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SU ALCUNI FONDAMENTALI TRASCENDIMENTI DI ESPERIENZE CORPOREE IN COMUNE COL MONDO ANIMALE (NASCITA, RITMO CARDIACO, SONNO, FAME, MORTE).

PERSONA E NATURA

IL CORPO UMANO TRA NATURA E PERSONA

3.3 SU ALCUNI FONDAMENTALI TRASCENDIMENTI DI ESPERIENZE CORPOREE IN COMUNE COL MONDO ANIMALE (NASCITA, RITMO CARDIACO, SONNO, FAME, MORTE).

Dalla nascita alla morte, e a partire dalla coerenza economica e dalla regola sessuale, il corpo umano resta luogo inaugurale di manifestazione personale e in cui «si coglie questo tema della ‘continua nascita’ (cioè del “trascendere sempre rinnovato”)»391. Nell’uomo ogni aspetto del ciclo biologico non è mai evento naturale in sé ma già aperto alla relazione e al valore come spazio indissolubile di incontro di ethos e logos. Nascere, respirare (battito cardiaco), mangiare, dormire, parlare, muoversi, toccare, e perfino morire non sono, nell’uomo, esperienze analoghe a quelle dell’animale - il quale pure ne è sottoposto - in quanto tutte “piene” di valore. Il corpo che nasce e che pulsa nei suoi battiti cardiaci, che parla, che dorme e che mangia, che cammina e che tocca\conosce\sposta con le mani, che si ammala e che muore divenendo cadavere è già corpo relazionato, dialogico, pubblicamente orientato, mostra de Martino; è corpo che si apre ad un evento cosmogonico, che impara il calendario dell’esistere, che rifugge dalla “notte di Valpurga” in attesa della luce, che impara la convivialità quotidiana o festiva dell’esistere, che si avvia a prendere la corriera per andare a lavoro, che racconta o canta, che scrive o che dà una carezza; è corpo-tomba, infine, che testimonia al mondo quell’evento apocalittico in cui prima o poi la natura tornerà a riprendersi quell’animale umano che la cultura da sempre si portò via con sé. Vediamo, in breve, queste esperienze universali, insieme biologiche e morali, ripetitive e regolate. E cominciamo con quelle che l’animale umano condivide con gli animali-bestie: la nascita, la respirazione, il sonno, la morte.

Scrive de Martino che l’esperienza somatogonica della nascita è già per la persona esperienza cosmogonica mediante cui l’uomo esperisce la sua “prima patria”, costituita dal corpo della madre con il suo calore, il suo sorriso, il suo seno, la sua voce, il suo cullare. «E il mondo apparve per la prima volta nei confini segnati da quel contatto al di qua dei quali cominciava a delimitarsi il possesso del nostro corpo, e oltre i quali si stendeva la affettuosa operabilità del corpo

390 Ivi, 545.

87 materno»392. Ora, tale “calore biologico” è già trasceso dall’uomo “in fasce” in calore affettivo, quello appunto domestico della famiglia in cui si nasce e si trascorre la puerizia, prima patria culturale in quanto inaugurale condizione della nostra individuazione. Da qui per l’uomo hanno inizio le sue prime conquiste morali:

Nello sfondo affettivo di quel calore (e in sua memoria noi parliamo per antonomasia del “calore degli affetti”) conquistammo la nostra bocca succhiando il latte, e come bocca emergemmo nell’ingordo piacere della nutrizione. Sotto la carezza della mano materna si venne descrivendo e precisando la superficie del nostro corpo, così come per l’immagine del volto materno allenammo in modo eminente la capacità di concentrare lo sguardo e di rivelare dalla nebbia del mondo la prima ondeggiante figura: incipe, parve puer, risu cognoscere matrem. Il primo spazio percorribile si dischiuse per noi con quello che la madre cullandoci ci offriva e sottraeva in tempi uguali, addolcendolo con le sommesse iterazioni della ninna nanna: uno spazio modello di sicurezza, di cui ci era risparmiata l’iniziativa e in cui l’andata nei due sensi era seguita da un ritorno che sempre di nuovo la cancellava, mentre la prima voce domestica ci aiutava con la sua melopea a renderci accettabile questo divenire in economia. Per questo spazio e per questo moto sicuro al pari dell’orbita di un pianeta, conquistammo la prima possibilità culturale –e non soltanto biologica- del sonno umano, appunto perché la dolce altalena ci assimilava ai ritmi cosmici dominati dall’eterno ritorno (Timeo, 88d-89a). Infine attraverso la madre conquistammo anche il pianto e il dolore, per il suo seno desiderato o conteso o perduto, e soprattutto per la sua figura scomparsa, quando ebbe inizio la dura pedagogia dei distacchi e cominciammo ad esperire la aspra norma della iniziativa umana che rende irreversibile il tempo.393

