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FISIOLOGIA DEL PERDERSI NEL MONDO (LA REGOLA OVVIA DEL “SI FA COSI’”)

PERSONA E CULTURA

IL TRASCENDIMENTO COME FONDAZIONE DEL MONDO DEI VALORI (PERSONA E STORIA)

4.3 FISIOLOGIA DEL PERDERSI NEL MONDO (LA REGOLA OVVIA DEL “SI FA COSI’”)

Ora, non solo nella dimensione morale della persona vi è una fisiologia del perdere un mondo, ma vi è altresì un fisiologico “perdersi nel mondo”, cioè costituisce esperienza “sana” perdersi nella sua ovvietà, nella sua domesticità già “preparata” da altri uomini prima di noi. De Martino nello specifico scrive di un “perdersi salutare”, di un perdersi come “abilità”.504 «Se io, per esempio, non mi perdo, non mi dimentico, nella abilità abitudinaria della stazione eretta non potrò mai disporre della presentificazione per altre forme di utilizzazione che presuppongono la stazione eretta, né potrò presentificarmi in modalità personali del camminare, etc.».505 Grazie al fatto che io mi perdo nel camminare, posso essere in grado, ad esempio, di salutare un amico mentre passeggio. Si tratta, dunque, «di un dimenticare sui generis: l’abilità è conservata ma eseguita al di sotto della soglia della coscienza attuale, e d’altra parte l’abilità è evocabile per la coscienza attuale tutte le volte che i suoi limiti di operabilità sono messi in causa o tutte le volte che le circostanze mi impongono di inventare un modo di camminare che oltrepassando la semplice stazione eretta si modelli secondo particolari espressività legate alle circostanze stesse».506 L’oblio fisiologico per

500 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 172.

501 «Certamente questa difficoltà può al limite convertirsi nella perdita “del” mondo, sembrando che manchi ogni

forza per oltrepassare il “mondo” che sta morendo e che proprio esso, e soltanto esso, sia l’unico mondo possibile: che è il caso di Catone che si tolse la vita perché, come dice Hegel, la sua anima non era più grande della Repubblica Romana, onde non potè sopravvivere alla sua rovina», ibidem.

502 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p., p. 631. 503 Ibidem.

504 Cfr E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 137. 505 Ivi, p. 145.

114 questo è “saggio”, positivo e “felice” in quanto anche in esso vi è intenzionalità. Io “dimentico” il mio camminare e grazie a questo oblio “ricordo” il mio essere in grado di salutare qualcuno mentre cammino. «Non vi è una intenzionalità anche nel “dover” dimenticare, nell’affidarsi a, per rendere possibile l’individuato ricordare e presentificare? Ed il perdersi, nei limiti della valorizzazione economica, non è una abilità? […] Chi potrà contestare il valore di questo oblio liberatore di memorie e di percezioni?»507 Così per de Martino l’abilità di “imparare a dimenticare” è saggezza poiché capacità tutta umana di serbare «tuttavia il dimenticato nei comportamenti abituali, nelle abilità tanto agevoli da poter essere lasciate cadere dalla coscienza attuale, nell’affidarsi crepuscolare all’anonimia del si-fa-così e del si-è-sempre-fatto-così».508

Gli altri vivono sempre e comunque in me già a partire dal mio corpo in cui è inscritto quel “si fa così” a partire da cui gli altri si fanno “anonimi” mentre la mia fedeltà a quest’anonimia emerge come iniziativa ovvia, che appare soltanto mia ma che è “di tutti”: si cammina in posizione eretta, si mangia con la forchetta e il coltello, si guida sul lato destro della strada, ci si ripara dalla pioggia aprendo un ombrello; e questo “ovvio valorizzare” ci accompagna anche nelle iniziative “più impegnate”, come quelle per cui: si cuoce la pasta nell’acqua che bolle a 100 gradi (regola fisica); quindi fino a quelle meno ovvie: si legge uno spartito musicale seguendo le norme del solfeggio (regola musicale), si calcola l’area di una figura geometrica moltiplicando la base per l’altezza (regola geometrica), si compone poesia conoscendo i generi di verso e di figure retoriche (regola metrica)… Insomma: si fa così. Un anonimo “si fa così” che in me fedelmente prosegue e si incrementa, emergendo talvolta come nuova iniziativa che andrà a costituire, a sua volta, il “si fa così” altrettanto anonimo per le generazioni che mi succederanno negli anni e nei secoli.

