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GERARCHIZZAZIONE DEL DECIDERE, IMPERATIVO ETICO E RISCHIO ESTREMO NELLA PERSONA.

PERSONA E NATURA

L’ETHOS DEL TRASCENDIMENTO CONDIZIONE TRASCENDENTALE DELLA NATURA UMANA

2.4 GERARCHIZZAZIONE DEL DECIDERE, IMPERATIVO ETICO E RISCHIO ESTREMO NELLA PERSONA.

La persona, come nozione che esprime l’unità di natura e valore, di universalità e singolarità, di varietà (cultura) e di verità (telos), è dimensione trascendentale, per l’ethos che la sostiene; dimensione vitale, per la corporeità da cui si inaugura; dimensione morale, per la liberazione da essa di valori storici e –vedremo poi- metastorici (presenza); e dimensione etica, in quanto, teleologicamente portata a riconoscersi come ethos (dovere, volontà), vive la caduta di questo come “male” e la realizzazione di esso nella consapevolezza come scelta di “bene”. Questa sistematizzazione non appartiene allo studioso napoletano ma è un nostro tentativo di dare ordine a tutti quegli “appunti filosofici” intorno agli universali della condizione umana lasciati slegati dal filosofo benchè tutti appartenenti alla stessa radice strutturale-normativa dell’ethos, appunto questa sorta di “nucleo puro” di verità appartenente all’uomo in modo pre-categoriale e primordiale. Siccome la dimensione trascendentale della persona, in quanto tale, non si può narrare ma solo individuare nell’ethos che la sostiene (qui già commentato), per convenienza parleremo “solo” della triplice manifestazione vitale, morale ed etica della persona, dove quest’ultima è l’unico modo in cui l’ethos, perduto miseramente come “peccato” o giunto a consapevolezza come “salvezza”, può essere “raccontato”. Prima di passare all’analisi di questa triplice dimensione personale, però, conviene ancora chiarire tre fondamentali aspetti della nozione di persona senza i quali gli approfondimenti successivi resterebbero poco chiari.

Il primo chiarimento concerne l’assunto per cui, scrive de Martino, «“Io sono”, cioè “mi ritrovo” la stessa persona nella varietà dei contenuti biografici, in quanto mi vengo distaccando sempre di nuovo dalle situazioni in cui posso trovarmi: la mia unità “data” è tale in quanto “risulta” dal decidere».286 Essere la stessa persona nonostante la varietà dei singoli trascendimenti significa che nel complesso i vari distacchi dal naturale al culturale costituiscono, ognuno, una sorta di “sineddoche” della persona, disponendosi rispetto a questa in unitaria gerarchia comunicante (per cui quelli più impegnativi emergono, e si immergono nell’ovvietà quelli meno importanti), e che la persona non si identifica in “questa” o in “quella” scelta, ovvia o impegnativa che sia, ma si

286 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 101. Il concetto di totalità personale racchiusa in ogni singola decisione

rimanda alla “Vissuta legge di filogenesi” di Husserl, che de Martino appunta nei suoi quaderni filosofici commentando dei passi della Crisi husserliana: «La persona non potrà mai possedere nel proprio spazio vissuto la totalità dello spazio, né potrà nel presente vissuto raccogliere attualmente tutto il passato e tutto il futuro: tuttavia, qui ed ora, nella attualità e limitatezza del mio vissuto, è in me inconsciamente presente la totalità dello spazio e la totalità del tempo», E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 121.

67 manifesta “tutta insieme” in ogni singola decisione quale “parte per il tutto”. Per spiegare meglio quanto sostenuto, conviene sempre tenere a mente la persona come quel movimento per cui «ogni individuo si consuma nella tensione di trascendere la vita nel valore, e infine muore dopo aver distaccato da sé quel tanto di operosità intersoggettiva che continua a fruttificare nell’universale circuito della sempre rinnovantesi valorizzazione»287; dove non solo il “muori e diventa” coinvolge di fatto il singolo decidere ma altresì la temporalità dell’esistenza poiché «ogni singolo vive nel tempo, o più esattamente vive come temporalità, come “senso dell’avvenire”, come “senso del passato” e, eminentemente, come senso della presentificazione che deve far passare, secondo un certo valore, l’avvenire nel passato»288. Nonostante il continuo “muori e diventa” della valorizzazione a cui è sottoposto l’individuo coi continui distacchi e per entro il divenire temporale, la persona resta la medesima. Nella persona, i vari trascendimenti intermondani si dispongono secondo «una strutturazione gerarchica del decidere, un concentrarsi in una forma di valorizzazione piuttosto che in un’altra, e il far recedere le altre decisioni meno impegnate, ma non mai del tutto senza “impegno”».289 Precisa quindi de Martino che «vi è una gerarchizzazione culturale dei mondi e una gerarchizzazione biografica secondo attitudini personali e momenti della esistenza»,290 in quanto se sono occupato a trascendere un atto intenzionante importante della vita, lascerò nell’invisibilità altri intenzionamenti “culturalmente” spontanei (benché mai non decisi), quegli aspetti più “automatici” del mio trascendere mondano; questi atti egemonici e subalterni restano non isolati nella mia persona ma in gerarchica unità291. Ad esempio, resta nell’ombra la

