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LA TRADIZIONE COME SISTEMA ORGANICO DI REGOLE E RIT

PERSONA E CULTURA

LA TRADIZIONE COME CONSERVAZIONE DEL MONDO DEI VALORI (PERSONA E CIVILTA’)

6.1 LA TRADIZIONE COME SISTEMA ORGANICO DI REGOLE E RIT

Abbiamo detto che nel mondo mai siamo realmente soli. Anche quando “apparentemente” ci percepiamo come soli, gli altri vivono «nello spazio odologico in cui itinera operativi portano il segno di quella domesticazione collettiva che si richiama alla società e alla sua storia, e che proprio per quel segno si costituisce per ciascuno di noi come spazio mondano vivente e operabile».720 Questi itinera non sono altro che istituzionalizzazione o convalida di enti intramondani e gesti culturali, siano essi storici che metastorici: ciò che chiamiamo comunemente “tradizione”, espediente con cui il mondo dei distacchi umani si conserva nel tempo senza doverlo, via via, fondare o garantire dal principio. La tradizione è “pedagogia del distacco” rispetto alla natura e al mondo, quindi un percorso convalidato di gesti, segni e simboli che tutti concorrono a conservare la presenza storica della persona, perpetuandone le opere esistenza dopo esistenza. Il mondo è dato dagli ininera della tradizione umana, «anzi esso consiste di questi itinera più o meno stabili o rinnovantisi a seconda del tipo di società e di cultura»,721 dove inauguralmente la tradizione si manifesta come insieme di regole economiche e produttive. È grazie al fatto che c’è una tradizione, cioè un ordine sistematizzato e consolidato di regole culturali per dominare la natura con le sue ripetizioni, che il mondo è costituito e si mantiene nel tempo, consentendo il progresso storico umano verso valori più impegnati e consapevoli. «Il progetto comunitario dell’utilizzabile, generandosi e rigenerandosi sempre di nuovo, e componendosi in tradizione trasmissibile e ulteriormente incrementabile, costituisce il “mondo” come orizzonte degli enti intramondani e lo stesso ordine degli enti intramondani come indici relazionati di utilizzazioni e di resistenze, di

itinera operativi e di limiti di percorribilità di questi itinera».722 La tradizione è folla mondana di decisioni convalidate che silenziosamente vive nella domesticità dello sfondo patrio; in ogni particolare mondo culturalmente orientato vive una folla di decidenti memorie umane «chiamata, a vari livelli di consapevolezza, a prodursi, portando in tal mondo il suo contributo variamente relazionato».723 La tradizione, in quanto sistema di decisioni già prese, già consolidate, già superanti l’onere della prova culturale, è in tal senso valido “appoggio” per la decisione personale; appoggio in cui, fedelmente, «ci ricongiungiamo in modo immediato agli altri, alle loro scelte

720 Ivi, p. 602. 721 Ivi, pp. 647-648. 722 Ivi, p. 576.

160 storiche, ai loro sforzi culturali, e ai nostri propri sforzi per metter radici e per aver patria in un certo progetto comunitario dell’utilizzabile».724 Nella tradizione io scopro di dover esserci nel mondo insieme ad altri doverci essere con i quali affronto valorosamente la mia storicità. Non è, la tradizione, uno “smettere di scegliere”, ma al contrario è profonda scelta di storia. Nel mio aderire alla tradizione io non manco di coraggio rispetto a una mia scelta singola poiché è la tradizione a formare il mio coraggio alla iniziativa privata; di fronte alla morte del valore che sempre nella storia incombe, la tradizione è dunque «istituzionalizzazione del coraggioso oltrepassare la morte».725 La tradizione è la più grande medicina contro la morte. «La cultura umana in generale è l’esorcismo solenne contro questo rischio radicale».726 L’uomo è l’unico animale che sa della propria finitudine. È la morte, dunque, il fondamento della cultura umana, in quanto l’uomo di fronte alla morte si riscatta, nella non solitudine, in un essere-per-la-vita. «Il pensiero che l’individuo singolo finirà inevitabilmente col morire rischia di diventare un sintomo morboso nella misura in cui si isola nella coscienza e la invade paralizzandola; chi si chiude in questo pensiero per ciò stesso comincia a morire, e di una morte che è la peggiore di tutte»,727 quella del nulla morale che avanza. Al nulla mora l’uomo risponde per sua natura fedele all’ethos col valore intersoggettivo, cominciando da quello convalidato pubblicamente nella tradizione umana, «poiché proprio questa è la medicina della morte, il rinnovantesi impegno a operare secondo valori intersoggettivi, comunicare con gli altri attraverso questi valori, e il trascendere in tale guisa senza sosta la mera individualità biologica, rialzandola ad ogni istante verso la permanenza della vita “che vale”».728 In questa dinamica e prospettiva, prosegue ancora de Martino, «la morte come condizione terminale dell’individuo biologico si tramuta in quel morire che è nascere alla intersoggettività dei valori».729 Ovvero

