PERSONA E NATURA
IL CORPO UMANO TRA NATURA E PERSONA
3.2 LA SESSUALITA’ VALORIZZATA COME PRIMORDIALE MANIFESTARSI DELLA PERSONA
Anche la sessualità, in quanto istinto di riproduzione dominato dalla ripetizione, rientra nella ciclicità biologica umana, ma vi è necessità di affrontarla in uno spazio a parte in quanto, sostiene de Martino, mediante tale distacco si fonda la persona, quindi ha luogo la civiltà. L’occasione di tale dichiarazione gli viene data da un questionario sul tema, postogli a qualche anno dalla morte da una fonte tuttora ignota, di cui egli ne critica subito l’interna formulazione delle domande. Ebbene, nel questionario si stabilisce arbitrariamente la distanza tra le tre grandi religioni semitiche – Giudaismo, Cristianesimo, Islamismo-, che tenderebbero ad “escludere il sesso dalla cultura”, e il mondo “moderno” che invece tenderebbe ad includerlo. Come già ribadito, il trascendere la natura nella cultura propria della persona non sottintende mai un andare “contro” la natura, nel senso di “escluderla”, in quanto la persona è espressione di inscindibilità naturale e culturale. Di conseguenza, non esiste né è esistita e né potrà esistere (a meno che non cambi per qualche ragione extra razionale ed extra storica la struttura della vitalità umana) una cultura che escluda in toto anche solo una parte della natura. La regola, in tal senso, abbiamo già mostrato come sia testimonianza del fatto che il trascendere la ripetizione naturale contempli l’inclusione dello stesso ripetere biologico (benché superato nel valore della scelta). Anche la ripetizione sessuale, come le altre istintuali, non può ridursi nell’uomo a ripetizione animale, ed infatti per la persona l’immediato non è mai un “bene” (cioè non realizza la sua natura culturale), in quanto “deve” vivere nella mediatezza, deve “volere” questa mediatezza, essendo la condizione umana “per natura” un
distaccarsi da. Torniamo, quindi, al questionario di de Martino.
Nel sostenere l’equivocità di tale distinzione che, così formulata risulta ambigua, de Martino comincia subito col chiarire che «il controllo culturale del sesso non è limitato alla tradizione giudaico-cristiana, ma appartiene a qualsiasi forma di umana civiltà, in tutti i tempi e in tutti i
80 luoghi»358. Tutte le culture, egli spiega, includono ed escludono contemporaneamente la vita sessuale dalla cultura, quindi la permettono in quelle situazioni atte a “riplasmare” variamente la sessualità naturale in sessualità personale, come tale sottratta alla “ripetizione” autoreferenziale dell’accoppiamento animale chiuso nella prigionia vitale del piacere e della riproduzione. Con l’uscita personale da tale primordiale autoreferenzialità, sostiene de Martino, la civiltà è possibile. L’accoppiarsi limitato alla soddisfazione istintuale è infatti, per de Martino, primordiale rischio di perdere l’ethos in quanto rischio di recessione al naturale per eccellenza. Da qui, il fatto che il
controllo culturale dell’eros come fatto naturale biologico, nelle sue varie espressioni storico-
culturali359, fonda la civiltà segnando il distacco dell’uomo dalla condizione animale;360 tanto che la stessa cultura umana «comincia quando il sesso diventa problema e quando determinate soluzioni sociali a questo problema sono considerate normative e condizionano i comportamenti individuali»361. Ma perché la sessualità regolata, e non ad esempio il mangiare o il dormire culturali, è distacco fondamentale per il darsi della persona?