La nascita è, nell’uomo, evento drammatico, inaugurale emergenza nella storia, già sottomessa all’ethos doveroso. La nascita umana non è la nascita animale, è doverosa conquista di spazio e tempo umano; ma anche di pianto e di sorriso, di nutrimento e di sonno. E così, a partire dalla tiepida pelle materna, originano le prime conquiste culturali, gli inaugurali “distacchi”, dove tutto questo «fu la aspra scuola di un distaccarsi che sarebbe divenuto la regola fondatrice della vita»394. Non solo il corpo da allora fu “ovviamente nostro”, ma pure si mantenne «in questa ovvietà nella misura in cui custodiva il tesoro sepolto di queste elementari memorie somatogoniche e cosmogoniche, e restava partecipe di quel vario trascendere sempre rinnovato a cui il destino umano ci chiamava, senza soluzione di continuità»395. Nasce l’uomo e cresce nelle braccia materne, dove è il suo respiro cadenzato, fino alla morte, il principale moto biologico del suo esistere; quando nel buio nulla più giunge a cullarlo o ad ascoltarlo o ad allattarlo, il suo divenire “sempre diverso” trova riparo negli argini biologici di un ritmo cardiaco cadenzato. Il cuore che de Martino coglie nella valorizzazione non è quello “medico” delle sistole e diastole cardiache che concentrano e distribuiscono; la stessa cardiologia, in quanto “scienza naturale del cuore” –egli confida nei suoi appunti- non coglie il cuore trasceso nel senso di “cuore vissuto dell’esistenza”396. Ed infatti lo

392E. de Martino, La fine del mondo…, cit., , p. 618. 393 Ivi, pp. 620-621.

394 Ivi, p. 619. 395 Ivi, 618. 396 Cfr ivi p. 607.

88 studioso, a partire dal loro concentrare e distribuire sangue, ne intravvede invece il cuore pulsante

dell’esserci, la sede della liberazione di scelte e decisioni, «e ben si comprende come il cuore

vissuto del proprio corpo abbia potuto tramutarsi in simbolo»397. In fondo, per usare una sua espressione, molto prima del cielo il cuore partecipa del tempo, scandendo con il suo pulsare ritmico l’originario “calendario dell’esistere”, che si mostra essere più intimo, veloce e fragile rispetto al distante, lento e stabile ritmo degli astri, di sole e luna, delle stagioni e dell’anno, entro cui il ritmo cardiaco trova la sua protezione. Proprio per la sua regolarità il cuore divenne simbolo dell’ordine morale fin nella sua più alta espressione etica (sede dell’amore, della sapienza, della memoria affettiva, delle virtù, delle speranze), dove la ripetizione biologica sempre si ricapitola in scelta dotata di valore; ma proprio per la sua precarietà, il cuore si andò proteggendo nel ritmo celeste, custode lontano di regole umane a cui votarsi in fedeltà.

Molto prima del cielo e dei moti celesti, il cuore rivela il tempo con viscerale immediatezza: il tempo della calma e della collera, della indifferenza e dell’amplesso, della trepida attesa e della disperazione, della gioia creatrice e del cordoglio, del tenero affetto e della passione devastatrice. Oscure sollecitazioni che non appartengono alla coscienza giungono sino a lui e ne scompensano il sensibile ritmo. Proprio per questa sua viscerale prossimità all’esistere il cuore non può misurare il tempo come il sole e la luna: e le umane civiltà si sono affidate ai ritmi celesti proprio per proteggere con più distesi e stabili calendari il troppo viscerale, rapido e labile calendario del cuore. Tuttavia se l’uomo inscrisse nel remoto tempo del cielo il tempo vissuto del cuore, ciò accadde perché già nel cuore vissuto si racchiude il destino dell’esserci: cioè il mobile raccogliersi dell’essere nel qui e nell’ora della decisione, e il mobile aprirsi dell’essere del qui e dell’ora al compito della valorizzazione intersoggettiva. In queste sistole che concentrano e in queste diastole che distribuiscono sta non solo il cuore come viscera, ma il cuore dell’esserci: e attraverso la distanza e la regolarità del cielo (“il cielo stellato sopra di me”) fu custodita la troppo prossima e precaria regolarità del cuore (la legge morale dentro di me)398.

