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IL MITO A FONDAMENTO DELLA DESTORIFICAZIONE CULTURALE

PERSONA E CULTURA

LA TRASCENDENZA COME GUARENTIGIA DEL MONDO DEI VALORI (PERSONA E METASTORIA)

5.3 IL MITO A FONDAMENTO DELLA DESTORIFICAZIONE CULTURALE

Se la natura tende “all’eterno ritorno” «perché il ritornare dell’identico è il modo più economico di divenire, perché è incolta»,621 alla persona, nella vicenda di destorificazione rituale, non è consentito ripetersi come la natura, destorificarsi in modo completamente naturale: essa deve farsi comunque evento irripetibile, laddove restare “impigliata” all’identico è per lei la crisi, l’indistinzione, l’indifferenza. Il ripetersi in modo identico alla natura, si è detto, è malattia. «L’identità è la nostalgia dell’identico, il tornare nell’indistinto delle origini, il resistere alla

620 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 157. 621 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. , 223.

140 proliferazione del divenire storico, l’istinto di morte, lo scomparire della situazione in luogo di trascenderla, l’annientarsi dell’esserci del mondo».622 È questo per la persona, dirà de Martino, il suo peccato originale, che va dritto a colpire l’ethos che la sostiene. «Il divenire umano che si estolle sulla pigrizia di quello subumano continua ad essere travagliato da questa stessa pigrizia: la irreversibilità del tempo degli uomini rischia di farsi reversibile».623 La persona, come già detto, in quanto presenza storica è potenza sintetica di distinte valorizzazioni; è cioè “unificazione del molteplice”, mentre il piano naturale propone «mercé la iterazione, sempre di nuovo lo stesso contenuto, compromettendo in tal guisa la condizione stessa di tale presenza, che in quanto

unificazione del molteplice non è compatibile col ripetersi dell’identico».624 L’uomo, insomma, non deve restare inghiottito dall’eterno ritorno, il quale rappresenta per de Martino l’«insidia fondamentale alla libertà»625 dal momento che «l’esserci, in quanto dover esserci valorizzante, è tempo, storia»;626 ma del resto l’uomo non può nemmeno lasciarsi passivamente condizionare nella sua libertà alla decisione definitiva “facendosi scegliere” dalla storia, cioè abbandonandosi preventivamente ai rischi del divenire. L’uomo deve sempre poter decidere, senza ridurre la sua storia al finito irreversibile o all’eterno ciclico, in quanto «il tempo, la storia, non sono né il finito né l’eterno, ma appunto l’inesauribile riscatto del finito nell’eterno, il dover essere delle forme nelle opere».627 In qualche modo la persona è già strutturata per “mediare” la ciclicità dell’eterno entro cui la sua scelta si “custodisce” dal divenire col dover decidere nel valore proprio della sua finitezza. La sintesi tra ripetersi rituale e contenuto mitico è proprio quella manifestazione storico- morale della persona umana che media la finitezza umana con l’eterno ritorno che la reclama a sé.

Quando la nostalgia dell’identico si rende conto del vuoto che avanza, l’identità assume la forma dell’essere che si ripete, della nostalgia del divenire ciclico, a imitazione dell’ordine astronomico, della vicenda stagionale, della legge naturale. L’ordine simbolico assume questo rischio e mediatamente ridischiude l’impegno dell’esserci a trascendere le situazioni secondo valori culturali che l’uomo genera e che all’uomo sono destinati. L’ordine simbolico include, in un quadro intuitivo e altamente emozionale, origine e prospettiva.628

Per spiegare meglio la coappartenenza di rito e mito nella destorificazione culturale torniamo all’esempio del cullare. La madre culla il bambino da destra verso sinistra: questo rito sospinge dalla storia (il bambino si addormenta, la sua presenza nel mondo si dilegua) ma non produce di per sé valori, quindi non riscatta dal rischio di dormire. Il cullare di per sé non è superamento della regola culturale: è imitazione fedele del tempo “naturale”. La madre un giorno

622 Ivi, p. 226.

623E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. , p. 155. 624 E. de Martino, Il mondo magico…, cit., p. 87. 625 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 223. 626 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 26. 627 Ibidem.

