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CRISI DELL’ETHOS IN SENSO “RELATIVO” (SCACCO DEL TRASCENDIMENTO)

PERSONA E CRIS

LA MALATTIA DEL “PERDERE IL MONDO” COME APOCALISSE PSICOPATOLOGICA (CRISI DEL TRASCENDIMENTO)

7.1 CRISI DELL’ETHOS IN SENSO “RELATIVO” (SCACCO DEL TRASCENDIMENTO)

Abbiamo visto nella sezione precedente che, sia nei modi della sola regola storica sia in quelli del rito metastorico, «l’esistenza è decisione»868 e la decisione è la cultura, la storia. Così, la persona per natura è portata a gettarsi fuori dalla situazione, decidendo secondo valori. L’ethos si cerca decidendo situazione dopo situazione. Ora, questo ethos che “si pone in decisione” (in ricerca)869 è teleologicamente destinato a “trovarsi” (nella autocoscienza etica) ma siccome il trovarsi è sotteso alla libertà, l’ethos può anche non trovarsi quando il “porsi” viene meno. Il trovarsi come consapevolezza al dovere etico per il valore intersoggettivo è il massimo compimento della persona mentre il non trovarsi è il suo male estremo, motivo per cui queste due critiche esperienze personali rientrano tutte –negativamente o positivamente- nella dimensione etica della persona, direttamente in rapporto con quella morale-culturale, negata o superata, compiuta nella consapevolezza etica. La dimensione della crisi, dunque, va intesa relativamente alla persona umana in senso ampio e profondo: crisi come infedeltà all’ethos trascendentale e come patologia del suo cercarsi, ma anche crisi nel senso etimologico di “scelta”, “distinzione” laddove la scelta consapevole corrisponde al ritrovarsi dell’ethos. La crisi, dunque, è la dimensione etica dell’uomo; l’eticamente negativo della follia e la salvezza della persona come autocoscienza. Nella dimensione della crisi l’uomo può sperimentare il suo male ma anche raggiungere il massimo compimento del suo bene.

In particolare, la dimensione della crisi va intesa, nell’ottica di de Martino, secondo tre diversi orizzonti di senso. Nel caso dell’eticamente negativo esso è vero e proprio «crollo “del” mondo come catastrofe dell’essere e come avvento del nulla» (psicopatologia); 870 nel caso positivo «può essere il crollo di “questo” mondo per dar luogo a un mondo “peggiore” o “migliore”»,871 comunque colto nella consapevolezza; resta, poi, una modalità di crisi storicamente determinata e che si pone a metà tra il negativo non culturale e la raggiunta consapevolezza etica, «è “crollo futuro”, “crollo attuale”, “crollo già avvenuto”»,872 dove in tal caso si tratta di un crollo colto mediante una denuncia artistica o intellettuale scarsamente reintegratrice ma comunque culturale;

868 E. de Martino, Scritti filosofici…, op. cit., p. 99.

869 Heidegger scrive che l’esserci è l’ente «che noi stessi siamo e che ha, fra le altre possibilità di essere, quella del

cercare». De Martino riporta questa frase dal Sein und Zeit citandola alla p. 99, ivi.

870 Ivi, p. 21. 871 Ibidem. 872 Ibidem.

188 dove cioè la crisi si fa pienamente consapevole (per entro l’opera intellettuale o artistica) ma non si individua il suo riscatto, l’opera resta scarsamente reintegratrice (e questo perché -vedremo- è crollato l’orizzonte “patrio” entro cui l’iniziativa umana può emergere per il valore). De Martino, per riferirsi a queste tre possibilità proprie della dimensione etica della persona –mai individuate dallo studioso, ricordiamolo, nell’ordine sistematico che qui si rinviene- ricorre spesso al termine “apocalisse”. Apocalisse significa: svelamento del futuro, scrive de Martino. Ora, l’apocalisse come fine del mondano può avere tre significati diversi a seconda di come si intende questo futuro, questo esito della crisi mondana. Se nella apocalisse cristiana (di Giovanni), originante dalla crisi del dissidio tra storia e metastoria, la fine del mondo umano significa escatologicamente «la istituzione della nuova Gerusalemme, per opera di Dio»,873 nella crisi della patria l’apocalissi senza escaton è «guerra, terrore atomico, decolonizzazione, statolatria, burocrazia, pianificazione, cultura di massa, pubblicità».874 Ancora più drammaticamente, nella crisi psichiatrica l’apocalissi è la fine del mondo, nemmeno più massificato, burocratizzato, eccetera, ma proprio definitivamente naturalizzato. La prima apocalissi è detta “culturale con escaton”, la seconda “culturale senza