Se il cuore è il primo orizzonte morale umano, sede di decisioni dotate di valore, il sonno è il primo orizzonte naturale rischioso, esperienza di indistinzione tra umano e non umano poiché impossibilità di realizzazione di quelle scelte morali che il cuore custodisce: esso, solo nell’uomo è “pericolo”; è rischio di retrocessione alla vita animale. Il sonno è “sospensione” momentanea di umani trascendimenti nella cultura, generante quell’angoscia delle tenebre che per se stesse «costituiscono un momento critico dell’esistenza, soprattutto se connesse alla solitudine e al silenzio, come anche al passaggio dalla veglia al sonno»399. Se, infatti, la luce piena del giorno induce gli uomini a “versarsi nel mondo”, come scrive de Martino, ovvero a “inserirsi nella rete di rapporti” che sempre il divenire comporta, col calare della notte, che a sua volta porta con sé solitudine e silenzio, dunque assenza della possibilità della relazione umana (e dei valori intersoggettivi propri del trascendere), «la immediata concretezza del vivere nella storia si viene

397 Ivi, p. 608. 398 Ivi, pp. 606-607.

89 svuotando dei suoi contenuti reali».400 Così, il mondo umano distinto nell’umano dormire va regredendo a caos animale indistinto, che «si configura come quel resto della vita, come quella “natura” non culturalizzata, che la forma socio-economica non comprende nel suo orizzonte domestico»401. Col sonno, dunque, la presenza dilegua, non si possiede momentaneamente (per il tempo del sonno) e il mondo della cultura retrocede al mondo della natura (del “nulla” culturale), tale che «si determina una pressione che spinge fuori della storia, ed è appunto questa pressione che angoscia, rendendo malefica la notte (la notte di Valpurga)»402. Ecco così come l’angoscia del sonno umano riflette quella delle tenebre, la quale «sussiste per una esperienza subalterna del mondo, quando cioè si vive effettivamente in una situazione storica che accoglie nel suo stesso seno

l’al di là della “cieca natura”».403 L’ambiguo statuto degli addormentamenti umani, insieme fonte di riposo ma anche di angoscia, è dunque da ricercarsi, spiega de Martino, proprio in questo rischio che domina il passaggio dalla veglia al sonno così come dalla luce alle tenebre, con tutta la relativa fragilità dei limiti tra cultura e natura, tra umanità e bestialità, tra vita e valore che sempre passano per il corpo desto e dormiente. Da adulti, in mancanza di una ninna nanna regolarizzata “che protegga” dal sonno naturale non valorizzato, «accade talora (ed è esperienza relativamente diffusa) che l’angoscia insorga al limite estremo di questo passaggio, quando si è quasi immersi nel sonno: ci si sveglia di soprassalto, senza una apparente ragione. L’ultimo barlume di coscienza si rifiuta di abbandonare il mondo della storia, e di colpo vi ritorna».404

Circa il trascendimento dell’istinto di fame non conviene soffermarci a lungo, avendolo già trattato nell’inaugurale economico con l’esempio del pane, e le sue possibilità di trascendimento intersoggettivo fino al pane liturgico. Basti solo ricordare che, a partire dal rituale di allattamento materno, già sede di ulteriori conquiste che evadono il mero appagamento della fame, la soddisfazione alimentare nella persona è riplasmata in cultura. Ed infatti, tornando al solito esempio del pane, scrive de Martino che «la soddisfazione ch’io provo per esempio mangiando del buon pane casareccio, profumato e croccante, è un valore in cui la soddisfazione corporea che provo non può essere disgiunta dal modellamento storico e sociale di questa stessa soddisfazione: poiché se è vero che tutti gli uomini hanno fame, il togliersela col pane casareccio è frutto di una scelta comunitaria, di un ordine che non appartiene a me solo e che plasma il mio soddisfarmi quando ho fame»405. Così, mentre il mangiare della bestia resta ripetizione sempre uguale a se stessa, la persona non solo, come l’animale, deve mangiare, ma altresì sceglie quando mangiare, cosa

400 Ibidem.

401 E. de Martino, Scritti filosofici…, op. cit., pp. 68-69. 402 E. de Martino, Storia e metastoria…, p. 171. 403 Ivi, pp. 171-172.