287 Ivi, p. 171.

288 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 674. 289 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 4. 290 Ivi, p. 103.

291 De Martino mutua da Husserl questo concetto. Nella sua Crisi, Husserl scrive che ”In ogni percezione di una cosa è

implicito un orizzonte di modi di apparizione e di sintesi di validità che non sono attuali e che tuttavia sono co- fungenti. Senza questa “implicazione di una molteplicità inattuale di apparizioni” le cose non ci sarebbero date né ci sarebbe dato il mondo dell’esperienza” (Husserl, La crisi, cit., p. 186). De Martino, tenendo a mente Husserl (fra parentesi le frasi del fenomenologo) scrive nei suoi appunti: «Questa varia presentificazione esplicitamente intenzionante comporta un fluente succedere di atti nessuno dei quali sta isolato, così come non sta isolata nessuna validità inclusa in ciascuno di essi: ciascun atto, ciascuna validità, implica necessariamente, nella sua intenzione, un

orizzonte infinito di validità di atti impliciti, di validità inattuali, implicitamente fungenti. I molteplici risultati della vita

pratica precedente non sono morte, sedimentazioni; così, p. es., nella percezione, l’attualità egemonica ed esplicita di un particolare percepire comporta lo sfondo del campo percettivo monumentalmente irrilevante e completamente trascurato ma tuttavia fungente in modo subalterno e implicito con tutte le sue validità mute e occultate. L’attivo aver coscienza di questo o di quello, in modo di volta in volta egemonico ed esplicito, il vario dirigersi valorizzante su questo o su quello, il molteplice occuparsi di è pertanto “sempre circondato da un’atmosfera di validità mute e occultate ma implicitamente fungenti, da un orizzonte vivente”: il che rende possibile il passare da una attuazione ad un’altra di quanto implicitamente è racchiuso nell’orizzonte, mutando sempre di nuovo il rapporto fra egemonico e subalterno, fra oggetto e sfondo, fra concentrazione operativa e disindividuazione momentanea, fra intenzionato esplicito e intenzionalità implicita fungente. Proprio in virtù di questo orizzonte fluente e dell’inerire necessariamente a esso, “qualsiasi validità direttamente prodotta dalla vita mondana naturale presuppone sempre altre validità”, e […] “risale mediatamente o immediatamente a un sottofondo necessario di validità oscure ma occasionalmente disponibili o riattivabili”. Queste validità oscure che si raccolgono secondo ordine sempre mobile di “oscurità-

68 valorizzazione del mio camminare mentre emerge in primo piano il mio parlare con qualcuno mentre scendo le scale. Così, il dover esserci personale hic et nunc, ovvero «il trascendimento per entro il quale presentificante e presentificato si vengono costituendo»292 secondo ovvietà ed iniziative, si esprime sempre secondo una relazione gerarchica di valorizzazioni particolari che tutte insieme, nella loro molteplicità in divenire, costituiscono l’intero “mondo culturale” della persona, «onde di volta in volta, “una” valorizzazione si estolle a compito egemonico, e le altre operano per così dire in sordina, talora ridotte alla relativa oscurità delle consuetudini, delle abitudini e degli automatismi tecnici: ma tutte, in questa varia energia di presentificazione, formano il dinamico vivente contesto della presenza in atto»293.