In effetti, tanto per tornare agli esempi appena evocati, il mangiare o il dormire umani “non trascesi” non possiedono la stessa “forza” di far recedere l’uomo alla natura propria dell’istinto sessuale; non sono legati cioè in modo così viscerale con l’istinto di morte come lo è invece, mostra de Martino, l’esperienza del coito. Per quanto certi comportamenti “brutali” intorno al mangiare o al dormire, ad esempio, possono essere giudicati “poco umani”, tanto da meritarsi il monito di “mangiare o dormire come le bestie”, tuttavia essi non raggiungono la stessa intensità di rischio verso il precipizio naturale a cui, secondo de Martino, induce l’istinto sessuale non trasceso nel valore. Anzi, a volte, il mangiare “brutale” diviene simbolo di umanità e di dignità del proprio riconoscersi come persone per il fatto che lo è compiuto in extremis, per salvarsi dalla morte:
C’è senza dubbio un residuo non interamente plasmato, la fame organica come tale: esso appare in circostanze eccezionali, quando occorre sfamarsi pur che sia, e quando, travolti da quest’ultimo residuo, ci si lascia andare magari all’atroce atto attribuito nella leggenda al conte Ugolino, lasciarsi andare che per la sua atrocità fa misurare che cosa significa l’umano oltrepassare il vitale nel civile mondo dell’utilizzabile, e che d’altra parte appare atroce proprio perché i figli non sono civilmente inseriti, in nessuna società umana, nei cibi quotidianamente mangiabili.362
L’esperienza del coito, diversamente dalle altre ripetizioni biologiche che condividiamo con gli animali, solo nell’uomo rappresenta il punto d’incontro delle due fondamentali e oppositive peculiarità della persona umana, ovvero è crocevia tra l’imperativo etico (“non devi essere solo”) e il rischio estremo (“essere solo”): nel dramma del dipanarsi tra il massimo trascendimento e il nulla
358 Ivi, p. 621.
359 «Ogni civiltà umana comporta una particolare etica del sesso, cioè un ridimensionamento culturale della sessualità
come mero impulso biologico all’accoppiamento e alla generazione», ivi, p. 622.
360 Ivi, p. 622. 361 Ibidem.
81 del trascendimento, esso appare da un lato “negazione” della persona, ma dall’altro suo inalienabile fondamento.363 Vediamo perché. De Martino analizza filosoficamente l’esperienza umana del coito, rinvenendovi in esso una inalienabile paradossia –come egli la chiama- per cui: da un lato, l’essere umano vive il massimo trascendimento verso un altro essere umano, col vissuto «della massima intensificazione vissuta di tutte le particolarità e minuzie corporee, del sollevarsi e del glorioso, significativo risplendere di tutti gli aspetti sensibili per cui l’uno e l’altro sono due corpi, per la vista, per il tatto, l’olfatto, per l’udito e per il gusto, onde i due corpi sono avvertiti, ciascuno per sé, e l’uno per l’altro, come ribaditi nella storia»;364 ma dall’altro lato, l’essere umano in questo massimo trascendimento avverte l’angoscia della propria fusione di fronte al rischio di due presenze che si perdono in “una sola carne”, dove poi questo estremo smarrimento non avviene per via di quel ricadere (a coito avvenuto) di questa altissima tensione trascendente nella originaria immanenza di due singole esistenze, per cui l’esito di tale sforzo relazionale risprofonda in quel piano meramente animale “incapace di distacco e relazione”, che rigetta l’uomo coi suoi sforzi culturali nell’angustia dei limiti biologici di due corpi “soli”. «Ma la carne non deve mai essere sola, e quando si avvia alla sua solitudine si ritrova nel ribrezzo e nella colpa, nella vertigine e nella miseria del proprio annientarsi».365 Alla base dell’esperienza sessuale, così, de Martino individua quella intrinseca polarità di “caduta dei limiti” e “irrigidimento dei limiti” della presenza umana, di comunione personale e di prigionia corporeo-animale: la polarità fra coinonia indiscriminata col
tutto e angustia della corporeità animale, sta alla base dell’amore.366 Ecco che il piacere –per l’uomo e mai per la bestia- diviene pertanto motivo di serietà e angoscia, «angoscia di fronte alla minaccia tendenziale di caduta di orizzonti, onde estremamente piace la massima determinazione dei corpi, che disperatamente si cercano in tutti i loro particolari e mediante i propri sensi al fine di salvarsi dal naufragio del nulla; angoscia di fronte alla limitazione che rischia di risultarne, al
363 Interessante, a nostro avviso, appare la proposta di confronto tra questa tesi demartiniana e quella dei francesi
Claude Lèvi-Strauss e René Girard, quest’ultimo recentemente scomparso, circa la regola culturale della sessualità. In tutti e tre gli studiosi della cultura, infatti, nonostante i differenti approcci scientifici alla natura umana si ribadisce il principio della cultura a partire dalla valorizzazione ordinata dell’istinto sessuale. Certamente, tutto ciò richiederebbe un approfondimento a parte. Mentre de Martino ritrova il nesso sessualità-crisi della presenza, Girard insiste similmente sul rapporto sesso-violenza, per cui «la vita sessuale è più impegnata nella violenza umana che non il tuono o i terremoti, più vicina al fondamento nascosto di ogni elaborazione mitica. La sessualità ‘nuda’, ‘pura’, è in continuità con la violenza; costituisce quindi simultaneamente l’ultima maschera di cui quella si ricopre e l’inizio della sua rivelazione», R. Girard, La violenza e il sacro…, op. cit., p. 168. Circa Lévi-Strauss, de Martino ricorda la sua teoria sull’incesto, quale “norma universale” della sessualità regolata, contenuta nel suo Le strutture elementari della
parentela. Come egli scrive (e de Martino riparta in questa pagine dedicate al distacco della sessualità come
fondazione della persona) “La proibizione dell’incesto non è né puramente di origine naturale né puramente di origine culturale. […] La proibizione dell’incesto è il processo per il quale la natura si oltrepassa”.