Per essere-nel-mondo, per emergere come esistenza, per esserci concretamente, occorre

prima di tutto doverci essere, come fedeltà e come iniziativa e a vari livelli di consapevolezza, in un

certo progetto comunitario di utilizzazione della vita. Si pensi alla utilizzazione del proprio corpo, e alle tecniche relative, e agli ininterrotti trascendimenti per entro i quali soltanto ci siamo come corporeità, molto spesso estremamente agevoli per le abilità acquisite, [che] si compiono nel crepuscolo della coscienza, o che per essere una exis di cui non abbiamo attualmente bisogno ma che all’occorrenza possiamo sempre evocare formano lo sfondo indistinto del normale e immediato sentirsi un corpo. Ora in queste tecniche del corpo opera largamente il Das Man, il “si fa così” condizionato socialmente e culturalmente, l’educazione ricevuta e quindi l’immenso debito che

dobbiamo pagare agli anonimi altri rendendoci noi stessi anonimi in loro.509

507 Ivi, p. 137.Con queste riflessioni de Martino vuole “portar luce in tutta la vicenda Husserl, Heidegger, Sartre, Paci”,

come egli scrive. Questi filosofi, infatti, considerano tutti inautentico il “perdersi” mondano inteso come affidamento all’abitudine. Ma per de Martino «L’anonimia della quotidianità diventa inautentica nel senso heideggeriano solo rispetto al rischio di ridurre ogni oltre all’utilizzabile, e di non andare oltre esso», ivi, p. 92.

508 Ivi, p. 138. 509 Ivi, p. 89.

115 Per lo studioso, dunque, questo perdersi “fisiologico” nell’anonimo das man, è modalità autentica dell’esistere;510 «questo “negativo” è in realtà un positivo, e questo oblio racchiude una liberazione: l’“oblio nel mondo” è un momento necessario del “progetto comunitario dell’utilizzabile”, progetto che comporta fra l’altro la salutare possibilità di dimenticare».511 Nello specifico, questo “oblio degli atti nei fatti”, «il conservarsi degli atti nell’automatismo delle abitudini, nella esteriorità fisica delle cose, nell’anonimia del sociale»,512 costituisce la principale “potenza liberatrice” dell’economico. Ci consente, infatti, «di essere col lavoro degli altri e del passato infinitamente oltre la coscienza attuale che possiamo averne, e restar disponibili come coscienza attuale senza ricominciare sempre da capo su tutto il fronte dell’utilizzazione della vita»,513 senza sprofondare nel “punto zero” dell’esperienza mondana che corrisponde, per lo studioso, alla morte biologica o alla follia.

Felice oblio quello per il quale io non debbo totalmente impegnarmi ogni momento a mantenermi nella stazione eretta, ma avendola appresa da infante con l’aiuto degli adulti, e avendola appresa la specie umana già con gli ominidi, io posso “perdermi” in quel mondano che è l’abitudinario camminare sulle gambe restando “disponibile” per fare una passeggiata conversando con un amico514.

510 De Martino, per le stesse ragioni da cui si distacca da Husserl (cfr nota successiva) rifiuta l’inautenticità del das

man heideggeriano: se per Heidegger era inautentica una vita immersa nel mondano “si fa così”, per de Martino è

inautentica –vedremo meglio alla sezione seguente di questo lavoro- una vita che si distacca dall’ovvietà mondana (sia come rifiuto che come impotenza), essendo il “domestico” la base indispensabile per gli umani trascendimenti, quindi per il compiersi morale della persona. A partire, dunque dal fatto che «la quotidianità media dell’esserci –di cui parla Heidegger- confonde diversi concetti interpretativi», è opportuno «considerare l’esserci inautentico come modo positivo di esserci-nel-mondo» in quanto «la medietà, o quotidianità media […] racchiude, seppur nel modo dell’inautenticità, la struttura a priori dell’esistenzialità» , E. de Martino, ivi, cfr pp. 100, 101, 102.

511 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 644. Si consuma, qui, lo stacco più significativo tra de Martino e Husserl

circa l’impossibilità, secondo de Martino, di cogliere le “cose” al di fuori della valorizzazione. Se per la fenomenologia husserliana il “mondo in sé” è ciò a cui si deve tornare (“tornare alle cose stesse”, al mondo-della-vita, alla lebenswelt) compiendo un’epochè (Weltvernichtung) rispetto alle conoscenze e ai giudizi del mondo, dove appunto l’ovvietà mondana è, in Husserl, un “negativo” in cui si è obliati e da cui doversi riscattare, per de Martino l’ovvietà è, al contrario, “oblio positivo” in cui ci si deve perdere. “Perdersi per trovarsi”, è il motto demartiniano, ovvero perdersi positivamente nella tradizione (das man), unica condizione per “cominciare” a ritrovarsi come persone (la tradizione, infatti, non esaurisce il trovarsi della persona). Scrive lo studioso in proposito: «Zu den Sachen selbst: al mondo della vita prima della riflessione categoriale. Ma che cosa può voler dire questo? Tuffarsi ingenuamente nella vita l’uomo non può, perché nulla garantisce che la descrizione più ingenua non sia carica di condizionamenti culturali e storici, quindi esibita come ingenua solo perché questi condizionamenti sono semplicemente inconsapevoli, non esplicitati. E d’altra parte: metter fra parentesi nel senso di un sospendere tutte le categorie della valorizzazione non dà la

Lebenswelt ma la destrutturazione di tutto il mondo storico-culturale nel quale si è inseriti, fino al limite dell’arbitrario

e del caotico, anzi sino al limite del nulla», Scritti filosofici, cit., p. 124-125.