Il morire dell’individuo biologico, che in certo senso comincia con la nascita, si riplasma in un “far morire nel valore operando nella concretezza di una società storica”: il che già a suo modo sapeva il divino Platone quando affermava essere la vita di ogni istante disciplina di morte: “Muori e diventa”: non accennano queste formulazioni famose alla stessa medicina contro la morte?730

Ecco spiegato perché l’adesione a tradizioni umane, si pensi ad esempio a quella intorno alla morte e al funerale non sono “viltà” ma opera di saggezza; per de Martino, infatti, esse esprimono il doverci essere ancora nella storia nonostante tutto; esprimono dunque la fedeltà intersoggettiva all’ethos, e proprio nel momento in cui più l’angoscia all’infedeltà del valore si fa intima.731 Si

724 Ivi, pp. 91-92. 725 Ivi, p. 110.

726 E. de Martino, La fine del mondo…, op. cit., p. 219. 727 Ivi, p. 264.

728 Ibidem. 729 Ibidem. 730 Ibidem.

731 Anche qui lo studioso si pone in polemica con Heidegger. «Quando Heidegger dice che “il Si non ha il coraggio

dell’angoscia davanti alla morte” mostra dimenticare che non si tratta di mancanza di coraggio, ma, all’opposto, di istituzionalizzazione del coraggioso oltrepassare la morte in luogo di rischiar di passare con chi muore: i rituali funerari

161 potrebbe obiettare: ma ormai è così usuale, abitudinaria, consona la tradizione funeraria: dove sta la scelta morale? Ma, obietta de Martino, «il fatto che si tratti di doveri ormai così facili da potersi dire “abiti”, non toglie nulla al loro carattere di “doveri” così fondamentali che solo per essi restiamo disponibili per quel che di iniziativa più consapevole e di decisione più personale comportano sia la stessa utilizzazione sia tutti gli altri orizzonti di valorizzazione».732 Con la tradizione e per essa, dunque, la persona matura nella storia; al di fuori di essa, difficilmente la persona si sviluppa come tale. Non solo l’uomo è tale quando “attivamente” lavora o propone un’iniziativa; ma anche, sostiene de Martino, quando «si stanca e si rifugia in quelle case di riposo che, oltre il sonno riparatore, sono appunto le abitudini, i costumi».733 In questo senso è da intendersi la considerazione di de Martino per cui nella persona umana «anche il riposo è una scelta, al pari del lavoro».734 L’umanità adulta, così, con la tradizione propone delle “tappe di accompagnamento” dall’infanzia alla maturità proprio mediante scelte culturali atte a sostenere l’uomo nel suo impegno di dominio della natura e di custodia del suo esserci mondano. La tradizione, come tale, nasce e si esperisce di fronte alla morte del mondo; è lotta contro la morte per mezzo del valore. Mediante essa, la morte è vinta. «L’uomo lotta contro la morte con l’arma del valore»,735 scrive in tal senso de Martino, «e la vince in quel permanere che è realizzato dall’opera che “vale”»,736 dove quel permanere realizzato dal valore è il permanere mondano della scelta dotata di valore e convalidata, cioè la tradizione. Ecco perché, prosegue lo studioso, «l’opera è tuttavia, se vale, un intersoggettivo destinato a sopravvivere ai singoli, non importa se legato o meno alla memoria dei loro nomi anagrafici».737 La tradizione, infatti, sopravvive al singolo uomo, lo oltrepassa in una vicenda storica che c’era prima di lui e dopo di lui proseguirà. Si tratta, qui, di un circolo virtuoso: l’uomo comincia originali iniziative mondane sulla base della tradizione e, a sua volta, incrementa la tradizione su cui uomini del futuro costruiranno le loro iniziative. In tal senso de Martino scrive che «cultura significa iniziativa geniale che si consolida in una tradizione, tradizione che condiziona e alimenta l’iniziativa geniale secondo una circolarità che la effettiva considerazione storica vieta di spezzare».738 Senza tradizione, sostiene de Martino, è impensabile svilupparsi come persona nel mondo e nella storia. L’uomo deve anzitutto imparare come distaccarsi dalla natura e compiere