141 accompagna questo cullare ad una dolce ninna-nanna che ciclicamente ogni notte canta la bellezza del dormire sotto le stelle su di una barca che scorre lungo un fiume. In questo modo il rito della ninna-nanna si carica di un doppio trascendimento: l’addormentarsi biologico in addormentarsi cullato e l’addormentarsi cullato trasfigurato nella metastoria di un placido dormire sotto le stelle. La ninna-nanna ciclicamente uguale a se stessa non è propriamente storia (in quanto la storia scorre, non è ciclica), ma nemmeno mera iterazione “naturale”, avendo la precisa funzione catartica di contenere nel canto un mitico addormentamento “ben riuscito” che la rende tempo ciclico “culturale”: la ninna-nanna, perciò, è a tutti gli effetti esperienza metastorica, dove il trascendimento dell’addormentarsi storico subisce la trasfigurazione in orizzonte mitico. Così, il tempo ciclico della ninna nanna è molto di più della iterazione dell’identico propria del semplice cullare; «implicito nella iterazione liturgica di uno stesso mito di origine e di fondazione, ed esplicitato come teoria nelle metafisiche dell’eterno ritorno, è un tempo culturale nel quale viene ripreso e ridischiuso al tempo della irreversibilità valorizzante il rischio di “ritorno indietro” della crisi».629 Quando dunque la destorificazione rituale è orientata al valore, alla scelta –perché è comunque una scelta verso la storia- la destorificazione si fa a tutti gli effetti “culturale”, sistema che protegge il divenire critico «attraverso complicati sistemi protettivi e reintegrativi che la cultura appresta e che l’individuo secondo la sua forza utilizza, al fare qualche cosa di valido».630 Se si sceglie “fuori” dalla storia sia nella metastoria che nella follia, la scelta però è vera e propria “scelta al valore” solo nella destorificazione simbolica. Ed è propriamente “scelta” proprio in quanto questa destorificazione “laboriosa” non consente di ripetersi allo stesso modo della natura, perché resta scelta per la storia. La ninna-nanna è scelta per la storia. È vero, allora, che il rito è esperienza di destorificazione, ma questa esperienza non è una reale “fuoriuscita” dalla storia (ricordiamo, in proposto, l’intrascendibilità dell’ethos) ma una cancellazione dei mutamenti della storia,631 al fine di custodire il valore dai rischi del divenire perennemente incerto. In un certo senso, il rito nella sua potenza mitica disfa il tempo e libera l’uomo –entro certi limiti- dalla sua necessità. Si spiega perché, universalmente, l’uomo “fissa” nel dispositivo mitico-culturale le decisioni morali più grandi della vita: nascita, matrimonio, morte, ad esempio, per renderle, appunto, “sicure” a dispetto dai mutamenti della storia scorrevole, insicura. La possibilità umana di trasfigurare l’irripetibilità

629 E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 157. 630 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 94

631 De Martino si confronta con il principio di destorificazione nella nota distinzione lèvi-straussiana di società “calde”

e “fredde” contenuta ne La pensée sauvage, Plon, Paris 1962, pp. 309 segg. «Abbiamo altrove suggerito che la maldestra distinzione fra “popoli senza storia” e gli altri potrebbe essere vantaggiosamente sostituita da una distinzione fra ciò che noi abbiamo chiamato …le società “fredde” e del società “calde”: le prime che cercano, in virtù delle istituzioni che esse si danno, di annullare in modo quasi automatico l’effetto che i fattori storici potrebbero avere sul loro equilibrio e sulla loro continuità, le seconde invece che interiorizzano risolutivamente il divenire storico per farne il motore del loro sviluppo», C. Lévi-Strauss, citato in de Martino, Scritti filosofici, cit, pp. 157-8.

142 del divenire storico nell’eterno ritorno del tempo ciclico naturale è in fondo la possibilità di preservare da rischi del tempo le proprie scelte storiche. Possibilità, dunque, del “ritorno indietro” sulle proprie scelte, di renderle “definitive” rispetto ai rischi del divenire. L’imitatio naturae rituale è insomma, per entro il mito, «la possibilità di disfare il tempo»,632 che non appartiene solo al pensiero arcaico, dirà de Martino, ma all’uomo in senso universale. E non vi è catarsi rituale, spiega de Martino, senza un mito. Sebbene non tutti i riti siano apparentemente trasfigurati in una esplicita sfera simbolica –si pensi alla ninna nanna, il cui orizzonte mitico emerge solo dietro una analisi filosofica di questo dispositivo- secondo lo studioso napoletano un rito, come tale, è sempre ripetizione del mito. Ma cos’è, nello specifico, un mito?

