PERSONA E NATURA
LA VITALITA’ UMANA SUPERAMENTO DELLA NATURA NELLA CULTURA
1.2 VITALITA’ ANIMALE E VITALITA’ UMANA
Piante, bestia e uomini sono viventi, si è detto. Ma di questi, solo bestie e uomini sono animalia, esseri senzienti. E ancora, tra questi, solo gli uomini possono oltrepassare –senza rinnegare- questa sfera sensibile. Se la vitalità naturale è materia biologica, la vitalità umana è già forma, dove però questa forma emerge dalla stessa materia biologica, in un distacco intenzionante che la include. L’uomo, in quanto anch’egli vitalità, trascende la natura ma non la distrugge. La cultura per de Martino presuppone la natura. Spieghiamo per gradi. La vitalità umana è cultura, cioè intenzionamento del naturale che si manifesta come valore, quindi come natura valorizzata. La finalità intenzionante è già inscritta nella natura umana (o vitalità umana) che coglie già le cose entro un orizzonte di senso.97 Come approfondiremo poi, questo intenzionamento valorizzante rende possibile il mondo, che come tale è solo mondo umano (storico, culturale, valoriale), restando incapaci gli altri viventi di intenzionamento (o trascendimento). La vitalità umana, a differenza di quella vegetale e animale, in quanto intenzionante si fa dunque “presente” nel mondo98 come cultura traendosi progettualmente (intenzionalmente) dalla natura e immettendo in esso la scelta dotata di valore, l’azione “distinguente” l’indistinto naturale caotico. Se la natura extraumana è incapace di decisione al valore, ovvero di distacco e distinzione, ciò accade proprio perché la
natura è incapace di cultura, e in de Martino ciò avviene in quanto nella vita animale e vegetale
non ha luogo quel vitale esistenziale della presenza –il più elementare dei beni umani- «che fa prorompere da sé le opere e i giorni della umana civiltà»99. Insomma, «senza una presenza che scelga oltre la vitalità animale sarebbe impossibile il padroneggiamento della natura oggettiva, la fabbricazione di strumenti e la elaborazione di tecniche produttive: e sarebbe altresì impossibile
Le frasi tra virgolette sono tratte da Husserl: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, traduzione di E. Filippini, a cura di W. Biemel, Il saggiatore, Milano, 1961, col riferimento in parentesi delle pagine.
97 «Il mondo della vita, per noi che viviamo e siamo desti in esso, è già sempre qui, è già sempre per noi, è sempre il
terreno di qualsiasi prassi, l’orizzonte di qualsiasi reale o possibile. Il mondo è in tutti i casi il già dato nel modo della costante datità delle cose singole. Tuttavia le cose, gli oggetti, sono dati, sono presenti alla coscienza in quanto cose, in quanto oggetti disposti nell’orizzonte del mondo. Ogni oggetto è qualche cosa che si stacca dallo sfondo del mondo (etwas aus der Welt), del mondo che è presente alla coscienza in quanto orizzonte», E. Husserl in E. de Martino, ibidem. Ed il principio di intenzionalità della coscienza è altresì argomento di riflessione di Enzo Paci, comunque di influenza husserliana, che de Martino riporta come fonte nei suoi appunti: «L’intenzionalità è il superamento del passato nel presente secondo la visione dell’avvenire. Soltanto in questo superamento, che è un atto di trascendimento, noi ci inseriamo di fatto nella Lebenswelt. […] L’uomo si inserisce nell’originario se supera e trascende il passato secondo la visione teleologica di un valore dell’avvenire», E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di
Husserl, Bari, 1961, p. 270, citato in de Martino, ivi, p. 122.
98 Di nuovo, si incontrano importanti influssi Husserliani. La vitalità umana si fa “presente” al mondo in quanto
coscienza del mondo. «Del mondo noi abbiamo sempre coscienza come “l’universo unitario di tutti gli oggetti”. Come abbiamo sempre coscienza di questo “orizzonte universale” degli oggetti, noi, l’io uomo e tutti noi, insieme, facciamo parte –in quanto viventi insieme nel mondo- appunto del mondo, il quale “proprio in questo vivere-insieme (Miteinenderleben) è il nostro mondo, il mondo che vale e che è per la nostra coscienza”», de Martino E., ivi, p. 115. Le frasi tra parentesi sono tratte sempre dalla Crisi di Husserl, p. 183.
