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LA CORPOREITA’ COME “ULTIMO ORIZZONTE” DELLA EMERGENZA MORALE

PERSONA E NATURA

IL CORPO UMANO TRA NATURA E PERSONA

3.6. LA CORPOREITA’ COME “ULTIMO ORIZZONTE” DELLA EMERGENZA MORALE

Il corpo, abbiamo visto, è quel crocevia in cui potenza morale (imperativo etico) e caduta dell’ethos (rischio estremo) entrano in scena in modo inaugurale, impegnando insieme la forza fisiologica e psichica per mezzo dell’ethos. Imperativo etico e rischio estremo, insomma, si contendono il corpo, che si dipana tra la cultura e la follia, tra la relazione comunitaria e la solitudine animale. Nel polo “positivo” degli estremi, ritroviamo quei corpi che, altamente

446 Ivi, p. 129.

447 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 580. Ancora la Fenomenologia della percezione merleau-pontyana guida

le riflessioni di de Martino. Scrive in proposito Merleau-Ponty –passo riportato per intero da de Martino- «Ciò che in noi rifiuta la mutilazione o la deficienza è un io impegnato in un certo modo fisico e interumano, che continua a tendersi verso il suo mondo a dispetto delle deficienze o delle amputazioni e che , in questa misura, non le riconosce

100 simbolizzati in alcune civiltà umane, rinviano ritualmente o metastoricamente ad altro-da-sé facendosi essi stessi “scelta e decisione” a fronte di una presenza che abdica alla sua scelta ma ancora preme per restare nella storia; nel polo “negativo” ritroviamo la degradazione corporea a ripetizione animale (psicopatologia), fino alle estremità della scarica meccanica di energia psichica, dove la persona manca di fedeltà all’ethos e perde la storia umana, tutta rinchiusa nella prigionia del vitale. Tratteremo queste esperienze l’una nella prossima sezione, l’altra nell’ultima di questo lavoro. Resta però qui fondamentale almeno dare un accenno ad esse, limitandoci in questo spazio alla focalizzazione di come il corpo solo nella persona possa farsi esso stesso carico di una “scelta morale” o di una “abdicazione morale”, esperienze che come tali non rappresentano la norma dell’esistenza personale, l’ultima in quanto infedeltà all’ethos; e la prima, per quanto positiva, in quanto la scelta morale è libertà che si origina dal corpo e non che ad essa si riduce. Il corpo, dunque, non solo è luogo inaugurale della persona che fisiologicamente emerge, ma altresì resta quella sorta di “ultima spiaggia” da cui l’uomo ultimamente grida al mondo che non è bestia ma persona. Quando cioè il mio esserci mondano, per una serie di motivi più o meno colpevoli, non può più emergere, prima di un crollo totale nell’indifferenza culturale tenta di mantenersi nella storia “aggrappandosi”, ultimamente, all’“ancora” corporale, la quale tende a farsi garante di scelte e decisioni morali, con l’egemonia del vitale sulla forma. Ora, questa egemonia può assumere forme complesse e in un certo senso “reintegratrici” (le ritroviamo in alcuni sistemi simbolico-rituali), ma anche povere e disgreganti, quindi destinate a costringere la persona nel silenzio e nella solitudine.

Circa il primo caso, a partire dal fatto che «ciò che mi fa essere come persona è proprio questo decidere per l’essere che vale»,448 accade che il corpo, quando il divenire storico va a compromettere la libertà di decisione morale, si faccia carico della scelta a cui la storia rimanda divenendo esso stesso luogo della decisione, potenza morale, quindi in tutto e per tutto “corpo presenza”, parte per il tutto. Se l’ethos, come detto, è inesauribile e intrascendibile, se quindi nonostante tutto si è sempre e comunque chiamati a scegliere per il valore e per entro la storia, il corpo è nell’uomo “ultima spiaggia” per mantenersi nell’intrascendibilità di questo slancio inesauribile. Il corpo solo nell’uomo si fa storia e solo in esso supplisce nella sua unità fisiologico- simbolica all’unità della presenza, mai data una volta per tutte, laddove questa pare sfaldarsi come centro di decisione morale. De Martino, mediante l’analisi etnologica di alcune ritualità magico- religiose in cui il corpo è investito di potente carica morale, fu in grado di mostrare come «la fissazione della forza personale in questa o quella parte del corpo costituisce di per sé una pedagogia della presenza, toglie l’esserci dal suo stato di dispersione o di diffusività illimitata, e