512E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 644. 513 Ibidem.

514 Ibidem. Il “felice oblio” è, appunto, espressione di superamento delle posizioni husserliane sul “negativo oblio”.

Scrive in proposito Berardini: «Uno dei punti più meditati da De Martino durante la lettura della Krisis fu quello (centrale, di quest’opera) relativo al problema dell’alienazione dell’uomo coincidente con l’obliante distacco dall’originario “mondo della vita” (Lebenswelt) operato dalla prassi che, per lo più, apprende il mondo in quanto ‘cosa’, e in particolare da quella “prassi teoretica” che è la scienza naturalistica, la quale, riducendo la realtà a un insieme di fermi oggetti, di semplici presenze, ha da tempo ridotto a fermo oggetto, a semplice presenza anche l’uomo. In questo senso, per Husserl, “le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto”. […] Da qui il compito precipuo della fenomenologia, che si precisa nel “trasformare l’apparire falso in apparire vero, cioè in fenomeno

116 Per la persona, scrive infatti de Martino, non vi è mai un’“esperienza zero” del decidere, non c’è mai pura possibilità ma libertà nella fedeltà: l’uomo mai deve decidere al valore nella solitudine di questa decisione. Per tale motivo non è, l’esperienza mondana fisiologica, esperienza di angoscia: semmai è l’esperienza della fine mondana (su cui poi ci soffermeremo) a generare angoscia. Abbiamo già detto che l’uomo non è esistenza “gettata” e, per questo, chiamata al progetto, al distacco; ma è già progetto, trascendimento. È la condizione di gettatezza di matrice esistenzialista, sostiene de Martino, a predicare l’assenza di una “tabella di valori” e generante, a sua volta, la responsabilità totale di una decisione che angoscia l’uomo schiacciato dalla moltitudine di possibilità mondane, dominato dalla grande solitudine e dall’immenso silenzio in cui la sua scelta dovrebbe emergere.515 L’esperienza zero del mondo, il ricominciare da capo per l’uomo resta impossibile perché mai egli è “gettato nel mondo” così come l’animale è gettato nell’ambiente, essendo il mondo per l’uomo già “mondo storico”. L’uomo, ribadiamo, non è compiuto in se stesso come la bestia e proprio per questa sua originaria incompletezza, che lo costituisce come relazione, egli necessita dell’ovvietà di un mondo in cui perdersi, appoggiarsi, completarsi.

Ed il mondo culturalmente costruito è sempre intessuto di memorie, di costumi, di valori trasmessi dall’educazione, di alternative particolarmente modellate, di condizioni in cui sono incorporate le voci, i conflitti, le fatiche, le speranze, le tecniche e gli ideali di innumerevoli esseri umani. L’iniziativa a cui il singolo è chiamato nasce per entro una certa fedeltà a un essere che non è soltanto mio, anche se l’iniziativa può essere solo mia: in ogni caso manca l’esperienza zero, l’assoluto ricominciare da capo.516

Comprendiamo con un esempio “pratico” in che senso l’“ovvietà” dei valori mondani sia un “positivo” indispensabile affinché l’uomo non debba sempre impegnarsi a “ricominciare da capo” dal distacco inaugurale, restando bloccato negli stessi distacchi; ma possa invece progredire nella storia umana dei trascendimenti con proprie iniziative una volta “liberatosi” dall’incombenza di quegli oltrepassamenti potenzialmente affidabili all’ovvietà. Torniamo, dunque, all’esempio del sole. È chiaro come, una volta “addomesticato” dall’uomo, cioè oltrepassato nella utilizzazione, quindi entrato nella sfera del presente umano, il sole diventi “ovvio”, ovvia realtà, e «come ovvietà

evidente nel quale è presente la cosa stessa, l’essere stesso e non un essere che è altro dall’apparire” […] De Martino

leggeva nel programma fenomenologico (il programma di «giungere alle cose stesse» e di oltrepassare così il modo mistificante di ‘apparire’ degli enti sotto il segno dell’ovvietà della prassi naturalistica); leggeva in ciò il mancato riconoscimento di quell’ethos trascendentale del trascendimento che, al contrario, promuove l’azione della forma economica e che dunque pone l’ovvietà del mondo, e così l’anonimato della abitudine, in quanto valore – come opera culturale.», S.F. Berardini, op. cit., pp. 271-272

515 Specifica de Martino, in polemica con l’esistenzialismo negativo tedesco, che «La Geworfenheit, l’essere gettato, la

responsabilità totale della decisione, l’assenza di una “tabella dei valori” o di verità scritte in cielo, l’uomo come progetto, l’angoscia come coscienza della possibilità sono temi esistenzialisti che caratterizzano l’epoca in cui sono crollati i simboli della tradizione giudaico-cristiana, l’ideale di una natura universale, il piano della storia universale, l’orizzonte del progresso, etc. […] La aberrazione dell’esistenzialismo è proprio questa decisine a partire da zero, questa grande solitudine e questo immenso silenzio in cui la scelta dovrebbe emergere», E. de Martino, Scritti

filosofici…, cit., pp. 153-154.

