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GERARCHIZZAZIONE DEL DECIDERE, IMPERATIVO ETICO E RISCHIO ESTREMO NEL CORPO UMANO

PERSONA E NATURA

IL CORPO UMANO TRA NATURA E PERSONA

3.5 GERARCHIZZAZIONE DEL DECIDERE, IMPERATIVO ETICO E RISCHIO ESTREMO NEL CORPO UMANO

Passati in rassegna i principali distacchi umani fisiologici, mostriamo come in ciascuno di essi si dia “tutta insieme” e sempre “tutta quanta” la persona, ovvero con le sue essenziali caratteristiche di gerarchizzazione delle scelte (in cui emerge l’iniziativa e si oblia l’ovvietà), di imperativo etico del “non star soli” e di rischio estremo della perdita della cultura. Questo ci tornerà utile nei prossimi capitoli, in cui in modo più approfondito dobbiamo ritornare sulle caratteristiche peculiari della persona, e ciò a proposito del mondo umano fondato dal trascendimento, custodito dalla trascendenza e perpetrato dalla tradizione. Limitiamoci, per ovvia economia di esposizione, al solo esempio del camminare umano. Anticipiamo, però, che come nella persona gli atti sono in unità, così «le parti del corpo si rapportano le une alle altre in una maniera originale, sono avviluppate le une nelle altre»436 in modo unitario e indiviso, tale che «la posizione del mio corpo emerge e si raccoglie, profilandosi intera, nella intenzionalità di un gesto concreto, e nella parte somatica che vi è più significativamente impegnata».437 Detto questo, il camminare umano “appare” così ovvio nella persona da essere messo in atto mentre compiamo un’altra azione più impegnativa: come già detto, si pensi allo scendere le scale mentre riflettiamo su qualcosa o parliamo con qualcuno. Sarebbe certo esagerato affermare che di norma, nello scendere le scale di casa, «ingaggiamo un agone di sottili astuzie per vincere la forza di gravità: in realtà scendiamo le scale di casa “pensando ad altro”, magari alla persona che ci attende al portone o al capufficio che potrebbe rimproverarci il ritardo o alla bolletta della luce non pagata»438. Per cui, rispetto al trascendimento della “riflessione”, il camminare si oblia nell’ovvietà (io non ho gambe camminanti, io sono le mie gambe camminanti) per far emergere nella persona il distacco ben più impegnativo del mio pensare, dove io sono la stessa persona mentre cammino e mentre rifletto.

Questo “non sapere distesamente”, questo “relativo” dimenticare, questo agevole dispiegarsi dell’abilità deambulatoria in una “relativa” inconsapevolezza (“relativa” cioè ad altre presentificazioni valorizzanti che richiedono in modo eminente il nostro impegno e che restano disponibili) fa parte integrante di quella sempre rinnovata liberazione dalla datità che costituisce l’emergenza dell’esserci, il continuo rinnovarsi del suo margine di disponibilità per il valore.439

435 Ivi, p. 612.

436 Ivi, p. 581. De Martino in queste riflessioni si ispira, ancora una volta, alla Fenomenologia della percezione di

Maurice Merleau-ponty. Riporta, in proposito, questo passo del filosofo francese: «Io posseggo il corpo in una proprietà indivisa e conosco la posizione di ciascuna delle sue membra mediante uno schema corporeo», ibidem.

437 Ibidem. Anche questo, è un concetto tratto dalla Fenomenologia merleau-pontyana. 438E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 92.

97 Può accadere, però, che la gerarchizzazione del mio decidere, col camminare obliato e il riflettere emergente, “si inverta” per via del fatto che repentinamente un momento critico del mio divenire reclama il mio camminare come iniziativa, ad esempio, l’evitare un ostacolo mentre cammino, riabilitarmi con le stampelle dopo un gesso a una gamba, ma anche la misurazione di una distanza, l’affrettarsi se sono in ritardo o il rallentare se non voglio incontrare qualcuno, per cui il camminare può certamente divenire “problema”. Riemerge, allora, il fatto che io “ho” gambe camminanti ed io devo decidere, con esse, di camminare. La gerarchizzazione del decidere, così, si riformula e riprogramma a seconda del divenire storico e sempre a partire dal mio corpo. Ci sono momenti in cui anche un’operazione fisiologica “banale” in un adulto, come il camminare, può divenire importante iniziativa a discapito di tutte le altre che in quel momento si possono realizzare.