101 apre il passo a una centralizzazione e subordinazione unitaria».449 Nel mondo magico, ad esempio, per motivi storici che più avanti affrontiamo, l’unità sintetica della presenza si manifesta storicamente come labile, scarsamente garantita rispetto a quanto invece accade, almeno nell’ordinario, nel mondo razionale moderno-occidentale in cui il dominio della natura è alto. Accade, così, che nel mondo magico (inteso come orizzonte storico in cui la magia è fondamentale esperienza culturale) l’unità morale della presenza si appoggi, per mantenersi nella storia, all’unità fisiologica del corpo “valore”, un po’ come il rimo cardiaco o l’espressione manuale si ricomprende nella ripetizione stagionale o nel movimento solare. Nel mondo magico, allora, «alla fondamentale esperienza di una presenza in tensione, che si scarica malignamente e che va trattenuta, riconquistata, consolidata, padroneggiata e diretta si riattaccano le rappresentazioni magiche relative al proprio corpo».450 Sublimata in forza magica passante per il corpo, la forza morale della persona si mantiene, pur nell’asservimento ad una riduzione corporea che si erge al formale:

Attraverso gli orifizi naturali (narici, bocca, orecchie ecc.) la forza della persona può fuggir via, così come può entrare qualche influenza maligna. In tal guisa il rischio è fissato, e la fissazione rende possibile il riscatto operato da credenze e da pratiche compensatrici e liberatrici. Valga un esempio: la scatofagia magica procede dalla rappresentazione e dalla esperienza del defecare come perdita della forza personale e come bisogno di reintegrazione mercé la reincorporazione della forza sfuggita. D’altra parte la liberazione dell’angoscia esistenziale magica può svolgersi in forme più mediate, e cioè attraverso il padroneggiamento, l’incremento e l’impiego regolato di questa forza: per questa via la forza maligna e insidiatrice si trasforma in una forza benigna, in un potere che è a disposizione dell’uomo. I cosiddetti “ornamenti” del naso, delle orecchie, delle labbra ecc. sono in realtà dei mezzi magici che, all’ingresso degli orifizi naturali, sorvegliano l’ingresso o il deflusso incontrollato della forza, costituendo in tal guisa un compenso all’angoscia esistenziale. L’alito che è emesso dalle narici è “forte”, è una forza che si scarica: il saluto mediante il bacio o lo sfregamento della punta del naso procede dalla necessità di accordare o comporre le rispettive forze che l’alito libera. Padroneggiare la forza dell’alito, consolidarla, utilizzarla e dirigerla è un tratto molto diffuso nel mondo magico: col proprio alito si può uccidere, difendersi da una malia, rigenerare e plasmare.451

Altre importanti esperienze in cui il dover esserci per la valorizzazione intersoggettiva si affida tutto e urgentemente al corpo “morale” sono senz’altro, in modo meno radicale, il compianto funebre lucano e, in modo ancor più esigente, l’esorcismo coreutico musicale del tarantismo, studiati sul campo da de Martino entro l’ottica filosofica della crisi dell’ethos. Su entrambi torneremo più avanti, con più precisione. Nel compianto rituale la “crisi del cordoglio”, che nella situazione luttuosa rischia seriamente di compromettere la coscienza umana nella sua affermazione

449 E. de Martino, Il mondo magico…, cit., pp. 116-117. Corsivo mio. In proposito, lo studioso napoletano riporta una

citazione di Werner Heinz (tratta dal suo: Einführung in die Entwicklungspsychologie, Leipzig, 1933, p. 380), in quanto autore che pone in rilievo, come scrive de Martino, la “struttura complessa, diffusa e labile della persona primitiva”: “Mentre originariamente ogni singola parte del corpo contiene in sé l’essenza della persona, in fasi più elevate di sviluppo del pensiero vediamo formarsi una articolazione in parti magicamente importanti, una centralizzazione e una subordinazione nel senso di un nocciolo e di una scorza della persona”, ivi, nota 81.