sono opera di saggezza, non di viltà, esprimono l’esserci non già nell’inautenticità del “Si”, ma nella fedeltà intersoggettiva evocata nel momento che più si è tentati di cedere nell’infedeltà dell’intimità angosciantesi, del sentirsi spaesato per qualche morire altrui che minaccia di coinvolgere anche il nostro», E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 110. 732Ivi, pp. 91-92. 733 Ivi, p. 101. 734 Ivi, p. 94 735 Ivi, pp. 7-8. 736 Ibidem. 737 Ibidem.

162 questo distacco nella consapevolezza che solo da qui egli può operare iniziative originali. «Quando una situazione ha luogo nel vuoto di qualsiasi tradizione culturale del comportarsi realisticamente efficace (come nelle grandi catastrofi naturali, nelle malattie mortali e nella morte), è la stessa presenza che si perde, che resta senza margine dell’operare, e si dilegua».739 La persona, già dall’infanzia, ha bisogno dunque di imparare, nel solco di una tradizione, ad affrontare i momenti critici, e a combatterli nel valore. Specialmente per un bambino, ma ancora per un giovane, «è nuova ogni situazione che, in una società data, pone in essere per la coscienza la distanza fra l’accadere il senso naturale (che è o può essere contrario all’uomo) e il far accadere in senso culturale (che tende a decidere le situazioni secondo valori umani, secondo iniziative innestate in tradizioni dell’operare)».740 De Martino insiste sull’importanza della tradizione per la maturazione della persona umana. La persona deve poter appoggiarsi ad uno sfondo domestico alle spalle perché si deve inserire, per poter crescere e maturare fino alla dimensione etica della propria libertà (consapevolezza del valore), fra “memoria retrospettiva” e “slancio prospettivo”. «Famiglia e società, e quindi cultura nel suo complesso, foggiano la misura della nostra esistenza, stabiliscono l’orizzonte di sicurezza dell’esserci».741 Quando abbiamo alle spalle una tale sicurezza mondana (a patto che questa non proponga regole servili e disumane), «noi ci siamo nella storia con sicurezza e libertà».742 Si rischiara, così, quella già vista definizione di persona secondo la quale «ci si sente persona, nella misura in cui, nel momento critico in cui si è chiamati ad esserci, stanno a nostra disposizione le memorie retrospettive dei comportamenti efficaci per modificare la realtà e la coscienza prospettica e creatrice di ciò che occorre fare, qui ed ora, per riuscire a produrre il valore nuovo, la iniziativa creatrice personale».743 Al contrario, osserva lo studioso, «coloro che, nella loro vita, hanno memorie anguste di comportamenti efficaci e una pesante eredità di scacchi subiti, di momenti critici non oltrepassati, sono presenze fragili, esposte alla crisi radicale».744 Detto in altri termini, «dire che l’uomo è un animale bisognoso di sicurezza nell’azione –mentre l’animale si limita a reagire agli stimoli e a soddisfarli- significa dire con altre parole che l’uomo è una presenza».745 L’uomo è un animale bisognoso della tradizione per completare la sua natura, ecco in che senso l’uomo è intersoggettivo. E quanto più la tradizione è alle sue spalle, tanto più egli può partecipare autonomamente e originalmente al mondo dei valori. «Che cosa è infatti la presenza se non la memoria retrospettiva dei comportamenti culturalmente efficaci, e la volontà prospettica di

739 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 662. 740 Ibidem. 741 Ivi, p. 142. 742 Ibidem. 743Ibidem. 744 Ibidem. 745 Ibidem.

