque un principio trascendentale che rende intelligibile la utilizzazione e le altre valorizzazioni, e questo principio è l’ethos trascendentale del trascendimento della vita nel valore: attività dunque, ma ethos, dover-essere-nel-mondo per il valore, per la valorizzante attività che fa mondo il mondo, e lo fonda e lo sostiene. […] La stessa dottrina marxiana non sarebbe stata possibile senza l’ethos che l’attraversa e la sostiene», de Martino, La fine del mondo, cit., p. 434. In proposito, scrive Berardini: «Al materialismo storico […] spetta il merito di aver riconosciuto l’importanza dell’economico quale momento ‘inaugurale’ della storia, e di aver mostrato altresì il carattere integralmente umano di questa. E tuttavia, Marx non ha saputo individuare quel principio che è alla base di ogni trascendimento: e del vitale nell’economico, e dell’economico nelle altre forme culturali. In tal senso, De Martino disse che, pur essendo in esso operante, il marxismo esprime un ethos che è ‘vergognoso di sé’, che ancora si cela, che si nasconde dietro una ‘maschera’. E questa mancata individuazione è motivo di alcuni limiti interni del marxismo: ad esempio, la riduzione della storia alla sola forma economica, alla cosiddetta ‘struttura’ (giacché esso non riconosce la doverosità degli ulteriori trascendimenti, che, a suo dire, formerebbero invece la ‘sovrastruttura’, cioè un motivo di mistificazione del reale); ma anche la critica alla religione ». Quindi , op. cit., p. 227.

221 «La libertà dell’uomo infatti non entra mai in causa, poiché è l’agente stesso del “porre in causa”; agente il cui

potere si esercita solo nel senso di porre limiti all’esser liberi. Con questo immediato riconoscimento il molto breve discorso sulla libertà come tale si esaurisce: e si pone, invece, in tutta la sua complessità, il problema delle libertà storicamente condizionate, che l’analisi di volta in volta definisce per entro determinate società e determinate epoche, o che la lotta politica afferma come progetto di una nuova limitazione», E. de Martino, Storia e metastoria, cit., p. 162.

222 Precisa Berardini: «Ogni decisione, ogni atto esistenziale, lungi dal promuovere l’incompiutezza o l’indifferenza,

afferma la differenza, la differenza desiderata, cioè una scelta tra diverse possibilità, e dunque una determinazione che, tra tante possibili, sola deve essere – una determinazione che, nella sua finitezza, nel suo non essere indifferente, è ‘compiuta’. Ma appunto, proprio perché ogni determinazione rinvia a uno sfondo», Berardini, op. cit., p. 234.

57 morali storiche»224. Come esemplifica de Martino, la Divina Commedia “realizza senza esaurirla” la poetabilità dell’uomo225. L’ethos è dunque inesauribile sia relativamente all’assoluto valore del valorizzare, restando la natura la condizione inesauribile del trascendimento, tanto che «nessun esserci potrà mai realizzare tutto il possibile dover essere dell’essere, tutto il valorizzabile di una particolare valorizzazione (per esempio, tutta la poesia e tutta la scienza, eccetera)»226; e sia perché ogni singola valorizzazione è preceduta e succeduta dalla vecchia e dalla nuova, in quell’incessante “muori e diventa” proprio del distacco che rende l’uomo un “bisogno che sempre abbisogna”, «nel senso che né la vita né il valore possono essere attinti una volta per sempre: il “dover essere” originario di questo ethos è tutto nell’oltre del suo movimento, nel passare dalla vita alla valorizzazione intersoggettiva della vita, e nel riproporre sempre di nuovo questo passaggio»227. Ecco che l’esistente, in quanto tale, deve morire

…per la stessa ragione etica che sempre di nuovo è chiamato ad oltrepassare la morte: ma poiché questo oltrepassare produce opere, e le opere comunicano nel piccolo come nel grande, ma pur sempre in qualche misura, con i valori, è attraverso questo disindividuato regno delle opere che il positivo di ciascuno continua a vivere e ad opera nell’universale circuito della storia e della cultura, anche se non porta la memoria del “nome” e anche se le pie visite ad una tomba si diradano col tempo.228

De Martino sostiene, ancora, che questo doveroso andar oltre secondo valori, «non può essere mai oltrepassato perché ogni oltrepassare secondo valori categoriali si compie in esso e per esso»229. Ciò equivale a sostenere che «l’uomo è sempre dentro l’esigenza del trascendere, e nei modi distinti di questo trascendere, e solo per entro l’oltrepassare valorizzante l’esistenza umana si costituisce e si trova come presenza al mondo, esperisce situazioni e compiti, fonda l’ordine culturale, ne partecipa e lo modifica»230. Così, questo “oltre”, «questa emergenza, questo margine, questo orizzonte»231 nel fondare tutti i trascendimenti non comporta nessun “legittimo oltre” «nel senso della “pura materia” o del “puro spirito”, in quanto ethos, volontà originaria, di cultura e di storia»232 che, in ultima analisi, è trascendimento intrascendibile, cioè condizione ultima e inderivabile della pensabilità e della operabilità dell’esistere, quindi vissuto onnicomprendente non ulteriormente derivabile. L’uomo non sarà mai pura natura o pura cultura.