escaton”, la terza “psicopatologica”; così l’apocalisse “di mezzo”, che rispetto alle altre due è

connotata storicamente in quanto esprime ancora l’ethos che si cerca senza trovarsi (dove è appunto il “cercarsi” a generare la varietà della cultura), ha qualcosa in comune sia con la prima crisi (la cultura, la consapevolezza della crisi dei valori) sia con la terza (la mancanza di escaton).

Cominciamo a trattare il “non trovarsi”. «Quando viene meno questo sforzo, che costantemente fonda e mantiene e rinnova l’esserci, la situazione si viene perdendo in quanto cominciamo a coincidere con essa, a ripeterla, a restare senza margine di operabilità culturale nei suoi confronti, a isolarci nei suoi termini liquidando l’oltre progettante che “ci” situa in essa».875 Se dunque il porsi in situazione viene meno, il trovarsi non avviene ma si ha il “non trovarsi”, che da un meno grave e ancora culturale “perdersi” patologico nel mondo può giungere fino al totale “perdere” patologicamente il mondo e la cultura. Così, spiega de Martino, «la fine dell’ordine mondano esistente può essere considerata in due sensi distinti: e cioè come tema culturale

storicamente determinato e come rischio antropologico permanente»,876 quindi come patologizzarsi del “perdersi nel mondo” e come patologizzarsi del “perdere il mondo” che abbiamo già trattato alla precedente sezione nella loro fisiologia. Il venir meno del “porsi” è ora oggetto dei capitoli 7 e 8, che entrambi mostrano come vi siano tanti gradi del “non trovarsi”, dove il più grave è «il “non

873 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 494. 874 Ibidem.

875E. de Martino, Scritti filosofici, cit., pp. 84-85. 876 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 219.

189 trovarsi più affatto”»,877 cioè il Weltuntergangserlebnis; e il meno grave «il sentirsi fuori posto o il “non sapere dove ci si trova”»,878 cioè il “perdersi nel mondo”. Rimandiamo al capitolo 7 il problema della fine come “perdersi”, cioè come tema culturale storicamente determinato e qui affrontiamo il ben più radicale senso patologico del finire, ovvero l’invertirsi dell’intenzionalità, «il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile, il perdere la possibilità di farsi presente operativamente nel mondo, il restringersi –sino ad annientarsi- di qualsiasi orizzonte di operabilità mondana, la catastrofe di qualsiasi progettazione comunitaria secondo valori».879

Affrontiamo anzitutto il dramma universale umano del mancato trascendimento, dal momento che, scriveva de Martino tra i suoi appunto, «occorre in via preliminare valutare la fine dell’ordine mondano esistente nel suo significato universale di rischio antropologico permanente, cioè come rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile».880 Se dunque nel capitolo precedente abbiamo analizzato, a partire dall’ethos del trascendimento, come la cultura umana «in generale è l’esorcismo solenne contro questo rischio radicale, quale che sia –per così dire- la tecnica esorcistica adottata»,881, in questo capitolo affrontiamo, all’opposto, dell’esorcismo “mancato”, del trascendimento “vuoto”, cioè di quel distacco che non avviene, generando ciò che de Martino chiama “ vissuto di fine del mondo”, dove universalmente –ovvero indipendentemente dal tipo di civiltà e di fase storica in cui si manifesta- l’ethos del trascendimento, che è principio trascendentale e non storico, «in quanto dovere di far passare la vita nel valore comporta il rischio radicale della caduta di questo ethos e del crollo della valorizzazione».882 Ora, anche la crisi dell’intenzionamento prevede dei “gradi”; e può verificarsi essenzialmente in due sensi: in senso “assoluto” e in senso “relativo”. Ancor più precisamente, l’ethos può passare in tre sensi, poiché il senso assoluto è “simbolicamente” quello della follia (in quanto de Martino tratta di “vissuto” della fine del mondo) e “fattualmente” coincide con la morte biologica dell’individuo, dove questa resta in assoluto «il momento strettamente privato dell’individuo stesso, il più clamoroso segno della egoità: è l’incomunicabile per eccellenza, tanto che la stessa parola “morte” è l’unico suono necessario che tuttavia non ha messaggio da trasmettere, l’unico dire che raccoglie tutta la possibile

877 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 85. 878 Ibidem.