Il momento della ripresa e della presentificazione nel camminare percorre vari gradi, in rapporto alla difficoltà del compito: in questa prospettiva è da dire che noi camminiamo “sempre

soli”, nel senso che in questa faccenda della deambulazione c’è sempre un margine affidato alla

nostra responsabilità, alla nostra invenzione, alla nostra iniziativa: un margine non totalmente assorbito dal “passato” e dai suoi modelli tecnici440.

Quando, dunque, la gerarchizzazione del decidere fa emergere il camminare come scelta impegnativa, ci sembrerà –come scrive de Martino- di “camminare soli”. Ma in fondo, precisa lo studioso ritrovando nella camminata l’imperativo etico fondativo della persona, noi non

camminiamo mai soli, «ma con tutta la storia personale umana di quella particolare tecnica del

corpo che è il saper camminare; camminando noi siamo accompagnati e sorretti da questa storia, e dagli sforzi, dalle ricerche, dalle invenzioni e dagli apprendimenti che essa comporta».441 Latente, insomma, resta nel mio camminare la sopita memoria del pithecanthropus erectus, con tutta la fatica del suo distacco, su due piedi, dalla vita animale in cui non si riconosceva. E anche se non lo avverto più, egli sta lì, a memoria di quella fatica primordiale, a incitarmi a oltrepassare la natura, ad indicarmi che in questo sforzo valoroso non siamo mai soli e mai lo potremmo essere.

Oltrepassare di colpo significa “rimettersi agli altri che oltrepassarono”, accettare la multanime corale risonanza dell’umano lavoro di appaesamento, affidarsi a questa laboriosità appaesatrice con un atto di umiltà e fedeltà devote, per restare disponibili al compito di valorizzazione che, qui ed ora, ci spetta. La familiarità, l’appaesamento, la normalità del mondo – questo sfondo patrio della nostra emergenza- racchiudono un messaggio il cui calore si confonde con lo stesso ovvio sentirsi corpo vivente: “Avanti, non sei solo”, dice questo messaggio, “ma nel cammino di accompagna l’opera di una infinita schiera di uomini. Una schiera che abbraccia morti e viventi, e che se anche ti raggiunge attraverso i tuoi più diretti educatori, in realtà ti rende partecipe agli evi tramontati e alle civiltà scomparse442.

Già dal corpo, così, “io non debbo mai essere solo”. Il mio essere coappartenenza di singolarità e universalità per mezzo dell’ethos fa sì che anche il mio camminare sia un camminare-

440 Ivi, p. 129. Corsivo mio. 441 Ivi, p. 128.

98 con. Sulla base della antica “storia del camminare”, io riplasmo nella mia persona il camminare che si fa “mio”, ma senza che la mia iniziativa privata possa mai chiudersi in un rifiuto della coralità comunitaria, della storia del mondo. Col camminare sono già aperta a questa coralità, a questa storia, pure se ne sono scarsamente consapevole. «Il camminare si dispone quindi in una serie di trascendimenti agevoli e relativamente inconsapevoli, ovvero meno consapevoli e più agevoli, e di plasmazioni culturali e personali che possono giungere sino ad un camminare fortemente caratterizzato e dosato per una particolarissima occasione della vita nella quale l’intercedere diventa altamente espressivo»,443 dove che io cammini agevolmente o che io ancheggi in modo fortemente personalizzato, sempre il mio camminare resta intersoggettivo, rivolto al pubblico, e mai posso dire di esser sola in questa decisione. È ormai, il camminare, così ben acquisito che non richiede all’uomo adulto e formato il rinvio ad una primitiva “pedagogia del camminare”; eppure ogni volta, chiusa nell’impaziente desiderio infantile di erigersi su due gambe, sta ancora tutta conservata quella lenta, faticosa conquista dei vecchi ominidi. E se appunto, «l’uomo adulto non ha nessun bisogno, per camminare, di imparare questa storia partitamente: cammina e basta»,444 è da considerarsi come implicitamente, nascosta e compendiata nell’ovvietà del trascendere, questa storia collettiva e pubblica sia ripresa tutte le volte che l’uomo si appresta a camminare, proprio perché se l’avesse totalmente scordata gli sarebbe impossibile camminare. Ed infatti, scrive de Martino, «l’utilizzazione del corpo, la istituzione di abilità corporee, la adoperabilità di strumenti tecnici fabbricati, la loro costruzione, l’adoperabilità di corpi e di proprietà per la soddisfazione dei bisogni, la plasmazione del loro stesso abbisognare, tutto costituisce un orizzonte di valorizzazioni possibili e attuali, di trascendimenti appresi con sforzo per la prima volta o insensibilmente elaborati per imitazione, di memorie operative latenti o di abilità all’occorrenza evocabili».445