117 escluso dalla percezione attuale e relegato nello sfondo, lasciando la presentificazione libera e disponibile per altre percezioni dell’utilizzabile. Il sole come utilizzabile non è per fortuna un ente sempre presentificato: viviamo ogni giorno nella luce solare “pensando ad altro”».517 Se dovessi sempre sorprendermi di cosa sia il sole, ogni volta che mi accorgo di esso, e ragionare sulla sua realtà tutte le volte che guardo il cielo, non sarei in grado di svolgere ulteriori trascendimenti. È grazie a questo processo di fisiologico “oblio” che noi possiamo operare milioni di altri umani distacchi “sotto il sole” senza essere impegnati ogni volta a distaccarci dal sole e senza, d’altra parte, effettivamente “perdere il sole”. Ed infatti, specifica de Martino, «la “ovvietà” del sole, la disindividuazione della sua storia culturale, il potercene dimenticare per volgerci ad altro, il relegarlo nell’ambito del come-se inconsapevole, costituiscono non già un “perdere il sole” o un “perdersi nell’abitudinario relativamente al sole”, ma, al contrario, un liberarci dal sole come

percezione utilizzante attuale, un conservarlo nel mondo di cosa già oltrepassata nell’utilizzazione,

onde è possibile dirigere la intenzionalità ad altro, che sta nella nostra vita quotidiana come molto meno ovvio».518 Ed è solo nella misura in cui, avverte de Martino, il sole diviene ovviamente utile per un anonimo sforzo culturale umano, che esso può essere inconsapevolmente sfruttato durante il nostro operare quotidiano; e quindi silenziosamente si oblia, questa immensa storia dei distacchi dal sole, nel tetto di una casa o di una tenda che ci ripara dai raggi scottanti, nel fuoco di un caminetto che ci dà calore allo stesso modo di come farebbe il tepore di caldi raggi, o nella illuminazione artificiale quando l’astro ci abbandona ciclicamente per lasciare il posto alla notte. Il sole vive, insomma, in tutte le ovvie e “scontate” tecniche umane rivolte ad esso sia per evocarlo che per allontanarlo; una storia di umani progetti intorno alla natura solare «che furono eseguiti una volta e diventarono perciò progettabili o atti a diventare stimolo e appoggio per nuove utilizzazioni e progettazioni».519 E pertanto, «che cosa sono i “fatti” in cui “siamo perduti”, sepolti nell’inconscio, o ricacciati ai margini della consapevolezza, o subiti passivamente come “dati”? […] Non sono forse antichi o antichissimi atti divenuti ormai solo abitudini di atti utilitari, o indici di atti utilitari, possibili, o cose materiali in quanto resistenze che racchiudono nella forma perentoria della esteriorità fisica ciò che possiamo fare o non fare secondo un progetto comunitario dell’utilizzabile?»520 Ma anche l’ovvietà del sole, come ogni trascendimento, è destinato al rischio di perdersi anziché offrirsi al nostro fisiologico perderci in esso. Originatasi a partire dall’inaugurale progetto economico, l’ovvietà solare resta perennemente soggetta a disperdersi qualora venga bruscamente richiamata in causa la sua valorizzazione; ad esempio durante un’eclissi:

517 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 649. 518 ivi, p. 650.

519 Ivi, p. 646. 520 Ivi, p. 644.

118 Del resto il sole è ovvio solo in modo relativo, cioè in rapporto ai limiti in cui è riuscita la sua acculturazione utilizzante, e in cui esso circoscrive una sfera di comportamenti utili quanto ovvi da poter essere eseguiti senza apprezzabile impegno problematico: apriamo le finestre alla luce del mattino nella libertà di poter concentrare la nostra attenzione su altro. Ma per poco che tocchiamo i limiti di operabilità culturale del sole (ed ogni civiltà, ogni regime di esistenza pone diversamente questi limiti), l’astro ritorna ad emergere nella presentificazione intenzionante, la sua storia culturale deve essere ripresa nei limiti cui è giunta, per riadattarla alla situazione critica, per decidere e oltrepassare tale situazione con una iniziativa in varia misura “originale”521.

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