879 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 219.

880 Ivi, pp. 14-15. Scrive Berardini in proposito: «Proprio perché ogni determinazione rinvia a uno sfondo

indeterminato da cui proviene e in cui rischia di precipitare, tale movimento non può mai esaurirsi. Ogni atto esistenziale autentico ha una sua pienezza, in quanto risponde al dover essere; ma non è mai l’ultimo atto, ovvero un atto definitivo, giacché il suo porsi significa già l’affermazione dell’indeterminato. L’essere, pertanto, si afferma in questo atto problematico che esprime una compiutezza e che tuttavia apre a una ulteriore indeterminazione. In tal senso, come dirà il ‘tardo’ De Martino, questo è un «rischio antropologico permanente», Berardini, cit., p. 234.

881 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 219. 882 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 12.

190 insignificanza del dicibile umano».883 Ma dal momento che, spiega de Martino, «l’individuo, che è uomo, si fonda e si mantiene come tale per questo emergere valorizzante della presenza, per questo dischiudersi del privato al pubblico, per questo mondo di altri in cui si ascolta e si risponde, in un discorso che conosce tregua appena nel sonno riparatore senza sogni (poiché anche nel notturno sognare il discorso continua, sebbene in una forma cifrata per la coscienza desta)»,884 essenziale resta allora la prima distinzione, in quanto, chiarisce sempre lo studioso, «la dispersione in una singola valorizzazione va tenuta distinta dal perdere la stessa condizione di tutte le valorizzazioni, l’ethos del trascendimento. Il rischio di perdere la condizione del valorizzare categoriale, cioè l’ethos del trascendimento, investe tutte le valorizzazioni in blocco, anche quella inaugurale della valorizzazione sociale, cioè dell’esserci insieme in un mondo utilizzabile».885 Per cui, fermo restando che la morte biologica resta la fine dell’ethos per eccellenza (ma che de Martino non ha affrontato mai come “morte in sé” quanto piuttosto come dinamica esistenziale del “muori e diventa” o esperienza storico-culturale di morte altrui, quale appunto “crisi del cordoglio”), qui poco interessa ai fini filosofici in quanto essenzialmente «questo rapporto in der-Welt-sein-sollen =

in der-Welt-nich-können si manifesta nel modo più radicale nel rapporto sano-malato, e in ciascun

valore della presentificazione, come non essere di quale valore (bello-brutto; vero-falso; economico-antieconomico; etc)».886

Se con la morte e la follia, dirà de Martino, il rischio della persona è il rischio del nulla, «inteso come annientamento del dover essere lungo tutto il fronte della possibile valorizzazione, e quindi come crollo della valorizzazione inaugurale del conessere in un mondo utilizzabile»,887 per quanto concerne la perdita di una singola valorizzazione –di un singolo di stacco, di una singola regola, di una singola distinzione- la persona non rischia il nulla assoluto ma “solo” lo scacco dell’operare valorizzante, col fallimento dell’opera come negativo di quel valore (brutto, falso, dannoso, cattivo, ecc.). Così, in generale si può dire che «chi non oltrepassa una situazione critica ne resta prigioniero e ne subisce la tirannia»,888 tale che universalmente per la persona umana, «il negativo o è l’annientarsi del valore della valorizzazione o lo scacco di una particolare valorizzazione:889 al primo negativo corrisponde il rischio del nulla assoluto (le malattie mentali, la morte dell’individuo), al secondo il rischio del nulla relativo (la differenza fra ciò che si pretende di

883E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 264. 884 Ibidem.

885 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 6. 886 Ivi, p. 3.