404 Ivi, p. 171.

90 mangiare, con chi mangiare e, talvolta, se mangiare (il digiuno, come tale, è atto peculiarmente umano). Così, di contro al mangiare ripetitivo vitale, per l’uomo vi sono tante “cucine” quanti furono e sono e saranno gli umani trascendimenti della fame nella storia dell’uomo; e mentre il mangiare della bestia rinchiude questa nell’egocentrismo avido del suo immediato soddisfacimento (si pensi ai cani che mal sopportano l’occhio estraneo che li osserva mangiare), le occasioni istintuali di alimentazione per la persona divengono «le conversazioni amabili, la gioia di una buona cena tra amici in una osteria “fuori porta”, la varia vita associativa, il senso della festa vissuta insieme»,406 tutte esperienze, queste, che «non soltanto rendono testimonianza di noi a noi stessi, e ci abituano all’umiltà di un continuo confronto delle nostre idee e delle nostre emozioni, ma formano la nostra persona, ritirandola sempre di nuovo dall’orlo di quell’abisso che è le moi

haïssable, e risospingendola sempre di nuovo, con rinnovato coraggio e sicurezza, verso i verdi

campi della vita».407

Anche il morire biologico si sottrae, nella persona, alla vitalità della bestia. Nel senso che, in modo decisamente più violento dell’esperienza del sonno, «qui si denunzia una tensione eccentrica che travaglia lo stesso circolo della vita culturale e che minaccia di spezzarlo; qui viene messa in causa la stessa possibilità del distacco dell’esserci dalla naturalità del vivere».408 Se infatti il morire animale non sconvolge la vita animale (essendo la bestia già completa in sé e non completantesi, come l’uomo, nell’intersoggettivo), la morte biologica esperita dalla persona nella sua immediatezza contraria all’ethos intrascendibile va a sconvolgere la vita umana, divenendo «un morire incommensurabilmente più grave di quel morire naturale che condividiamo con gli animali e con le piante».409 La morte è per la persona radicale insidia «che solo l’uomo minaccia e che solo l’uomo sa misurare».410 Il corpo umano dell’estinto diviene “osceno” poiché ritorna in forza antistorica alla natura, come corpo animale, come cadavere, tema che «ha trovato particolare rilievo nell’esperienza cristiana, per quanto il corpo tomba è un’esperienza culturale anche non cristiana»;411 esso è scandalo, pietra d’inciampo, segno di contraddizione poiché in esso il cuore non batte, il riso e il pianto lasciano il posto alla fissità espressiva ed esangue, le mani non valorizzano, la struttura eretta cade, la bocca non parla né mangia, il sonno non prevede più il risveglio. «Il cadavere appare una “estraneità radicale”: infatti esso tende a sottrarsi alla potenza formale, e il suo “oltre” –che solo per entro il rapporto formale si determina- sta diventando vuoto. Il cadavere appare una “forza”: infatti, per mancanza di determinazione, i suoi limiti sono entrati in

406 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 602. 407 Ibidem.

408 E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 20. 409 Ivi, p. 19.

410 Ibidem.

91 travaglio, e vanno forzando il rapporto senza trovarlo. Il cadavere è una forza “ostile”: infatti esso, come oggetto in crisi, rispecchia l’alienarsi della stessa energia oggettivante, il che è l’ostile ed il funesto per eccellenza».412 Ma di fronte a tale ostilità la persona pretende di mantenersi come tale, poiché nulla –nemmeno la morte- sfugge alla intenzionalità della sua coscienza: anche il corpo cadavere diviene, pertanto, “ciò che se ne può fare”; la persona si rivolge ad esso già e solo nella valorizzazione. «Il corpo altrui, in quanto portatore di comportamento»413 diventa per me qualche cosa, anche se cadavere, anche se io per lui non sono più oggetto di intenzionamento. Ed ecco che il cadavere “contagia”414, “torna come spettro”415, “è ambivalente”,416 “attira a sé i vivi”.417 Ma il cadavere è anche corpo “ancora umano” che finché resta davanti agli occhi di chi lo ha amato, ancora si accarezza, si cura e lava, si veste e si saluta, nonostante tutto questo miseramente avvenga nella esperienza angosciosa «di un’angustia dei limiti corporei, di una rigidità di essi».418

3.4 SU ALCUNI FINDAMENTALI TRASCENDIMENTI DI ESPERIENZE CORPOREE PROPRIAMENTE

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