35 l’ethos, l’arte, il logos. Senza un centro unitario che si rende volta a volta presente al divenire storico immettendo in esso determinazioni umane, la storia della cultura dileguerebbe nella storia della natura».100 Si tenga presente che scegliere “oltre la vitalità animale” non significa per de Martino scegliere –prescindere-da: l’animalità, dunque, si conserva nell’uomo, benchè trascesa, trasfigurata nel valore. La vitalità umana, pertanto, è presenza nel mondo (concetto mutuato dal lessico teologico),101 centro di distinzione valorizzante dell’indistinto naturale nel mondo, ordine del caos in mundus102, capacità di decisione e di scelta morale oltre il mero vitale organico o corporeo o animale. La presenza sta nell’uomo come “potenza”, più precisamente è “potenza morale”; «la presenza è potenza oggettivante dell’immediatezza del vivere, e tale oggettivazione si compie attraverso distinte forme di coerenza culturale»103 De Martino distingue con molta chiarezza questa vitalità propriamente umana da quella “cruda, verde e selvatica”, che «è la vitalità della pianta o dell’animale, non dell’uomo. La vitalità umana è la presenza, cioè la vita che si fa presente a se stessa e che si fa centro di energia sintetica secondo distinte potenze operative»104. Tuttalpiù, come già anticipato, si può accettare che la vitalità umana sia anche animale nella misura in cui si intenda l’uomo in quanto essere naturale, in quanto corpo biologico, e cioè non in quanto uomo; e quindi in de Martino «vitale è certamente la sfera del corpo e delle sue funzioni organiche, dei suoi bisogni e dei suoi istinti, mercé del quale noi affondiamo nel mondo della natura e partecipiamo al destino animale»105. Ma la vitalità umana, si osservi bene, «presenta già questa “educazione ulteriore”, cioè la vitalità che si fa presente a se stessa, che si contrappone al vitale meramente biologico in sé indiviso e cieco»106. De Martino, così, nettamente oppone la vitalità naturale (che è esclusivamente animale e riferibile all’uomo solo nei limiti del suo corpo come biologico, cioè non come corpo umano) dalla vitalità umana, che è “vitalità educata”, quindi presente a se stessa in un
100 De Martino E., Il mondo magico, cit., pp. 58-59.
101 Cfr le ricerche di R. Pàstina, “Il concetto di presenza nel primo de Martino” in Gallini C., a cura di, Ernesto de
Martino e la formazione del suo pensiero. Note di metodo, Liguori, Napoli, 2005, pp. 115-129. In particolare, «Il
concetto di presenza perviene a de Martino dalla sfera della teologia, laddove Presenza è principalmente riferita al “sacramento per eccellenza”, l’Eucaristia, allorquando, attraverso la transustanziazione, Cristo è presente, hic et nunc, nella sua divinità e nella sua integra umanità, sotto le specie del pane e del vino. […] E’ da qui che de Martino avvierà la sua riflessione sulla nozione di presenza, mettendo in campo la tensione tra l’annuncio cristiano del Regno futuro- imminente che si fa presente nel secolo, qui ed ora, e la presenzialità del passato, sempre presente nel “nostro petto”. In questa fase, de Martino, immettendo la presenza nella straordinaria vicenda della contemporaneità ideale di ogni storiografia, ne piegava il concetto essenzialmente a finalità metodologiche di messa a punto dei criteri dell’analisi storico-etnologica, attraverso il metodo dei punti di selezione e di crisi»”,R. Pàstina, in Gallini C., cit., p. 124.
102 Sarebbe interessante il confronto tra la presenza distinguente in de Martino e la teoria della cultura come
distinzione del filosofo della cultura Renè Girard, secondo il quale la cultura «non è nient’altro che un sistema organizzato di differenze; sono gli scarti differenziali a dare agli individui la loro “identità”, che permette loro di situarsi gli uni rispetto agli altri», R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, 2011, Milano, p. 76.
103 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 664. 104 Ivi, p. 654.