Il secondo chiarimento concerne l’assunto per cui “io non debbo mai essere solo”: è questo, in de Martino, «l’imperativo etico fondamentale che fonda la mia persona, e che al tempo stesso fonda la intersoggettività delle mie distinte valorizzazioni della vita, del mio continuo trascendermi nel valore»294. Ora, l’imperativo etico è direttamente fondato dall’ethos in quanto, scrive de Martino, «il dover essere non è compatibile con un singolo che lo incarna»,295ed infatti sappiamo che il massimo dispiegamento di questo dovere coincide con la ragione umana che trascende il singolo. Certamente il principio trascendentale dell’ethos «per il dover essere che comporta, non può che attuarsi nella finitezza del singolo: infatti solo nella finitezza può assolvere il suo compito inesauribile di valorizzazione»;296 ma appunto perché slancio inesauribile, l’ethos «non può esaurirsi in un solo singolo o in una irrelata molteplicità di singoli, ma si dispiega come società di singoli, operanti e comunicanti e relazionanti le loro opere, e al limite come “idea dell’umanità”»297. La persona, cioè, è un singolo che vale in un progetto comunitario dell’utilizzazione (al contrario della bestia che è individuo ma non si singolarizza né si universalizza), dove «io mi approprio di me stesso in quanto mi trascendo nell’essere

illuminazione” intorno al lume attuale della presentificazione rispetto al quale il resto si viene disponendo secondo mutevole sfondo di validità oscure o implicite “costituiscono una connessione di vita inscindibile”», de Martino, Scritti

filosofici…, cit., p. 119. Quanto a Husserl, si fa riferimento alla p. 176 dell’opera citata.

292 E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p 103.

293 Ivi. Il principio della gerarchizzazione degli atti nella persona, che de Martino individua, oltre a Husserl, rimanda

concettualmente alla nozione di persona del suo discepolo, Max Scheler. Scheler, infatti, parla della persona come di «una struttura ordinatrice di atti capace di autoeseguirsi continuamente in se stessa», M. Scheler, La posizione

dell’uomo nel cosmo, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 122. Scheler intende, cioè, «un ordine monarchico di atti, [dove]

fra questi uno soltanto ha di volta in volta la guida e l’orientamento» (ivi, p. 139), tale che «noi non siamo in grado di oggettivare l’essere della nostra persona, ma possiamo solo raccoglierci e concentrarci in esso. E questo vale anche per la persona che è l’Altro: come persona l’altro ci rimane inoggettivabile e noi possiamo rapportarci ad esso solo attraverso una ri-esecuzione e una co-esecuzione dei suoi atti liberi, diventando in tale modo per così dire “una stessa persona”» (ibidem, p. 122).

294 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 601. 295 Ivi, p. 603.

296 Ibidem. 297 Ibidem.

69 intersoggettivo, mi mantengo autenticamente come “singolo” in quanto mi universalizzo nell’essere che “vale”, cioè nell’essere che non è soltanto “mio”»298. Così, come vedremo al capitolo prossimo, «mio in senso assoluto non dev’essere nulla: neppure il mio corpo “biologico” che dev’esser governato secondo comportamenti socializzati, frutto di decisioni storiche e di educazione, che dev’esser soddisfatto secondo “regole” produttrici di bisogni e di soddisfazioni connesse ad un particolare regime sociale ed economico che disciplina tutti i corpi umani; il “mio” corpo è riconoscibile come mio solo per entro questa valorizzazione intersoggettiva del corporeo umano»299. Ed infatti, spiega de Martino, «linguaggio, comunicazione intersoggettiva, esprimibilità e pubblicizzazione del privato, continua ascoltazione e interiorizzazione del pubblico, scelta valorizzante che sempre oltrepassa le situazioni»: tutto ciò non si aggiunge alla presenza personale ma la fonda «e la mantiene e la svolge, costituendo la sua stessa “norma” che la rende “normale»300. Non scordiamo, in proposito, che il “trascendimento”, come l’etimo latino suggerisce (“trans” + “ascendere” = salire al di là) è sostanzialmente relatio doverosa, luogo d’incontro tra

ethos e logos, dove «il primo dovere del trascendere è l’uscir fuori: il porsi con gli altri, fra gli altri,

in una relazione comunicante e in un mondo utilizzabile»,301 e questo a cominciare dagli istinti biologici. La relazione, così, è intrinseca alla persona; che si manifesta al mondo più che come “semplice” presenza come una “compresenza”. Solo la bestia, essendo un vivente compiuto in sé, può vivere e completare la sua natura senza stare con i suoi simili: si pensi agli animali domestici che vivono con i loro padroni umani, privati di un contesto animale e pensati e trattati secondo logiche umanizzate. Così, un animale vive anche tra gli uomini ma un uomo, in quanto vivente completantesi nella relazione, non può vivere in un branco di animali. Può certamente vivere in solitudine –si pensi agli eremiti- ma la solitudine è già assunzione della socialità nella richiesta di silenzio dal mondo quale “silenzio culturale” e non animale, vitale.

