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RISCHIO ESTREMO DEL MONDO LA PATOLOGIA DEL “FINIRE” E DEL “PERDERSI”

PERSONA E CULTURA

IL TRASCENDIMENTO COME FONDAZIONE DEL MONDO DEI VALORI (PERSONA E STORIA)

4.6 RISCHIO ESTREMO DEL MONDO LA PATOLOGIA DEL “FINIRE” E DEL “PERDERSI”

Si era detto che il processo di distruggere e ricostruire il mondo deve esplicarsi in tutti gli uomini, quale che sia la coscienza che ne hanno. «Ma appunto perché deve esplicarsi può sempre non esplicarsi: sia nelle singole valorizzazioni (onde la loro negatività, il loro irrigidimento dogmatico e il loro perdersi), sia su tutto il fronte del valorizzabile (onde la crisi delle crisi, e cioè il ritirarsi dell’ethos del trascendimento da tutte le valorizzazioni possibili del mondo, la demondanizzazione passiva del mondo)».556 Di questi due specifici modi di “non esplicarsi” parleremo meglio nella prossima sezione. Ora consideriamo soltanto in linee generali che così come il “rischio estremo” della naturalizzazione appartiene alla persona, questo si riflette direttamente nella mondanità; così nell’esperienza di crisi –parafrasando de Martino- il mondo perde la sua

condizione fondamentale, ed entra nel finire.557 «Appartiene dunque al “mondo” la possibilità del suo “finire”, ed ogni “mondo culturale” ne è travagliato nell’intimo, così come riposa interamente sull’ethos della valorizzazione e sullo slancio inaugurale della valorizzazione utilizzante».558 Il dover esserci nel mondo, in tal senso, resta «compito inesauribile di valorizzazione in lotta contro il rischio di non poterci essere in nessun mondo possibile».559 Ora, questo “non poterci essere” nel mondo culturale non ha nulla a che vedere col fisiologico “perdere un mondo”, che è condizione di sviluppo e maturazione personale; né con il fisiologico “perdersi nel mondo”, che è ovvietà mondana da cui posso manifestarmi come iniziativa personale nuova. «In questa prospettiva “perdere il mondo” significa perdere l’oltre della presentificazione valorizzatrice, e quindi non soltanto il mondo valorizzato, ma lo stesso trovarsi in un mondo, lo stesso in-der-Welt-sein».560 Tale catastrofica esperienza è vissuta dalla persona come “rischio” della fine del mondo

555 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 601.

556 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 142. Anche questo è un importante stacco di de Martino da Heidegger, il

quale non contempla la possibilità di poter disobbedire all’imperativo etico del non star soli. Spiega, dunque, de Martino: «Heidegger non assume nella costituzione dell’esserci il non esserci (e quindi il rischio di non poter essere in nessun mondo culturale possibile, il rischio di non poter essere con)», ivi, p. 99.

557 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 637. 558 Ivi, p. 577

559 Ivi, p. 678. 560 Ivi, pp. 637-638.

126 (Weltuntergangser-lebnis), 561 a testimonianza del fatto che, proprio perché «il “trovarsi” nella vita è possibile per entro un “porsi” secondo valore nella vita stessa»,562 è possibile anche che quel “trovarsi” incontri il limite di questo porsi. Mentre il “porsi” è l’anastrofe culturale, cioè «la ripresa e la riplasmazione del finire, il recupero di senso, il configurarsi della prospettiva dell’operabile, il dischiudersi ad una progettazione comunitaria e comunicabile della vita»,563 il limite è la pura natura, la “catastrofe” della cultura, del valore, della storia. Ora, anastrofe e catastrofe segnano la soglia dell’intrascendibilità; questa anastrofe culturale corrisponde all’imperativo etico a cui è soggetta la persona, ovvero a quel non devi essere sola, che la caratterizza; mentre la catastrofe è in diretta corrispondenza con il rischio a cui la persona è esposta, ovvero alla perdita del valore, della differenza culturale, della distinzione categoriale, della relazione umana, quindi è morte o follia.