105 E. de Martino, Il Mondo magico, cit., p. 58. 106 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 654.
36 mondo culturale, ovvero in un orizzonte morale.107 La vitalità umana è “presente a se stessa” in quanto non resta immersa nella situazione naturale, ma è “cosciente” di questa datità mondana, o meglio è presente nel mondo come coscienza. «Cioè l’apprendersi come una presenza chiamata a oltrepassare la situazione mediante un’opera dotata di valore mondano, è la esperienza costitutiva dell’uomo: proprio tale esperienza, infatti, fonda la coscienza»108, la quale, scrive de Martino, «si inscrive soltanto nel margine che la presenza mantiene rispetto alla situazione, cioè nel margine per cui la situazione acquista un significato, si apre ad una permanenza culturale, ad un’opera che vince il divenire e la morte»109. In tal senso, la presenza è coscienza, «capacità di riunire volta a volta nella attualità della coscienza tutte le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, inserendosi attivamente in essa mediante la iniziativa personale, e andando oltre di essa mediante l’azione».110 Più che essere solo “coscienza di”, la presenza è anche “incoscienza di”. Approfondiremo questo rapporto memoria\oblio nella prossima sezione; qui basti sapere che la coscienza è un operativo e fisiologico passaggio di memoria e oblio, a seconda del tipo di iniziativa data e dell’esigenza della scelta; «implica quindi la possibilità di evocare volontariamente le memorie che occorrono per l’azione presente, e di inibire quelle che non giovano, nel che consiste propriamente la vita fisiologica della presenza»111. Ed ecco spiegato perché solo nell’uomo
L’ordine economico-sociale, la utilizzazione comunitaria della natura (a cominciare dal “proprio” corpo), la comunicazione dei bisogni e la loro plasmazione e proliferazione, la interrelazione nel soddisfarli, la produzione di strumenti (o di macchine) che prolunghino, sostituiscano, intensifichino le potenzialità corporee umane, l’apprestamento di sistemi tecnici mentali per il controllo comunitario della natura (e quindi, in ultima istanza, le scienze) tutto ciò è
forma culturale e non natura, è vita già valorizzata in una modalità intersoggettiva dell’abbisognare
e del soddisfarsi, è mondo che ha già ricevuto un suo ordine inaugurale, e che proprio per questo è già passato da “caos” a “mondo” significante e significabile.112
Ora, l’ordine culturale che l’umana vitalità realizza superando la ciclicità biologica è sempre ordine storico, cioè continuo processo di rottura (incessante, in fieri) della ripetizione naturale in evento “che sporge” nel valore, dove sempre «l’opera umana, in quanto valorizzante, realizza in una storica modalità l’essere di quel valore»113. Per de Martino la storia è “un accadimento singolare” che non si ripete (come invece si ripete la vita animale); è evento «che si accusa, che si solleva dalla
routine, e che costringe a vario titolo anche la presenza a sporgersi, a sollevarsi dalla routine, a
impegnarsi in un comportamento mentale o pratico unico, individuale, completamente adattato o
107 Cfr S.F.Berardini, cit., p. 201.
108 E. de Martino, La fine del mondo..., cit., p. 271. 109 Ivi, p. 269.
110 E. de Martino, Storia e metastoria, cit., p. 116. 111 Ivi, p. 117.
112 E. de Martino, Scritti filosofici, cit., pp. 68-69. 113Ivi, p. 12.
37 integrato»114. La vitalità nell’uomo, così, in quanto “sporgersi” dalla ripetizione biologica è essenzialmente un ex-sistere dalla natura alla storia, dove l’esistenza umana per de Martino non è né irrazionalità né razionalità, ma appunto la «“valorizzazione del vitale”»115, assunto però il vitale come momento irrazionale, cioè «la tentazione ultima che minaccia tutto l’edificio della valorizzazione»116. Dunque, la vitalità umana “presente”, “cosciente”, “storica” ed “esistente” si configura in ultimo come un esserci-nel-mondo, ma non nel senso esistenzialista-tedesco di
Geworfenheit.117 Ricordiamo che per de Martino «il destino dell’uomo è nel distaccarsi da,
riplasmando la deiezione del distacco in progettazione del valore».118 In virtù di essere un “progetto”, per de Martino l’uomo non è “gettato” nel mondo, bensì “getta” il mondo dinnanzi a sé. «Il “trovarsi in situazione” è esperibile solo nella misura in cui la veniamo comunque progettando, ed emergiamo da essa in questo progettante trascenderla. La situazione “in cui siamo gettati” appare per lo sforzo di gettarci fuori di essa, in una presentificazione che la viene decidendo secondo valori».119 La presentificazione, dunque, per via della situazione “necessaria” da cui deve emergere è insieme libertà e limite, valorizzazione e situazione, insomma «oltre valorizzante, margine di valorizzazione: questo oltre, questo margine, rendono possibile un mondo rispetto al quale la presenza sta sempre al di qua, assumendosi come margine, e una presenza rispetto alla quale il mondo sta sempre al di là, proiettandosi come mondo»120. Così, se l’uomo vive nella mediatezza non può vivere allo stesso tempo nella deiezione; o, altrimenti detto, la gettatezza animale nell’uomo è presente solo e soltanto in quanto valorizzazione della vita, cioè “regola del far passare”, distinzione dell’indistinto, differenza dell’indifferenza. «L’esserci è sempre in un “far differenza” che fa essere l’esserci, mentre il non poterla fare equivale allo scomparire della
114 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 128. 115 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 25. 116 Ibidem.