De Martino scrive che anzitutto il mito rivela “una situazione-limite”, «cioè un momento critico dell’esistere su cui grava il rischio estremo del crollo dell’ethos del trascendimento e quindi dell’esserci (del “doverci essere”)»;633 e al medesimo tempo il mito «rivela altresì un orizzonte di ripresa di questo rischio, una conversione dell’annientarsi dell’esserci nella sua reintegrazione nell’essere».634 Per questa vittoria del positivo sul negativo (del valore sulla crisi), per de Martino il mito non è –come spesso la tradizione ha mostrato- un’ambigua coesistenza di natura e vita635 ma, al contrario, «il mito è il mutamento di segno della crisi»,636 laddove il “nulla” della valorizzazione si riplasma in movimento verso il valore; «il mito è l’orizzonte simbolico di questo movimento, è l’ethos in crisi che si riprende».637 Il mito è sostanza simbolica del rito culturale; è il mito, dunque, che rende il rito il superamento della regola, un doppio trascendimento (natura vs storia vs metastoria) ché altrimenti il rito si ridurrebbe alla regressione della regola culturale. Il mito rappresenta una sorta di “storia delle origini” sempre uguale del fatto storico in crisi. Stiamo parlando, ribadiamolo, di mito “in genere” e non di mito religioso o magico. Il bambino non si addormenta; il suo critico addormentamento è fatto storico. La ninna nanna è una vicenda di addormentamento metastorico che si inscrive, sempre uguale, nel fatto critico. La ninna nanna è allora una vicenda di addormentamento “originale”, dove l’originalità è garantita dal movimento del cullare e dal canto sempre uguali a se stessi, senza evoluzione deformante. Ecco che il bambino si

632 E. de Martino, La fine del mondo…, op. cit., p. 244. 633E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 74.

634 Ivi, p. 75.

635 Qui si esplicita il distacco di de Martino da Paci in merito alla nozione di mito. Secondo Paci (cfr “Sul significato del

mito” in Dall’esistenzialismo al relazionismo, 1957, pp. 335 e segg) il mito rivela una ambigua fusione di negativo e positivo, non più distinguibili. «Paci nella sua teorizzazione del mito non ha sufficientemente analizzato il carattere della crisi (carattere che richiede una attenta valutazione della psicopatologia) e dei momenti critici dell’esistenza, e non tiene abbastanza presente […] il momento rituale, liturgico, cerimoniale, presentificante del mito. Il mito non è ambiguità fra crisi e reintegrazione, ma è ripresa della crisi del trascendimento nell’orizzonte della trascendenza», de Martino, ivi, p. 75.

636 Ivi, p. 47. 637 Ivi, p. 48.

143 addormenta mediante una destorificazione (rito del cullare) che porta in sé la potenza simbolica (mito del canto) di un addormentamento primordiale e ben riuscito. «Una volta per tutte: l’evento primordiale che accadde una volta per tutte, e che può essere ripetuto ritualmente, si manifesta come l’orizzonte di destorificazione del divenire storico, il quale è appunto caratterizzato da eventi in cui ciascuna volta del loro prodursi vale per sé e non per le altre, tanto meno per tutte».638 L’addormentamento è ogni volta rischioso; il felice successo di uno non vale per gli altri. Ma se «nella storia si deve ricominciare sempre di nuovo ogni volta: il mito delle origini offre un piano in cui riassorbire questo proliferante “sempre e di nuovo” in una volta privilegiata», in una ninna- nanna metastorica «che sta per tutte, e che destorifica il divenire nella ripetizione della stessa immutabile permanenza metastorica»639. Così, negli argini di questa “volta privilegiata” che “sta per tutte” si manifesta quel «piano di attenuazione e di mascheramento della totale responsabilità umana della decisione operativa attuale (riassorbimento di tale decidere nella iterazione rituale dell’identico modello mitico di fondazione dell’ordine operativo comunitario)».640 Così, il rito culturale è sempre mito in quanto il simbolo stesso è «orizzonte di ripresa e di reintegrazione dei sintomi della crisi, come piano di trasformazione dei sintomi “chiusi”, come via verso i valori».641 Si comprenderà allora meglio il fatto che non sia l’iterazione in sé che compie la catarsi nella persona dalla natura alla storia; se così fosse anche la ripetizione psicopatologica sarebbe catartica o, diversamente, qualsiasi rito culturale resterebbe mera destorificazione irrelata. Il ritorno all’operabile della storia avviene solo quanto si incontrano destorificazione e simbolo, rito e mito, ripetizione e metastoria, dove la iterazione rituale compie la destorificazione, e il simbolo compie il “passaggio” al valore della storia. Ecco perché in de Martino «il rito è sempre rito di un mito, e il mito è sempre prospettiva di un rito in azione»642. Allora, se il mito è un exemplum di risoluzione, esso è “risoluzione” solo in quanto è exemplum reiterabile, cioè «parola da ripetere ogni volta che un determinato momento critico si ripresenta, o in date canoniche in cui si stabilisce che siano trattate in un certo modo le crisi individuali di un certo tipo».643 Allo stesso modo, il rito è s’ “pura forma della ripetizione”, «cioè il ripetere non sta qui come strumento di ricerca oggettiva di quel che effettivamente tende a ripetersi nella natura e nella società (come è il caso della ricerca delle “leggi” nelle scienze della natura e della sociologia), ma come cancellazione sistematica del divenire»;644 ma è ripetizione “risolutoria” se si opera «su un piano metastorico immaginario, sul