364 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 174.
365 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 573. La riflessione sulla “carne sola” trova ispirazione nel personaggio di
Roquentin (che molto più avanti rincontreremo) de La Nausa sartriana.
82 minacciato ricadere del destino umano sul piano del destino animale, onde estremamente piace quella caduta di orizzonti che un momento prima angosciava»367. Insomma, la sessualità è direttamente connessa all’esperienza etica, sia a quella negativa di rinnegamento dell’ethos, come colpa morale di non esserci nella storia, donde coito e morte si appartengono; sia a quella positiva del massimo e intimo trascendimento verso l’altro-da-sé. Nella persona e non nella bestia, «all’esperienza complessa dell’amore la morte appartiene a doppio titolo: come angoscioso non mantenersi presenze circoscritte, e come un precipitare nell’angustia del limite animale. Ma altresì a doppio titolo vi appartiene la vita e il riscatto, sia quando i corpi cercandosi si salvano dal naufragio del nulla, sia quando sentendosi precipitare sul piano animale si sollevano anelanti da esso fino a quel livello dove ripiglia l’angoscia dell’orizzonte che cade».368 Negli amanti “in azione, aperti a tutte le suggestioni”, peccato e salvezza si scontrano nell’esperienza del coito, che si dipana tra fedeltà al dovere etico di trascendersi nell’altro e peccato di infedeltà ad esso nell’immediato dell’animalità corporea. Ora, a protezione di questo universale rischio umano di ritorno al bestiale, giunge in soccorso, originantesi nel corpo umano, l’istituto somatico-valoriale del pudore,369 che solo nell’uomo, quale unico animale che arrossisce, si manifesta, al pari dell’angoscia, di fronte ad un rischio che può divenire fatale: quello che il corpo umano sia frainteso nella mera bestialità o, peggio, ridotto a “mera cosa-in-sé”, e non colto come persona, valore, potenza morale. Il pudore esige la regola sessuale in quanto impone che la persona riconosca il corpo come “suo”, come “personale”, laddove paradossalmente sappiamo che «il “mio” corpo è riconoscibile come mio solo per entro questa valorizzazione intersoggettiva del corporeo umano»,370 per cui come già ribadito, il corpo è mio nella relazione che si apre pubblicamente e che vale per tutti, in quanto «mio in senso assoluto non dev’essere nulla: neppure il mio corpo “biologico” che dev’esser governato secondo comportamenti socializzati, frutto di decisioni storiche e di educazione, che dev’esser soddisfatto secondo “regole”».371 Il pudore avvisa che vi è un debito continuamente aperto e inestinguibile con l’umanità e che «il nostro corpo può essere nostro solo se per entro questo debito che lo costituisce come corpo sostenuto da infinite decisioni altrui, dal congiunto sforzo della “società” e della “storia”».372 Angoscia e pudore, in tal senso, sono i primordiali sentimenti a difesa dell’umanità,
367 Ivi, p. 175. 368 Ivi, p. 178.
369 De Martino studia il pudore a cominciare dall’analisi di alcuni interrogativi: “Perché il pudore? Perché
l’accoppiamento si consuma di nascosto, al riparo della vista altrui, nelle tenebre etc.? Perché analoghe esperienze si accompagnano al defecare e al mangiare, che, per quanto in misura diversa, partecipano della segretezza?”, cfr ivi, pp. 174-175. Al fondo, vi è l’uomo che si “protegge” quando il suo agire rimanda immediatamente alla natura animale. Per questo, il pudore è sintomo della natura personale dell’uomo che continuamente si riscatta dall’animalità.
370 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 5. 371 Ibidem.