Proprio perché l’uomo è in società, pubblicamente orientato, si giustifica l’impegno di altre fedeltà intersoggettive che stanno oltre l’utilizzabile in senso stretto: l’impegno a render pubblico il

proprio operare, a uscire dalla propria ‘intimità’ incomunicabile, a votarsi ad un controllore che sia, al tempo stesso, aperto all’essere controllato e verificato. Gli spaesati, gli sradicati, i ribelli, i

solitari, nella misura in cui non sono dei ‘malati’ partecipano anch’essi all’esserci-in-società: e così pure i mistici; d’altra parte l’esserci in società non può esaurire tutto l’esserci, senza lasciare nessun ‘oltre’, altrimenti si cade nel più piatto conformismo totalitario, nel tecnicismo, eccetera.”302

298E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 5.

299 Ibidem. In proposito, de Martino, appunta (in un brano che poi fu da egli stesso soppresso):«Il “mio corpo è mio”

per questa valorizzazione intersoggettiva che mi fa continuamente presente ad esso; mia in senso assoluto non è la mia “anima” (sia perché essa porta la memoria di decisioni altrui, sia perché essa deve render conto alle altre “anime” comunicando)».

300 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 668. 301E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 31.

70 L’ultimo chiarimento intorno alla nozione di persona concerne l’assunto per cui, scrive de Martino, «il rischio di perdere il mondo (e l’esserci-nel-mondo) è la crisi della crisi, la catastrofe della persona come della vita culturale»303. Così, se da un lato «il singolo non è mai solo. Non può non decidere, e le sue decisioni sono sempre multanimi»304, dall’altro, scrive de Martino «il singolo

è il mai solo che rischia di essere assolutamente solo, il sempre comunicante che rischia di essere

l’assolutamente incomunicabile. Per questo “sempre” e per questo “mai” che lo costituiscono, solitudine e incomunicabilità rappresentano la sua catastrofe, società e linguaggio la forma inaugurale del suo poter esistere, il primo progetto del suo dover esistere».305 Il paradosso della natura umana sta tutto racchiuso nel fatto che la persona è insieme morte e relazione, cioè finitezza che supera la sua stessa finitezza nella relazione. La persona “autentica”, vedremo meglio poi, per de Martino non è per-la-morte (per la sua finitezza) ma per la relazione, dunque per-la-vita. L’ambiguità comunque racchiusa nella condizione umana risiede nel fatto che, per un verso, essa è è relazione in quanto “uscir fuori” nel valore intersoggettivo, ma dall’altro verso è morte in quanto ogni distacco si configura come un “morire a se stessi” nello “sforzo” continuo di “uscita” dalla immanenza animale (egocentrica, solipsistica, autoreferenziale, incosciente) verso l’Altro-da-sé (nel senso di oggetto, di uomo, di Dio, ecc.) che chiunque sia o qualunque cosa sia, si incontra e conosce solo e soltanto nello spazio della morte situazionale per il valore storico. Così, «ogni trascendimento, ogni e-sistenza rispetto alla situazione, ogni decisione secondo valori, dà luogo a una nuova situazione, che subito richiama un nuovo trascendimento: e così senza sosta, in un destino culturale inesauribile, che rende oggettivamente la morte una apparenza, sia quella vinta ogni momento nel “procurar la morte” della situazione, sia quella che in un modo o nell’altro, e con diversi gradi di permanenza e di rinascita è vinta al termine della vita individuale col bilancio delle opere (cioè dei trascendimenti effettivi, che formano memoria per i sopravvissuti)»306. Ma se nella norma della vita culturale questa morte resta esperienza “oggettivamente apparente”, nella sua malattia –intesa come malattia morale, impotenza al valore, abdicazione alla cultura- la morte si fa rischio altrettanto oggettivo. Come tale, l’umana emergenza, resta sempre rischiosa, in quanto l’umano dovere, essendo essenzialmente una libertà, è esposto al rischio della colpa primordiale di non adempierlo, di non sconfiggere la pigrizia animale che sempre “va tentando” l’umano sforzo etico, sempre in procinto di allentarsi e annientarsi verso il nulla naturale, verso il non valore

303 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 171 304 Ivi, p. 4.