450 Ivi, pp. 115-116. 451 Ivi, pp. 165-166.

102 morale, si appoggia alla mediazione di una controllata corporeità rituale: per mezzo dell’oscillamento rimico del busto e della voce modulata in verso poetico,452 si risolve il doppio rischio dell’ebetudine stuporosa e dell’esplosione parossistica che colpiscono chi piange in modo cifrato e irrelato, ovvero senza orizzonte iconico. Se in questa crisi, per via dell’impotenza morale che comporta, la voce umana può ridursi al pianto fisiologico irrelato e da qui regredire perfino ad ululato animale, mentre i gesti umani possono annientarsi in violento furore autodistruttivo, giunge in soccorso la presenza rituale del pianto, che affida anzitutto alla corporeità della lamentatrice il riscatto morale del corpo piangente: il planctus irrelativo, così, si riplasma in “tecnica del piangere” mediante una reiterazione oniroide e controllata tutta inscritta tra la voce e il gesto “ancora” umani, con mimica e gesticolazione prescritte e obbligatorie: «Quando si deve eseguire il lamento bisogna sciogliersi le chiome: le chiome sciolte fanno parte del “modello” della lamentatrice in azione, e il modello va rispettato con fedeltà rituale. Durante l’esecuzione il lamento è accompagnato a un determinato movimento ritmico del busto a destra e a sinistra, come per una ninna-nanna, o avanti e indietro, con appropriati gesti delle mani, secondo il modello di un discorso particolarmente vibrante e impegnato».453 Ma ancor più trasfigurato nella potenza culturale del simbolo è il corpo della tarantolata, espressione morale di un rimorso biografico e, pertanto, principale risolutore di una scelta mancata che “reclama” perentoriamente rapporto con la storia. Accadeva dunque che, dilaniate da rimorsi morali, le contadine salentine trasferissero tradizionalmente nel loro corpo il peso di una scelta abdicata ed espulsa dalla coscienza (il “rimorso”), dove all’oblio del suo ricordo corrispondeva l’effettivo emergere nel corpo-taranta della sofferente quell’infedeltà alla storia riplasmata in “morso”. I rimorsi si vivevano, obliati nel corpo della tarantata regredente in modo controllato alla bestia, come morsi aracnoidei, dove il corpo stesso veniva chiamato in causa a farsene carico –mediante una danza rituale- e a decidere per la loro risoluzione. «La danzatrice viveva, dunque, la sua identificazione con la taranta, era asservita alla bestia, danzava con essa, anzi era la stessa bestia danzante».454 In questa momentanea e protetta regressione corporeo-rituale della persona allo stato animale, il segnale più forte del ritorno alla natura, oltre alla contorsione del corpo che mima i comportamenti di un insetto aracnoide,455 è la perdita della primordiale capacità

452 «Queste sillabe emotive costituiscono per così dire germi di recessione parossistica, ma contenuta e dominata in

una semplice sillaba emotivamente carica che viene assegnata all’inizio del verso con vari gradi di integrazione rispetto al metro del verso stesso, e al ritmo della linea melodica con cui il verso è cantato», E. de Martino, Morte e pianto

rituale…, cit., pp. 115-116.

453 Cfr ivi p. 89.

454E. De Martino, La terra del rimorso, cit., p. 67.

455 «L’orchestrina attaccava la tarantella, e la taranta che giaceva supina al suolo, cominciava subito a consentire ai

suoni muovendo a tempo la testa a destra e a sinistra: poi, come se l’onda sonora si propagasse per tutto il corpo, cominciava a strisciare sul dorso, spingendosi con il moto delle gambe fortemente flesse e puntando al suo alternativamente i talloni. La testa continuava a battere violentemente il tempo, e lo stesso movimento delle gambe partecipava rigorosamente al ritmo della tarantella. La tarantata compiva così, a braccia allargate, qualche giro nel