117 In tal senso, scrive Placido Cherchi, «De Martino usa Heidegger ma non ne dipende», P. Cherchi, Il Signore del
limite, Liguori, Napoli, 1994, p. 80. Sul diverso significato di “esser-ci nel mondo” si consuma il profondo distacco tra
de Martino e Heidegger; se per il filosofo tedesco l’esserci è deiezione, gettatezza nel mondo, in de Martino, al contrario, l’esserci, cioè «la presenza, è sempre un gettare il mondo davanti a sé attraverso l’opera universalizzante, l’apertura ai valori», mentre la Geworfenheit corrisponde al supremo rischio della presenza, ovvero –aspetto che approfondiremo nell’ultima parte di questo lavoro- «significa già la presenza che si perde e che, perdendosi, perde il mondo», E. de Martino, Storia e metastoria, cit., p. 104. Lo stacco fondamentale da Heidegger lo si comprenderà meglio quando, più avanti, tratteremo quel principio doveroso e trascendentale che sostiene la presenza, l’ethos. In Heidegger si trova l’in-der-Welt-sein «decurtato di quel sein-sollen che formalmente garantisce il passaggio ai mondi storico-culturali concreti in cui l’esserci sempre deve esserci. Per questo svuotamento l’esser nel mondo è interpretato ontologicamente come Deiezione, laddove è sempre progettazione secondo valore (inauguralmente progettazione di un mondo utilizzabile), e l’esser gettato è sempre in rapporto con non potersi più progettare. […] La mondità come mera possibilità di mondanizzazione, come semplice poter essere, non assicura, non fonda, il passaggio ai mondi culturali concreti, che non si appellano a un potere ma ad un dovere», E. de Martino, Scritti filosofici, cit., pp. 104-105.
118 Ivi, p. 77. Corsivo mio. 119 Ivi, p., 84.
38 presenza».121 L’esserci per de Martino è, dunque, l’esistere come progetto nel mondo, insieme ad altre presenze progettanti (“ci”). La presenza non si limita nell’uomo a costituirsi come il suo “essere nel mondo” ma è il suo esserci, dove il “ci” fonda l’Alterità col segnalare la costitutiva intersoggettività della presenza umana che, a differenza della bestia, essendo trascendimento si completa nell’altro-da-sé. «L’esistere delle presenze, il loro emergere, comporta pluralità e finitezze di individuazioni (gli “uomini”), e al tempo stesso tensione verso la valorizzazione e l’universalizzazione (la realizzazione “dell’umano”)»122. Così, il “ci”, è partecipazione dell’essere trascendentale nella storia particolare, aprendo l’individuo –mediante il valore- all’intersoggettivo, alla comunicazione, all’universale, «per cui l’essere si particolarizza nell’essere di me (della mia esistenza) insieme all’essere di altri (insieme all’esistenza di altri)».123 Ora, per il fatto che la vitalità umana è presenza, coscienza, storia, esistenza, esserci-nel-mondo, e come tale pone in essere i valori storici e mondani propri della cultura quali “opere-che-valgono”, non si deve pensare che tali valori siano isolabili dall’esistenza concreta che li sostiene; in altre parole, quando ci si riferisce ai “valori dell’esistenza mondana”, «si usa un’espressione che può dar luogo ad un grave equivoco, quasi come se da una parte vi fosse l’esistenza, considerabile per sé, e poi vi fossero dall’altra i suoi valori, quali la partecipazione ad una determinata vita economico-sociale, gli ideali politici, giuridici e morali, la poesia e la scienza, la complessiva visione della vita e del mondo»124. Del resto, non si deve scordare che la presenza non coincide con i valori ma è storica potenza mondana da cui i valori si distinguono. Così, iniziative umane quali “la fabbricazione di strumenti”, “la istituzione di regimi economico-sociali”, “di rapporti morali, giuridici e politici”, “l’opera poetica, le scienze della natura e dell’uomo” «sono valori mondani […] nel senso che realmente attraverso di essi si compie il distacco dalla naturalità e viene fondata la cultura»;125 tali valori, però, non coincidono con la presenza, che resta da intendersi «come centro storico di oggettivazione, come apertura verso la realtà “valorizzata” dell’essere, verso la natura valorizzata nella tecnica e nella scienza»126.