305 Ivi, pp. 3-4. Corsivo mio.

71 bestiale. La vita umana, per questo, è dramma. La tensione fra compito del trascendimento e

minaccia del movimento di opposto segno verso l’annientamento: in questo dramma sta l’umano307. La persona è destinata a dipanarsi drammaticamente tra il sempre e il mai, tra il comunicante della cultura e la solitudine della natura, tra il valore e la vita, tra il compimento del suo tèlos e l’infedeltà all’ethos; quindi tra il dovere e il non dovere, dove «questo “non deve” e questo “deve” configurano il rischio esistenziale, nelle due modalità della non possibilità di una singola valorizzazione (negativo relativo del falso, del brutto, ecc.) e dell’annientarsi dello stesso ethos del trascendimento che condiziona il valorizzare categoriale (negativo assoluto della demenza e della morte)»308. Accade nella persona, così, che «quando, come nell’angoscia esistenziale, la parola vien meno, la comunicazione è impossibile, il privato si fa ineffabile, il rapporto col mondo storico è insidiato alla radice, e il decidere secondo valori intersoggettivi è investito in una sorta di mortale stanchezza, allora si esperisce la perdita della “norma” della presenza, il mutar di segno della presentificazione, e si perde quindi proprio la presenza».309 La perdita della presenza è la negazione dell’imperativo etico della persona (“non devi essere solo”), esperito dall’uomo come vissuto recedere della cultura nel «senso fondamentale dell’eticamente negativo per eccellenza».310 La persona vive il crollo dell’ethos non più solo in una dimensione morale ma drasticamente in quella etica negativa (diametralmente opposta alla ragione, quale dimensione etica positiva): il crollo della presenza è “male”, è non fedeltà (impotente o colpevole) all’ethos. E proprio perché la persona è già “tutta insieme” in ogni singolo distacco, allo stesso modo «ogni momento della vita individuale è esposto al rischio del crollo dell’ethos del trascendimento lungo tutto il fronte della valorizzazione, il che dà luogo alla vera e propria psicopatologia; ogni particolare valorizzazione è esposta allo scacco del negativo, all’insuccesso, all’opera fallita»311. Se l’esistenza presuppone obbedienza, pure se a bassissimo grado, all’ethos trascendentale, dirà de Martino che «fuori di questo dover-essere si annienta, così come si annienta il suo mondo».312 E così, scrive lo studioso:

Chi, ripiegandosi su se stesso, scopre la propria solipsistica solitudine, scopre in realtà soltanto la propria miseria morale, l’interrotto filo delle proprie fedeltà storiche, il satanico orgoglio dell’unico, e in ultima istanza quella volontà di “isolarsi” che è la malsana nostalgia del nulla313.

Si comprende in che senso la presenza è per lo studioso un “bene” prezioso, il “primo” bene umano: se essa si annienta, la persona patisce il “nulla dell’esistere”, che per de Martino «è semplicemente la caduta della valorizzazione, il non poter esistere per impotenza del

307E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 684. 308E. de martino, op. cit., Scritti filosofici…, cit., p. 7.

309 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 668. Corsivo mio. 310 Ibidem.

311 E. de Martino, op. cit., Scritti filosofici…, cit., p. 171. 312 Ivi, p. 12.

72 valorizzare».314 E siccome la persona è movimento dell’ethos nella vita innalzata al valore e, in quanto movimento, non risultato raggiunto e fermo, essa perennemente rischia di recedere (“rischia” e non recede) «in quel nulla della vita culturale che è la natura senza orizzonte di umanità».315 Il rischio estremo della persona è dunque –a parte la morte biologica- il rischio del crollo dell’ethos, che è fattuale alienazione della presenza in quanto questo rischio «si configura come rischio di esteriorizzazione della stessa potenza oggettivante: tale esteriorizzazione è alienazione».316 Vedremo meglio più avanti che questo rischio si avvicina ogni volta che «nei momenti critici dell’esistenza sporge ciò che passa senza e contro di noi, allora invece di far passare nel valore ciò che passa rischiamo di passare con ciò che passa, di perdere la presenza»317; possibilità rischiosa che si fa tanto più radicale e frequente tanto più ci si trova di fronte alla storia “che sporge” «e i momenti critici la cui possibilità resta scoperta sono tanto più numerosi quanto minore è il raggio di azione culturale della coerenza economica e delle altre forme di coerenza»318.

314 E. de Martino, Scritti filosofici…, op. cit., p. 12.

315 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 78.La possibilità che la persona rischi di regredire al nulla naturale è

considerazione che de Martino elabora in confutazione con l’unità trascendentale dell’autocoscienza kantiana. Se il filosofo di Königsberg fu per de Martino l’ispiratore (non esclusivo) di un principio trascendentale e intrascendibile a

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