103 di stazione eretta e, come nel cordoglio che si annienta nel pianto, del linguaggio. «Queste figure mimavano visibilmente un essere incapace di stazione eretta e che cammina mantenendosi quasi aderente al suolo»;456 e, nel corso della crisi, emettono grida stilizzate, da de Martino definite “il grido della crisi”, che segnano il degradarsi della voce umana al guaito animale, fino a un vero e proprio abbaiare canino.457 Ma, come scrisse in altro contesto lo studioso napoletano, la storia culturale testimonia come «gridi di crisi trovarono orizzonte in numi e diventarono gridi rituali destinati a quei numi».458 Ed infatti, il corpo prima o poi dovrà restituire alla coscienza la capacità di riscatto morale. Così, dall’identificazione con la bestia, la tarantolata compie il passaggio alla fase in piedi della danza,459 dove stavolta il suo stato è simile a quello oniroide controllato della lamentatrice (tiene gli occhi socchiusi, come sonnambula), dando inizio ad un corporeo distacco agonistico con la bestia che si conclude, per la tarantolata, con l’uccisione vittoriosa del ragno, ovvero con il suo confermarsi nella storia umana come persona.

Ciò che de Martino lascia intendere da questi esempi di valore “incorporato” è che nella persona umana quanto più la forma abdica alla storia, tanto più la materia biologica –come ultima spiaggia del mantenimento personale nella storia- si eleva a forma, cioè è chiamata in causa a supplire alla forma, alla scelta dotata di valore. Come prossimamente approfondiremo, in questi casi accade che quanto più la persona “non agisce”, essa venga “agita da”, dove il nuovo agente, simbolizzato in bestia o demone o nume o quant’altro, è sempre il corpo. In tal senso, il corpo è ciò che in extremis salva l’uomo dal rischio di un suo naturalizzarsi. Ma questa non può essere certamente la norma: o è malattia (poiché la salute è materia che si innalza alla forma e non il contrario), oppure, come nei casi ora accennati, è riplasmazione della malattia in cultura “rituale”, ben riuscita reintegrazione della crisi nella storia. Il corpo della persona è sì già cultura, già corporeità, ma la scelta al valore deve essere emergenza della coscienza intenzionale, che nel corpo è certamente inscritta ma che ad esso non può ridursi. Se nel caso dei corpi culturalmente riplasmati dalla tradizione, come appena visto con il corpo “magico”, quello “lamentoso” e quello

perimetro cerimoniale: poi, improvvisamente, si rovesciava bocconi , le gambe divaricate immobili, le braccia piegate ora sotto e ora davanti al busto, la testa sempre in moto ritmico con la gran chioma in tempesta», ibidem.

456 Ibidem.

457 «La tarantata aveva gradito un po’ di cibo durante il riposo di mezzogiorno, e nel corso delle prestazioni

pomeridiane aveva ‘abbaiato’ più volte, cioè emesso dei gridolini non troppo dissimili dall’abbaiare del cane», ivi, p. 71.

458 E. De Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 134.

459 Al momento di identificazione col ragno «seguiva l’altro di prevalente distacco agonistico: la tarantata si levava in

piedi di scatto, e percorreva più volte il perimetro cerimoniale con un vibrante saltellato semplice o doppio, eseguito per qualche tratto anche da ferma, e componendo di tanto in tanto alcune note figure della tarantella tradizionale, mediante un fazzoletto colorato che aveva nelle mani […]. Durante questa fase come del resto nella precedente, la tarantata osservava rigorosamente il ritmo; i piedi danzanti battevano il suolo sempre 50 volte ogni 10 secondi. Infine dopo una durata variabile, ma non superiore al quarto d’ora, l’intero ciclo coreutico volgeva al termine», E. de Martino, La terra del rimorso…, cit., pp. 67-68.

104 “tarantolato”, dalla materia corporale umana –quale luogo di valori, di regola, di distinzione categoriale, di relazione- emerge il riscatto morale della persona che si “gioca” l’ultima spiaggia culturale per obbedire all’ethos e alla sua intrascendibilità, accade anche che questo non sia più possibile; e che dal corpo emerga solo e soltanto la signoria del vitale che, senza più reintegrazione nella storia, si mostra nella sua nudità (nel suo “nulla”, direbbe de Martino). Se è dal corpo che la persona inauguralmente emerge, di contro esso è l’ultimo “luogo” da cui la persona si dilegua.