163 impiegar qui ed ora, in rapporto alla richiesta della realtà, il comportamento adatto?»746 E’ la tradizione che offre possibilità all’uomo di impiegare il comportamento efficace per affrontare la morte, sotto la “spinta” della situazione e verso «l’atto creativo della nuova storia». Ecco perché «quando le memorie di comportamenti efficaci sono anguste, le richieste della realtà diventano particolarmente esigenti, e le prospettive di riuscita si restringono: ciò significa scarsa esistenza o labilità della presenza, rischio di perdersi come presenza, senso di insicurezza, angoscia».747 Mostreremo più avanti come col crollo della tradizione il vissuto dei “momenti critici” dell’esistenza lascino il posto alla “crisi esistenziale”, specialmente affrontata con l’arte, ma pure sfociante nella follia. Ed infatti, «quando si profila la esperienza zero, quando esplode l’angoscia, quando nessun modello storico e sociale soccorre, quando la sapienza di qualsiasi costume viene allontanata (e non solo, in modo polemico, un particolare costume) allora è l’angoscia».748

6.2 UN CASO DI TRADIZIONE INTORNO AL LUTTO: IL COMPIANTO LUCANO.

È cosa nota che de Martino abbia condotto alcune ricerche sul campo per studiare “dal vivo” il fenomeno umano; quindi per riflettere filosoficamente su di esso e risalire agli universali (sostanzialmente: trascendimento della natura in cultura, crisi della presenza, reintegrazione del valore) della condizione umana. Il Sud italiano rappresentò per lo studioso il terreno più fertile per l’analisi di riti, miti, pratiche magiche ed in generale per lo studio dei rischi esistenziali e delle tradizioni su di essi innestatasi. 749 Fermiamoci, ora, su uno di questi “passaggi rischiosi”: la crisi del lutto, che qui abbiamo già avuto modo di scorgere per entro la trascendenza artistica e che Martino altresì coglie nella sua singolarità storica di “tradizione lucana” col fine però di riflettere, a partire dal caso singolo, sulla universale condizione del lutto, in quanto il cordoglio a tutti gli effetti

746 Ibidem. 747 Ibidem.

748 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 154. Si rifletta su come la posizione di de Martino circa la necessità degli altri

per l’affermazione dell’uomo come persona (gli altri –vedremo meglio più avanti- come garanzia di “salvezza” del singolo), strida con quella sartriana degli altri “come inferno”. De Martino qui precisa come questa angoscia scaturente dal rifiuto degli “altri” (tradizione, costume, ecc.) vada intesa, in polemica con Sartre, «come crollo dell’ethos del trascendimento, come impossibilità di scelta, come non poterci essere in nessun mondo possibile, e non –come vorrebbe Sartre- come l’angoscia della libertà», ibidem.

749 Gli studi di de Martino sulla tradizione rituale e –vedremo più avanti- sulla tradizione religiosa furono condotti,

come è noto, sul terreno di ricerca e col metodo etnografico, che lo studioso affiancò alla mai sopita speculazione filosofica. È innegabile, per tali studi, l’importanza che esercitò sullo studioso napoletano l’opera di Antonio Gramsci e le sue attenzione al folklore subalterno; e va ricordato che lo studio sul terreno fu condotto da de Martino come impegno politico, oltre che intellettuale. Scrive in proposito Berardini: «Nel quadro di questo impegno etico-politico, pur sempre ‘invigilato’ dal pensiero e dalla critica, decisiva fu la lettura della prima raccolta di scritti tratti dai «Quaderni del carcere» pubblicata nel 1948 col titolo Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, nonché delle Osservazioni sul folclore, apparse nel 1950 in Letteratura e vita nazionale (per cogliere l’importanza di questo ‘incontro’ basterebbe leggere, accanto al noto scritto Intorno a una storia popolare del mondo subalterno, tutta una serie di articoli di orientamento politico che De Martino fece pubblicare in quegli anni e che presentavano una decisa ripresa dei temi gramsciani ed elogi per il ‘lavoro’ svolto da Gramsci e purtroppo interrotto – un lavoro che a pieno titolo può dirsi ripreso e sviluppato nella cosiddetta ‘trilogia meridionalistica’)», S.F. Berardini, cit., pp. 287-286.