83 personali “sentinelle” a guardia delle alte mura tra la bestialità e l’umanità che la persona doverosamente erige. In proposito, scrive de Martino
La coppia si isola, esprimendo così il bisogno di interrompere ogni rapporto col divenire storico, di istituire una piccola storia a due, separata dal resto, sottratta alla interazione degli eventi, e in cui –in un certo senso- principio e fine acquistano un valore di assoluto inizio, di assoluta fine, e di svolgimento autonomo. L’isolamento della coppia, e poi sentimenti relativi di pudore e
vergogna, esprime dunque una guarentigia della caduta dei limiti. La coppia, in procinto di
consumare una esperienza in cui le presenze entrano in labilità, interrompe il circuito col resto del mondo, circoscrivendo così il rischio al minimo, ai due amanti, al frammento di storia tenuta gelosamente separata che si sta per svolgere fra essi.373
Da qui, il pudore si “istituzionalizza” in tutta quella serie di regole, interdizioni, prescrizioni e protezioni rituali, religiose e civili, che stanno alla base del trascendimento culturale della sessualità animale in sessualità personale. «In un certo senso l’atto di nascita della vita culturale umana, sempre e dovunque, comporta rispetto al sesso la istituzione di un ordine che modifica, limita, regola l’ordine naturale, cioè ricomprende il sesso in una rete di esclusioni e di inclusioni culturali, in un sistema di scelte che non ripetono mai la sessualità animale».374
Ecco dunque perché l’istinto sessuale nell’uomo sia universalmente trasceso, nel tempo e nello spazio umani, nel vincolo delle “nozze rituali”, mediante cui storicamente (e in forme culturali diverse, religiose e civili) l’uomo valorizza la ripetizione sessuale nella scelta morale e, come tale, depotenzia la sua connessione con la morte, contrastandola appunto con l’arma del valore personale. Le nozze rituali, comuni a tutte le culture, non sono solo “fatti storici” ma fenomeno di come l’uomo sia naturalmente predisposto dalla sua “vita già culturale” a non ripetere la sessualità “cruda e verde”. Ora, tale “pedagogia del distacco” intorno all’istinto sessuale ha luogo in tenera età, «poiché la possibilità di scelta che caratterizza l’uomo si inaugura nell’infanzia con la vita sessuale»375. Già nell’infanzia, infatti, il bambino apprende l’interdizione sessuale rispetto ai familiari stretti (genitori, fratelli, consanguinei reali o simbolici); e ciò affinché possa gradatamente formarsi ed emergere «dall’individuo naturale la persona aperta alla valorizzazione intersoggettiva della vita, e la stessa sessualità si modelli secondo un rapporto che va oltre, pur comprendendola, la semplice soddisfazione dell’istinto, così come il rapporto genitori-figli non si esaurisce nella semplice nutrizione della prole»376. Per de Martino la “regola culturale” degli accoppiamenti, che le nozze rituali consentono, «assolve la funzione pedagogica di istituire un rapporto intersoggettivo fondato su obblighi morali»377, dove se madre e padre, fratelli e sorelle non fossero esclusi dalla sessualità con la propria prole o i propri consanguinei, mai sentimenti come autorità e fraternità
373, E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., pp,. 175-176. In proposito (cfr p. 177, ivi). 374 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 622.
375 Ivi, p. 622. 376 Ivi, p. 626. 377 Ibidem.
84 avrebbero potuto emergere e consolidarsi. Ed ecco quindi perché «il trascendimento della condizione animale, la fondazione di un mondo di persone operanti per entro un progetto culturale di valori intersoggettivi, si attuano fra l’altro attraverso l’universalmente diffuso orrore per l’incesto»,378 tema notoriamente caro anche a Lévi-Strauss, che in tale statuto umano intravvede, prima ancora di una regola economica, l’inaugurale processo insieme naturale e culturale per cui la vita originariamente si oltrepassa.379 Fu proprio in virtù di una regola, precisa de Martino, che «autorità e fraternità furono protette dalla sessualità, poiché solo così potevano questi affetti distinguersi dalla sessualità ed enuclearsi in ogni nuova generazione».380 È altresì da considerarsi come il pericolo della riduzione da parte del bambino (ma pure dell’adulto) di ogni rapporto interpersonale a rapporto sessuale, costituisca secondo de Martino solo uno tra i rischi di “mancato trascendimento” in ordine alla sfera sessuale. Lo studioso, infatti, individua altri due importanti “rischi” per la maturazione della persona, che stavolta non concerne i bambini ma l’umanità adulta: quello relativo alla stabilità dell’unione di due persone a causa del logorarsi nel tempo del desiderio sessuale, pericolo che si riversa in quello della fragilità e brevità di un’unione incapace di assolvere i compiti educativi del bambino fino alla maturità della sua persona; e il rischio che l’unione di persone di sesso diverso non vada oltre la utilitaristica “unità economico-sessuale” di base, destinata a procreare nuovi individui, a cooperare per la propria sussistenza, senza la maturazione di più profondi rapporti sociali da cui solo la persona può maturare. L’ordine familiare, tradizionalmente inaugurato dalle nozze rituali a guarentigia di un “rapporto sessuale socialmente permesso”, esprime proprio l’esigenza di arginare i rischi per la persona appena evocati.