E così l’infedeltà all’ethos proprio della psicopatologia (che qui solo accenniamo per poi “meglio” tornarvi) coinvolge «innanzi tutto la propria persona morale e intellettuale, per investire poi il proprio corpo, gli altri, il mondo. Non si ha più pensiero, cuore, sentimenti, nome, età, non si ha più stomaco, lingua, cervello, testicoli, sangue, pene; non si ha più parenti, amici; tutto porta il segno della morte, terra, stelle, alberi, stagioni».460 E quanto più una presenza si ammala come impotenza intenzionale, tanto più il corpo emerge irrelato e aniconico, tendente cioè alla ripetizione naturale senza riplasmazione valoriale: coinonia rischiosa col tutto, ecolalia, ecoprassia sono manifestazioni della psicopatologica che testimoniano di questo crollo al naturale, di questa solitudine animale, di questo ripiegamento su se stessi che solo nella dimensione propriamente vitale è normalità e salute, costituendosi nell’uomo come inautenticità e malattia; come presenza “passata” costretta a rivivere un passato critico non oltrepassato nella forma della ripetizione biologica non riplasmata nel valore. Nella follia l’uomo non è più regola ma ripetizione, dove il vitale corporeo si erge a forma e il circolo dell’ethos –vedremo meglio- si riduce a circolo ripetitivo vitale in cui il corpo detta la sua egemonia.Nella catastrofe del mondo «singole parti del corpo sono sentite enormi, e il resto si riduce ad appendice; le distanze tra i muri della camera aumentano sino a centocinquanta metri, al di là vi è il deserto; lo spazio corporeo e quello esterno divengono irrelati (impressioni di passare da una dimensione a un’altra)».461 E ancora, «la posizione degli oggetti non è come dovrebbe, gli uomini sono burattini, fantocci, i loro movimenti hanno la lentezza di una fiaba, di un sogno».462 Lo stesso istituto culturale del pudore, principale responsabile della differenza tra corpo biologico e corporeità, si disintegra e sregola in una vicenda fisica per cui ora il malato mentale si barrica in una fisica chiusura di sé e ora disperde quella intima guarentigia che lo difende da ogni rischio di biologica naturalizzazione, «nel senso che la propria corporeità ora diventa barriera troppo rigida che separa dal mondo senza possibilità di comunicazione significante,

460 De Martino E., “Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche”, in Nuovi Argomenti, n° 69-71, marzo 1965, p.

147.

461 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 588.

462 Ibidem. Considerazioni sempre in merito all’opera già citata di Merleau-Ponty. De Martino ne riporta questo passo:

«Se il mondo si polverizza e si spaesa (se dialoque) ciò avviene perché il proprio corpo ha cessato di essere corpo conoscente, d’avviluppare tutti gli oggetti in una presa unica, e questa degradazione del corpo in organismo deve essere riferita allo sprofondare del tempo che non si leva più verso un avvenire e ricade su se stesso», ivi.

105 ed ora diventa una barriera troppo fragile caoticamente attraversata dal mondano, senza rispetto di una sfera intima mantenuta come tale. In altre parole la pubblicità dell’esserci-nel-mondo o si ritira tagliando i ponti dietro di sé oppure attenta la presenza nel suo ultimo frammento di intimo possedersi».463 E quando questa crisi consumante si avvia verso la nuda natura, vanno a coincidere miseramente «il già consumato annientamento del proprio corpo e della propria persona, il miserando non-esserci esistenziale di cui si porta il peso immane e la colpa inespiabile».464 E’ la fine del mondo, il Weltuntergangserlebnis, che rifuggita la consapevolezza e compromessa anche la coscienza, giunge infine a “tentare” il corpo; e a trascinare l’umanità alla natura-in-sé da cui doverosamente, faticosamente ascendeva. Ma di questa tentazione e di questa colpa torneremo ben più avanti, e con maggior riguardo.

463E. de Martino, La fine del mondo…, cit., pp. 89-90.

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PARTE II

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