224 Ivi, p. 671.

225 Cfr p. 18 in E. de Martino, Scritti filosofici…, cit. 226 Ivi, p. 153.

227 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., pp. 676-677. 228 E. de Martino, Scritti Filosofici…, cit., p. 153.

229 Ivi. Torna, in questa intrascendibilità, l’influenza kantiana, dietro scorta di Paci, per il quale Kant “è il filosofo che

afferma l’impossibilità per l’essere di diventare oggetto del pensiero” (Il nulla e il problema dell’uomo). «Ma Kant è anche il filosofo per cui la “cosa in sé” è irraggiungibile perché deve esserlo, perché l’essere come dover essere fonda questa irraggiungibilità. […] La “cosa in sé” come limite critico significa la non trascendibilità del “tu devi” del trascendimento», de Martino, ivi, p. 121.

230 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 670. 231 Ivi, pp. 674-675.

58 Ogni analisi si svolge per entro questo vissuto, come chiarificazione dei momenti dell’andar oltre (cioè dei pericoli di non poter andar oltre e della lotta per andar oltre). Ciò significa che, una volta raggiunta la prospettiva di questo ethos primordiale, non è più possibile legittimare il problema della “situazione in sé” a cui si aggiungerebbe poi dall’esterno la valorizzazione, o il problema dei “valori in sé” che dall’esterno si innesterebbero nella situazione. Tutto ciò che l’analisi può ricavare sta sempre “dentro” quest’ethos, come momento di una totalità che non può essere trascesa perché è la regola di tutti i trascendimenti233.

In virtù di questa intrascendibilità, dunque, per l’uomo resta illegittimo il problema di “fissare” un valore in sé (e dunque un sistema morale o una proposta etica) che voglia farsi indipendente dalla natura trascesa: il valore può e deve ricavarsi “dentro” il trascendimento della vita. Ad esempio, la bellezza in sé non si può raggiungere ed abbracciare nella totalità se non “ricadendo nel nulla”; ma solo la si può cogliere a partire dalla concreta situazione valorizzata, ad esempio da un’opera d’arte o da un corpo aggraziato. È sempre in virtù di tale “intrascendibilità” dell’ethos che l’uomo non può cogliere la “natura in sé” (quindi la “situazione in sé”) ma solo quella “attraversata” dalla valorizzazione umana; ed ecco perché il sole o il grano, tanto per tornare agli esempi già evocati, sono “ciò che se ne può fare” nel valore e diventano “nulla” al di fuori di questa doverosa possibilità. In de Martino, insomma, vita e valore intersoggettivo sono una per l’altro e non è dato cogliere i due aspetti se non, intrecciati, nell’ethos. E così, «sia che questa energia apra faticosamente il varco al suo slancio, sia che ricada su se stessa, questo suo dispiegarsi e questo rischio di caduta hanno luogo sempre dentro di essa, fanno parte della sua interna dialettica, senza che mai possa saltare dentro se stessa e pervenire alla “natura” in sé anteriore ad ogni valorizzazione umana –o al “puro spirito” secondo un trascendimento ultimo e definitivo»234. In de Martino vita e valore intersoggettivo sono una per l’altro, si co-appartengono intimamente, e non è dato cogliere i due aspetti se non, intrecciati, nell’ethos. Ora, questa “non trascendibile energia del trascendimento valorizzante intersoggettivo”, in quanto slancio etico e non necessario può essere non realizzato per inerzia, perfino rinnegato. In quanto dover valorizzare, infatti, l’ethos è soggetto alla caduta del dovere, all’impotenza del “doveroso oltre”.

Vita concretamente oltrepassantesi, slancio verso la continua riplasmazione intersoggettiva del mondo, socialità di comportamenti secondo l’ideale regolativo della valorizzazione. Ma d’altra parte, in quanto trascendimento della vita, e quindi dell’abbisognare, questo ethos racchiude sempre un momento di finitezza, ed in quanto dovere del trascendere è esposto al rischio della caduta, della stanchezza e della inerzia235.

Finora si è detto che «nell’esistenza non è dato ritrovare che passaggio ai valori e simboli di questo passaggio. Ma proprio perché questo passaggio è un “dovere”, un “lavoro”, uno “sforzo”, vi si ritrova altresì il rischio della pigrizia, della non-esistenza, del nulla»,236 laddove per de Martino

233 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 103. 234 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 670. 235 Ivi, p. 676.