La delimitazione di una sfera umana rispetto alla quale i rapporti sessuali sono interdetti acquista un duplice significato sociale e culturale: per un verso tale delimitazione comporta la pedagogia del trascendimento della mera sessualità naturale per una affettività di qualità diversa, orientata oltre l’individuo fisico come strumento di piacere e di riproduzione; per un altro verso lo stesso rapporto sessuale socialmente permesso si dischiude, per quella pedagogia, a un ordine di valori che va oltre la sessualità, e che si orienta verso la stabilità della famiglia, verso le obbligazioni che ne derivano, verso i compiti educativi della prole, e verso quel complesso di legami, e di affetti che corroborano lo stimolo erotico, durano più di esso e stanno alla base della trasmissibilità delle tradizioni culturali di generazione in generazione381.
Ora, tenendo presente che, per de Martino, «il problema della cultura è il distaccarsi dalla natura, l’educare a questo distacco, il fondare centri istituzionali di educazione a partire dalla “naturalità” della unione sessuale e della procreazione di nuovi individui»,382 lo statuto culturale delle nozze rituali è da intendersi come fondamentale “rito di passaggio” da cui la persona deve
378 Ivi, p. 627. Corsivo mio. 379 Cfr ivi, pp. 623- 624. 380 Ibidem.
381 Ivi, p. 627. 382Ivi, p. 624.
85 compiersi come tale. Questo passaggio doveroso è in grado di sottrarre all’autoreferenzialità naturale la relazione sessuale umana ed «educare l’individuo ad andare oltre la “libido” e per dare orizzonte a sentimenti che accennino alla riconoscenza e all’amore».383 Le nozze rituali, pubblicamente celebrate nei vari contesti storico-culturali religiosi e civili, rappresentano, parafrasando de Martino, quell’ordine delle regole morali per oltrepassare gli istinti e liberare i
sentimenti della devozione, della riconoscenza, dell’amore. Se infatti, come si è detto, «la
condizione umana è caratterizzata dalla risoluzione di ciò che diviene nella permanenza di ciò che vale, nella dialetticità del rapporto fra divenire e valore, fra il passare e il far passare secondo una regola»,384 ecco che, in quanto “regola”, il vincolo culturale matrimoniale risponde universalmente al quel telos della verità già insito nella condizione umana, distinguendo gli “sposi” tra gli uomini che non lo sono, dove solo gli sposi sono gli “ammessi” dalla comunità a “sfidare la morte” che la sessualità porta inesorabilmente con sé, risolvendo il divenire istintivo-corporale del piacere nella permanenza di “ciò che vale” (devozione, riconoscenza, autorevolezza, fraternità, amore, eccetera), dove però questa permanenza non distrugge bensì include necessariamente quel “piacevole divenire”. Così il matrimonio, in quanto «regola istituzionale degli accoppiamenti ammessi e di quelli vietati costituisce una pedagogia dell’ethos comunitario»,385 dove l’interdizione sessuale tra determinate persone «è da interpretare come la pedagogia di un valore che va oltre la necessità vitale dell’eros».386 Senza la regola dell’eros, sostiene de Martino, «non ci si educherebbe mai ad un affetto, ad un’autorità esercitata o accettata, ad una obbedienza e ad un rispetto distinti dal piacere che corpi di sesso diverso possono prendere l’uno dell’altro».387 È dunque grazie al fatto che la regola sessuale esclude dall’eros alcune persone che queste, come un padre o una madre (o un maestro, un amico o altre ancora) devono «valere come simboli di valori ideali da manifestarsi nella loro purezza».388 Lo studioso, stabilito ciò, può dunque proporre una “formulazione ragionevole del