Giunti fin qui, la vitalità umana non è solo questo “positivo morale”, per cui “felicemente” «presenza, esserci nel mondo, esserci nella storia sono espressioni equivalenti per designare la vitalità umana in atto di distinguersi dal vitale biologico e di aprirsi alla distinzione delle distinte potenze operative creatrici di cultura e di storia: l’utile, la vita morale, l’arte, il logos»127. L’uomo,
121 Ivi., p. 100.
122 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit.,, p. 105. 123 Ivi, p. 103.
124 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 667. 125 Ivi, p. 662.
126 E. de Martino, Storia e metastoria, cit., p. 99. 127 E. de Martino, La fine del mondo.., cit., p. 657.
39 proprio perché il distacco costa impegno e sforzo in quanto incessante emergenza dalla vita, resta infatti soggetto al rischio di annientarsi: «È la perdita della cultura, il risommergersi nella natura nel completo naufragio dell’umano. O anche, è il non esserci più in una storia umana: è la follia»128. Così, oltre al fatto che perculitarità della vitalità umana è il “farsi presente” nel mondo e nella storia dei valori, «costituisce l’uomo anche il rischio di perdere la presenza, di restare prigioniero della situazione, senza margine operativo»129. La presenza, in tal senso, è definita da de Martino un “bene” (il primo bene umano) «proprio perché, in date condizioni storiche, può correre il rischio di andare perduto»130, di smarrirsi e dileguarsi; non è, in quanto un continuo “farsi” presente storia, al riparo da questo rischio, e di conseguenza –a differenza del vitale animale- resta impegnata «a possedersi, ad appropriarsi di sé, a recuperare la possibilità del completo dispiegamento delle potenze operative che fanno uomo l’uomo, a combattere l’angoscia di perdere se stessa e il mondo, se stessa e la natura umana».131 Tratto dal nulla, l’uomo al nulla tende a tornare, attirato ad essa dalla sua intima, perentoria animalità. Se la vitalità animale è già vita completa nel suo pigro e ciclico ripetersi indistinto, la vita umana è chiamata perentoriamente alla cultura, alla relazione con l’altro-da-sé, pena «la possibilità di ricadere dal piano umano a quello sub-umano della mera opposizione naturale, cieca del lume della distinzione, incapace di andar oltre la mera vitalità organica o corporea o animale che si dica»132. Mai data una volta per tutte, la presenza “deve” trarre
in fieri, valore dopo valore, l’umano dall’immanenza, dall’autoreferenzialità, dall’isolamento, dalla
necessità dei bisogni a cui anche l’uomo –come gli animali- deve sottostare, nel suo sfamarsi e dissetarsi, dormire e riprodursi, ammalarsi e morire, ricercare il piacere e fuggire il dolore. La presenza deve essere (analizziamo più avanti il carattere di “doverosità”) instancabile movimento scongiurante il precipizio, mai scongiurato una volta per tutte133, in quell’abbraccio abissale di “madre natura” da cui faticosamente ci si vuole emancipare nel proprio riconoscersi “umanità”.
Fra una cima che non può essere raggiunta e un abisso nel quale si può cadere sta l’uomo che scala il monte dell’essere, di qui l’ambigua angoscia […]. Se il distacco angoscia è perché può
128 Ibidem. 129 Ivi, p. 271.
130 E. de Martino, Storia e metastoria, cit., p. 59. 131 Ibidem.
132 Ibidem.
133 «La presenza, infatti, non si costituisce in sé come una piena positività (e qui sta la novità della concezione
demartiniana rispetto al pensiero tradizionale), ma si ferma invece di contro a una negatività che le è immanente, sulla quale è continuamente impegnata ad imporsi ed in rapporto a cui va necessariamente presa in considerazione. Pertanto l’eventualità che essa incorra nella propria disgregazione, lungi dall’essere un caso limite di eccezionale gravità, le è complementare, dal momento che costituisce il rischio naturale a cui ogni realtà plurale, non monoliticamente unitaria, è sottoposta. In questo senso, la presenza può essere definita anche come un equilibrio omeostatico con il divenire, caratterizzato però da una profonda instabilità che ne scuote talvolta le fondamenta, facendola entrare in crisi. se la possibilità di tale crisi non può mai essere allontanata una volta per tutte, ne consegue che essa costituisce un imprescindibile polo dialettico della presenza stessa, una negatività che, solo se superata,