Ora, può accadere però che io “perda” la pubblica vicenda umana del camminare in dati momenti critici, come appunto il cadere, l’inciampare. Si pensi anche agli amputati. Così, già solo dal suo corpo camminante l’uomo può avvertire, in date circostanze, il “rischio estremo” di un ritorno alla natura pre-ominide, il rischio di smarrirsi come persona rispetto al suo corpo, di vedere oggettivato in corpo biologico le sue già corporee “gambe camminanti”. Se, ad esempio, scendiamo le scale al buio, sarà ben più difficile evitare di pensare a “dove mettere i piedi”; quasi impossibile non progettare, di nuovo, il nostro modo di emergere come esistenze camminanti, rispetto a quella precisa situazione da superare (il buio, le scale) che rende il mio trascendimento un rischio per la mia cultura. Se l’andatura eretta è l’umanità, la caduta per terra, in tal senso, è filosoficamente uno “sprofondare nell’animalità”, ritornare cioè alla condizione umana pre-ominide; qui sta racchiuso –

443E. de Martino, Scritti filosofici…, cit, p. 128. 444 Ibidem.

99 noi riteniamo- il senso tragicomico che il cadere per terra genera in chi guarda cadere e, spesso, in chi cade, scivola, inciampa. Se è vero che io cammino, questa abilità mai esclude che io possa cadere, che io di nuovo possa non camminare. Il cadere è la perdita della storia degli umani camminamenti, la perdita degli altri; è l’esperire del rischio estremo per cui la persona si manifesta più vicina alla natura “che non cammina”. L’uomo è l’unico animale camminante. Così, per quanto possa essere rapida la risposta di una ripresa in questa sorta di “limbo della presentificazione” – come de Martino lo definisce- ciò non esclude come questo riprendere, per quanto agevole, sia un “ricominciare” a trascendere nella cultura a partire, di nuovo, dalla biologia delle mie gambe animali.

Quando dobbiamo “fare attenzione a dove mettiamo i piedi”, o attraversare una strada di molto traffico, o camminare al buio in una stanza, o in tutte le situazioni in cui non disponiamo in pieno dell’uso delle nostre gambe, o semplicemente quando siamo sfiniti per una lunga marcia, il momento della ripresa nel camminare diventa sempre più egemonico e perentorio: la intensificazione della presentificazione aumenta nella misura in cui esperiamo i limiti di operabilità del camminare in quanto tecnica del corpo spostatesi nello spazio in stazione eretta: in queste situazioni-limite si restringe sempre più il margine di disponibilità per altri trascendimenti, e tutto lo sforzo tecnico tende a concentrarsi nel “problema” del camminare446.

Quando infatti l’angosciante “rischio estremo” di retrocessione alla natura si avvicina, accade che perfino l’ovvietà delle cose umane, a partire proprio dalla fisiologia corporea (il camminare, il parlare, il mangiare, ad esempio) emerga come problema gravoso nella persona, tanto da impedirle trascendimenti “maggiori” (riflettere, scrivere, ecc.) e impegnarla, repentinamente, in quelli del corpo che di norma –almeno per quanto concerne il ciclo biologico- restano compendiati nell’ovvietà. O, anche, nel corpo possono risiedere scelte mancate, “peccati” di intenzionamento. Si pensi all’arto fantasma, con l’incessante impotenza di non trascendere più: «Il braccio fantasma è un antico presente che non si decide a diventare passato. Si resta fissati, bloccati, al tempo in cui si aveva il braccio, quel tempo, quel presente, diventa privilegiato, annoda il tempo personale».447

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