59 «il nulla è la possibilità di non far passare la vita nel valore».237 Dunque il “nulla” in senso assoluto per l’uomo è la pura natura; certo con la morte biologica dell’uomo il nulla è, nel significato più radicale, «l’annientarsi dell’ethos del trascendimento»238 ma segnatamente all’esistenza storica de Martino intende far perdere all’espressione “caduta dell’ethos” quella “ostensione retorica che la svigorisce” –come egli scrive- e lo fa mediante l’analisi dei vissuti psicopatologici (cui è dedicato il capitolo VII di questo lavoro), la quale «ci apprende che il nulla è semplicemente il rovescio dell’ethos del trascendimento; ed è questo un apprendimento che immensamente giova alla consapevolezza che l’ethos del trascendimento deve acquistare di sé e di ciò che lo minaccia alla radice»239. Il rovescio dell’ethos è dunque l’impotenza ad intenzionare: la catastrofe vera e propria concerne, dunque, la presenza, non l’ethos. Nonostante, quindi, principio non storico ma trascendentale, questo “slancio” non è immune dal negativo,240 e lo è proprio «in quanto sforzo fondamentale contro una radicale negatività, contro la sua propria pigrizia: è la lotta contro l’insidia estrema della demondanizzazione, depresentificazione, ripetizione, reversibilità del tempo, devalorizzazione, annientamento»241. Ci si potrebbe chiedere, quindi: il “peccato” contro lo slancio etico conduce allora l’uomo alla natura in sé? Oppure, tale perdita consente “finalmente” la realizzazione completa del valore? Viene forse spontaneo pensare che l’esito della caduta etica conduca l’uomo allo stato di pre-trascendimento, ovvero –come utopisticamente professano la psicoanalisi e le teorie roussoniane- alla vita “armoniosamente” naturale e istintivo-animale, o alla realizzazione completa, senza più “ distacco” del valore finalmente raggiunto in pienezza; «ma la sua caduta», sostiene de Martino, «non conduce né all’immediatezza della vita, né all’assolutezza del valore; conduce piuttosto al nulla, alla morte, alla follia»242, dove la “natura in sé” per l’uomo è questo nulla, ma che mai può esperire se non come “rischio”. Di fronte al rischio dell’impotenza dell’ethos giunge nel cuore umano l’angoscia,243 quale sentimento che per eccellenza distanzia

237 Ivi, p. 72. Corsivo mio. 238 Ivi, p. 168.

239 Ibidem.

240 «L’ethos del trascendimento costituisce il principio trascendentale dell’essere (o meglio, del dover essere), ma ciò

non sembra sufficiente a preservarlo definitivamente dal negativo, rimanendo esso esposto in ogni momento al rischio supremo del proprio annichilimento. Se si estende l’analisi della presenza da questo nucleo etico fondamentale alla sua totalità, ci si trova davanti ad una negatività e ad un tasso di rischio che aumentano esponenzialmente, nella misura in cui dalla dimensione ontologica si passa a quella esistenziale vera e propria, con l’infinità di pericoli e di ostacoli che essa concretamente comporta», Clara Zanardi, cit., p. 62.

241 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 3.

242 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., pp. 676-677.

243 L’angoscia, qui, non è da intendersi in senso heideggeriano; infatti, tiene a precisare de Martino nei suoi appunti

filosofici, «Heidegger non assume nella costituzione dell’esserci il non-esserci (e quindi il rischio di non poter essere in nessun mondo culturale possibile, il rischio di non poter essere-con), e l’essere dell’esserci come valorizzazione intersoggettiva (e quindi il non esserci come caduta della energia valorizzante)», de Martino, Scritti filosofici, op. cit., p. 98. Nella angoscia heideggeriana, spiega il filosofo napoletano, ci si angoscia allora della mondanità come tale. In de

60 l’uomo dalla bestia, poiché la bestia non ha volontà, non ha il senso del dovere e del mancato dovere, quindi non conosce l’angoscia. Ecco che l’angoscia, segnalando «l’attentato alle radici stesse della presenza, […] il precipitare della vita culturale nella vitalità senza orizzonte formale»,244 segnala kierkegaardianamente il peccato contro l’ethos, divenendo in de Martino «l’esperienza della colpa, perché la caduta dell’energia di oggettivazione è, come si è detto, la colpa per eccellenza»245. L’angoscia sta nell’uomo a voler segnalare che a valore precategoriale rischio

estremo: la doverosa valorizzazione è chiamata sempre a combattere «contro il rischio di quella

caduta dell’ethos del trascendimento che, per gli individui come per le civiltà, per le società come per i singoli gruppi sociali, si profila come fine del mondo, cioè come loro catastrofe culturale».246 In proposito, de Martino (vedremo meglio molto più avanti) parla di un ethos che passa in tre sensi: in senso naturale, con la morte biologica dell’essere umano; in quello categoriale, dando luogo al negativo di una specifica forma di valorizzazione (nel senso di tendenza a ciò che de Martino chiama “feticizzazioni ed esorbitanze”, per cui l’assolutizzazione di un valore categoriale soffoca la possibilità di tutti gli altri: tecnicismo, estetismo, scientismo, moralismo, legalismo, politicismo, ecc); infine, in quello esistenziale, che è, nel suo grado estremo, perdita della regola culturale verso la regressione umana alla ripetizione animale e fino alla scarica meccanica di energia psichica, stato ben rappresentato dalla patologia psichiatrica. «E’ questo il chiudersi del ventaglio della vita culturale, il non poterci essere in nessun mondo culturale possibile»247. Questo rischio, confida de Martino, si configura così come vera e propria malattia mortale, malattia della non- presentificazione e della non-intenzionalità, quindi della retrocessione per la presenza dell’uomo

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