887 Ivi, p. 12.

888 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 263.

889 Qui c’è uno stacco da Abbagnano; e questo per via della sua confusione dei due momenti di inautenticità. Ed

infatti, «in Abbagnano (e in altre forme di esistenzialismo) i due scacchi sono confusi insieme, unificandosi nel tema del “peccato”», p. 6. Circa un altro distacco con Abbagnano intorno al problema dell’atto autentico o inautentico, rimandiamo alle Conclusioni (cfr note).

191 fare e ciò che effettivamente si fa, fra il valore preteso e il valore effettivo prodotto)».890. Tenendo un momento da parte il rischio dell’annientarsi assoluto che avanza come “non poterci-essere-in- nessun-mondo-culturale-possibile”, circa invece “questa” o “quella” valorizzazione l’annientarsi

Allora assume la forma relativa del non è questo ma è quello di una particolare attesa delusa (p. es. non è poesia ma propaganda politica, non è politica ma velleitarismo utopistico, non è scienza ma immaginazione e fantasticheria, etc.; oppure c’è il ritrovo con tutti i suoi avventori, ma non l’amico che vi cerco; c’è la casa, la porta, il campanello che busso, la cameriera che mi apre la porta, ma non la persona che mi sono recata a visitare; c’è la strada, la folla, l’angolo convenuto per l’appuntamento, il mio orologio da polso che guardo continuamente, ma l’amico che attendo non si vede).891

Così, la caduta dell’ethos in un singolo compito valorizzativo, «è il non mantenersi fedele al compito stesso (per. es. il non mantenersi fedele alla coerenza aritmetica nella proposizione “due più due uguale zero”), l’equivocare un compito con l’altro (per es. il confondere coerenze diverse nell’arte-propaganda), il persistere in esso quando è già esaurito e gli altri fanno valere le loro esigenze (per es. nel legalismo, nell’estetismo, nell’intellettualismo, ecc.)».892 Già solo nell’annientamento relativo, dunque, vi è un’attesa delusa, uno scacco rispetto al dovere a cui si doveva prestare fedeltà e che, trasgredito o subito nella sua non fattualità, genera il fallimento del telos. Ma pure si tratta di una vera e propria “feticizzazione” del valore che sempre è un “male” per l’ethos e rientra nella sfera dell’annientamento relativo: rientrano qui, appunto, tutti gli “ismi” come accezioni negative del valore “buono”. È, questa, una forma di alienazione nel senso di “non essere ciò che si deve essere” (che come tale è possibilità permanente del crollo dell’ethos), per cui «ogni tentativo di assolutizzare e feticizzare una forma di valorizzazione, ogni pretesa di non “andare oltre” una certa propria opera “secondo valore” generano alienazione (il tecnicismo, l’economicismo, l’estetismo, il politicismo, lo scientismo, il panlogismo sono in questo senso alienanti, imprigionanti, variamente asserventi)»893. Anche per il rischio di annientamento assoluto de Martino parlerà di attesa delusa e di alienazione; ma qui, rispetto all’annientamento relativo, la delusione è totale e l’alienazione radicale: non più “scacco” del dovere ma impotenza al dovere. Così, per lo studioso «sia nell’annientamento assoluto che in quello relativo si tratta di nulla come attesa delusa: ma mentre nell’annientamento relativo l’attesa delusa concerne una particolare valorizzazione emergente dal fondo dell’essere, dall’annientamento assoluto entra in causa la stessa possibilità di un fondo dell’essere da cui possa emergere questa o quella valorizzazione».894 Allo stesso modo, sia nell’annientamento relativo che in quello assoluto si tratta di nulla come alienazione, ma nello specifico dell’annientamento assoluto «vi è un’alienazione ancora più

890 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., pp. 12-13. 891 Ivi, p. 155.