638 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p., pp. 262-3. 639 Ivi, p. 263.

640 Ivi, p. 261. 641 Ivi, p. 265.

642 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 150. 643 Ivi, p. 146.

144 quale è già accaduto tutto quello che può accadere».645 Detto semplicemente, la ninna nanna deve essere canto cullato, laddove un canto senza iterazione difficilmente addormenta, mentre il solo cullare destorifica senza compenso: ma canto e ciclicità insieme restituiscono all’infante l’orizzonte valoroso del suo dormire. La ninna nanna, così, esce dalla rischiosità della “parola profana” e si fa mito, cioè a tutti gli effetti “parla della crisi”:

Mentre la parola profana arresta e configura il mondo, il mito dà orizzonte al rischio di perdere la presenza e la stessa possibilità di esserci in un “mondo”. Pertanto arresto e configurazione hanno luogo qui su un piano che sta fra l’ordine mondano di dar nome alle cose e il caos dell’alienazione totale, in cui tutti i nomi si confondono, e lo stesso nominare diventa impossibile. Il mito è quindi parola della crisi, cioè crisi fermata e riaperta al processo di reintegrazione.646

Pertanto, nella destorificazione culturale emerge un nuovo particolare che mancava nella destorificazione non simbolica: il mito, il quale offre un modello metastorico di fondazione\autenticazione riassorbente il divenire critico e, insieme, un mascheramento della iniziativa personale nel “come se” (avvenuto illo tempore) della iterazione rituale. È proprio in virtù del mito che il tempo della iterazione rituale può riplasmarsi in «un tempo protettivo della storicità del divenire».647 Ecco che allora la decisione umana di quel momento critico può svolgersi entro la custodia di una “già avvenuta decisione sul piano mitico”: “devi dormire”, canta nel buio la madre all’infante, “come quel bambino che dormiva sotto le stelle in una barca sul fiume”, «il che equivale a dire che attraverso la pia fraus dello stare nella storia come se non ci si stesse viene ridischiuso lo starci effettivo della operosità profana, garantita nei suoi risultati e nelle sue prospettive dal già deciso in illo tempore».648 Se, dunque, la più grande tentazione umana, come si diceva, resta quella della pura ciclicità nel tornare alla madre, resta sì sempre valido come «il ritorno alla madre, la nostalgia del seno materno, è nel suo isolarsi, un rischio: riflette la tirannia del passato non oltrepassato, riecheggia il nulla dei mancati distacchi, testimonia di una presentificazione abdicante»,649 ma dall’altro, essendo la natura umana peculiarmente personale e quindi capace di riscattare in valore qualsiasi esperienza di crisi storica, «ripreso in un mito delle origini questo ritorno muta di segno, diventa orizzonte di reintegrazione mediatore di compiti storici. Diventa Demeter e Kore. O diventa poesia»650 o, ancora, una semplice ninna-nanna.

645 Ivbidem. 646 Ivi, p. 146.

647 E. de Martino, Scritti Filosofici…, cit., p. 157. 648 Ibidem.

649 Ivi, p. 78. 650 Ibidem.

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