164 «appartiene alla condizione umana».750 Certamente vi sono civiltà, come quella “moderna” che l’hanno «di molto ridotta di intensità e di pericolosità, fornendole il soccorso di tutta l’energia morale maturata nel vario operare civile»;751 così come civiltà, quali quelle del mondo antico o quelle contemporanee “primitive”, in cui questa crisi «assume invece ordinariamente, sia nell’individuo che nella collettività, modi estremi che hanno riscontro nella nostra civiltà solo in casi individuali eccezionali e palesemente morbosi, e più diffusamente appena in quelle poche aree folkloriche che per certi aspetti riproducono ancora condizioni di esistenza in qualche modo simili a quelle del mondo antico».752 Comunque sia, universalmente il lutto richiede a qualsiasi persona di compiere un lavoro, il lavoro del cordoglio: dare morte culturale alla morte biologica. Ed infatti, «anche se, davanti alla immobile spoglia, si esperisce il tremendo evento davanti al quale non c’è nulla da fare, in realtà si continua a fare, ad operare»;753 si compie, dunque, un “lavoro” e lo si compie in vari modi, «i più forti nel muto raccolto interiore dolore, i più deboli nella disperazione».754 E per quanto diverso sia, questo lavoro sempre è destinato a segnare, nell’uomo, «il trapasso, lentissimo e doloroso, della persona viva che comunicava con noi nel dialogo delle parole e degli affetti, alla persona morta, con la quale possiamo solo monologare rammemorandone le opere e impegnandoci in determinate fedeltà verso si esse».755 La persona, quindi, universalmente è impegnata alla cultura della morte; in quanto se resta impigliata nella situazione luttuosa e non sceglie, come presenza, questa morte, ne resta “prigioniera”. «Allora cominciamo a morire noi stessi con ciò che è morto»,756 scrive de Martino. «E nella alternativa senza esito di rendere reversibile il tempo storico andiamo smarrendo la stessa potenza morale che, decidendo le alternative, rende possibile l’esserci-nel-mondo».757 Chi non oltrepassa la situazione critica, da prigioniero ne subisce la tirannia; i morti non fatti morire tornano in modo irrelato.

Premesso ciò, così come non tutte le persone reagiscono allo stesso modo nei confronti del lutto, ciò è valido anche per le civiltà: specialmente laddove il dominio della natura appare scarsamente realizzato, la crisi del lutto si sovrappone alla crisi che accompagna l’inaugurale economico ancora scarsamente risolto. Così, scrive de Martino, in generale «nella pochezza di strumenti materiali e mentali operanti il distacco realistico della cultura nella natura, nell’angustia di un orizzonte umanistico di valori mondani, il distacco deve necessariamente compiersi in un regime protetto che salvaguardi innanzitutto il bene supremo e la condizione fondamentale della vita

750 E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 42. 751 Ibidem.

752 Ibidem, p. 43.

753 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 263. 754 Ibidem.

755 Ibidem. 756 Ibidem. 757 Ibidem.

165 culturale, cioè la presenza umana nel mondo».758 La civiltà lucana del secondo dopoguerra, quella

studiata sul campo da de Martino, si presentava come una società dominata da un “regime arcaico” di esistenza; condizione di provvisorietà che impegnava, nonostante la “civiltà moderna” –come de Martino la chiama- di buona parte d’Italia, larghi strati di quella vasta comunità meridionale. «E certamente», nota de Martino, «la precarietà dei beni alimentari della vita, l’incertezza delle prospettive concernenti il futuro, la pressione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e sociali non controllabili, la carenza di forme di assistenza sociale, l’asprezza della fatica nel quadro di una economia agricola arretrata»759 costituivano fertile terreno per il porsi e il mantenersi di specifiche tradizioni intorno ai sempre presenti “momenti critici” umani. Tra questi momenti critici, quello specifico della morte, mostra subito il “limite della regola” e diventa in questa civiltà altamente ritualizzato, tanto da costituirsi tradizionalmente come “tecnica del compianto”. Il tema centrale dello studio demartiniano sul lamento funebre del Sud italiano è quello del rischio di non poter “decidere” per la storia di fronte al drammatico passaggio mondano dalla vita alla morte, cioè di fronte alla perdita di una “persona cara” che si fatica a far “morire” culturalmente riplasmando in “regola del passare” la morte biologica:

Nella perdita di una persona cara noi sperimentiamo al più alto grado l’asprezza di questa fatica, sia perché ciò che si perde è una persona che era quasi noi stessi, sia perché la morte fisica della persona cara ci pone nel modo più crudo davanti al conflitto fra ciò che passa irrevocabilmente senza di noi (la morte come fatto della “natura”) e ciò che dobbiamo far passare nel valore (la morte come condizione per esplicarsi della eterna forza rigenerante della “cultura”). La fatica di “far passare” la persona cara che è passata in senso naturale, cioè senza il nostro sforzo culturale, costituisce appunto quel vario dinamismo di affetti e di pensieri che va sotto il nome di cordoglio o di lutto: ed è la “varia eccellenza” del lavoro produttivo e differenziato a tramutare lo “strazio” –per

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