892 Ivi, p. 18. Le frasi tra parentesi rimandano, nel testo, ai dei riferimenti in nota. 893 Ivi, p. 149.

192 radicale, che non concerne il tentativo più o meno contraddittorio di assolutizzare una valorizzazione particolare, ma l’abdicare della valorizzazione su tutto il fronte del valorizzabile, e quindi anche rispetto a quella valorizzazione inaugurale che è il progetto comunitario dell’utilizzabile».895 Ecco che allora l’alienazione prende “il senso della follia”, «per quanto nella misura in cui la prima forma di alienazione è perseguita con ostinazione, la seconda, di tanto più grave, finisce alla lunga con l’annunziarsi e con l’esplodere (il tecnicismo e il politicismo possono condurre alla guerra nucleare che è già in sé follia)».896 Ecco dunque, conclude de Martino, cosa distingue l’alienazione della follia dalla alienazione, ad esempio, di un operaio nella società borghese o di un burocrate in quella sovietica, dove nel primo caso emerge con maggior radicalità «questa possibilità di diventare “cosa”, estraneo a me stesso»897.

Spendiamo qualche altra parola sull’intimo rapporto che c’è tra le due crisi, relativa e assoluta. De Martino chiarisce subito come «occorre distinguere la cattiva teorizzazione dell’oltre (il cattivo filosofo che assolutizza una particolare forma del valorizzare, ma che di fatto, come uomo concreto, opera secondo la totalità delle forme di valorizzazione) e il crollo dell’ethos della valorizzazione su tutto il fronte del valorizzabile, che è una malattia molto più profonda, e che comporta una crisi radicale».898 Cominciando dalla prima esperienza negativa, si assuma come esempio il naturalismo. Un naturalista sostiene, ad esempio, che vi siano nell’umanità razze inferiori e razze superiori; assolutizza, cioè, il valore “razza” disarticolandolo dalla dinamica dell’ethos. Certamente «l’assolutizzazione naturalistica è una cattiva teorizzazione, ma di fatto chi la difende opera come uomo felicemente contraddicendosi: opera cioè anche secondo i valori non riconosciuti nella sua teoria (e come potrebbe fare diversamente se è un uomo normale?)».899 Un naturalista della razza, ad esempio, conduce una vita normale, cioè operando continui trascendimenti “sani”, nonostante la sua teoria naturalista soffra di uno scacco del trascendimento rispetto al valore singolo di “razza”. Ed infatti «i difensori di un naturalismo rigoroso (o dell’estetismo, ecc.) non sono “folli”, mentre lo divengono coloro nei quali l’ethos della valorizzazione entra in crisi».900 Tuttavia, spiega ancora de Martino, tra la crisi di un solo trascendimento (cattiva teorizzazione) e quella di tutto il fronte del potenzialmente valorizzabile, vi è «un rapporto “segreto” perché la cattiva teorizzazione dell’oltre manifestandosi nella assolutizzazione di un valore particolare è già un flettersi dell’ethos del trascendimento in quel

895 Ivi, pp. 149-150. 896 Ivi, p. 150. 897 Ivi, p. 149.

898 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 639. 899 Ibidem.

193 valore, un flettersi»901 che non resta senza conseguenze, sebbene «neutralizzato sul piano esistenziale della felice contraddizione che si è detto».902 Si pensi dunque al razzismo e ai suoi atroci danni sulla dignità della persona umana, che derivano proprio da una cattiva teorizzazione del concetto di razza: i fautori di un tale razzismo, ad esempio nel regime nazista che vedeva nella razza ariana una superiorità che quella ebrea non raggiungeva, non possono distinguersi da persone “folli”. Dunque, conclude de Martino, «se quel flettersi dell’ethos ha radici profonde, e se il cattivo teorizzare dell’oltre pretende di adeguare tutta la sua vita alla propria cattiva teorizzazione, allora lo stesso piano esistenziale è investito dalla crisi, perché entra in crisi lo stesso fronte del valorizzabile in tutta la sua possibile estensione».903 Oltre al razzismo, si pensi anche all’esempio della cattiva teorizzazione della tecnica, giunta fino al terrore apocalittico della bomba atomica, laddove non c’è stata una perfetta sovrapposizione tra il flettersi dell’ethos nel trascendimento del valore “tecnica” e quello coinvolgente la totalità dei trascendimento; «così l’assolutizzazione della tecnica e dell’oltre che essa comporta, ove sia perseguito con sciagurata coerenza, è un perdersi dell’umano nel tecnico e in ultima istanza l’autodistruzione della tecnica e dell’umano nella guerra nucleare».904

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