La catastrofe, è da specificare, non corrisponde all’uscita dall’oblio dell’ovvietà col ritorno al mondo-della-vita. Non dobbiamo scordare, in proposito, come l’ethos che sostiene il mondo sia un trascendentale intrascendibile: ogni esperienza umana avviene in esso e per esso. E come per l’uomo è impossibile tornare alla natura pura così è impossibile cogliere il mondo in sé. Pertanto, evocare una qualsivoglia “datità mondana” «è solo possibile come ineliminabile residuo della valorizzazione, a cominciare da quella che lo rende partecipe di un progetto comunitario dell’utilizzabile».564 Ciò significa che il mondo non si “deve” perdere, poiché qualora l’ethos entrasse in crisi su tutto il fronte del valorizzabile, coinvolgendo di conseguenza anche la emergenza del mondo, non resta l’ambiente animale; «non resta la “datità” del mondo e di me stesso, ma si perde la stessa datità, non ci sono più né un mondo dato in cui mi trovo né un io dato che mi è stato assegnato».565 L’uomo, pertanto, senza il cosmo domestico si “inabissa nel nulla”, resta cosa impossibile, per lui, tentare un “ritorno” al mondo-della-vita.566

561 Il concetto è tratto dalla opera psichiatrica di Karl Jaspers: Allgemeine Psychopatologie, Springer Verlag, Berlin-

Göttingen-Heidelberg 1953, 6° ed. (I° ed. 1913; 5° ed. 1946 e 6° ed. 1953 immutate). Da qui de Martino studia le “esperienze deliranti primarie” (disposizione delirante con nuovi significati dell’Umwelt), i Mutamenti (sentimento non familiare di mutamento: come si fosse affatturati, stregati, con incremento della sessualità, etc), l’esperienza WUE, cioè di fine del mondo (Weltuntergangserlebnis: mondo esterno mutato, depersonalizzazione, inizio delle psicosi, l’uomo maniaco-depressivo. Scrive Anna Donise: «La Psicopatologia generale di Jaspers viene riletta come indagine psicopatologica di una progressiva perdita di senso del mondo, che va dai diversi stati del delirio (dallo stato d’animo delirante al delirio percettivo, fino al delirio di significato) al blocco catalettico. […] La fenomenologia psicopatologica jaspersiana è impiegata da De Martino per delineare i vissuti della crisi contro la quale è possibile un riscatto», Donise, “Ragione ed etica in Ernesto de Martino”, in La filosofia di Ernesto de Martino, Paradigmi, M. Decoro e M. Marraffa a cura di, Anno XXXI, Franco Angeli, Maggio-agosto 2013, pp. 84.

562 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p., p. 638. 563 Ivi, p. 637.

564 Ivi, p. 638. 565 Ibidem.

566 Come già sappiamo, de Martino, in distacco con Husserl, precisa: «C’è infatti una categoria oltre la quale non si può

risalire, è il trascendimento della vita per la valorizzazione intersoggettiva della vita stessa, noi siamo “al” mondo (o “nel” mondo) , ma lo stesso “esser perduti” in esso secondo il “per lo più” della vita quotidiana, secondo le abitudini, secondo, l’atteggiamento naturale, ecc., fa parte di un “progetto comunitario dell’utilizzabile” in quanto forma

127 Senza dubbio il “mondo” in quanto condizionato da un certo progetto comunitario dell’utilizzabile, presenta i limiti di mondanizzazione o cosmicizzazione che son propri di questo progetto culturalmente condizionato: […] il mondo non è mai l’interamente utilizzabile, ma solo l’utilizzabile entro i limiti storici di una certa progettazione: ciò significa che oltre tali limiti non stanno le cose in sé, o un altro mondo, ma il non-mondo, l’acosmico, il caos, il nulla.567

Si era visto finora come senza sfondo domestico, senza datità “anonima e appaesata” non si può emergere nell’hic et nunc del presente; dove questo orizzonte non lo troviamo “già dato”, poiché è esso stesso “sforzo”, ovvero «è tale in quanto in esso risaliamo istantaneamente la china di una faticosissima storia umana, senza memoria di nomi, di date e di eventi, testimoniante di sé unicamente appunto nella domesticità e nell’appaesamento dello sfondo».568 Ciò significa, continua a spiegare de Martino, che sebbene questa storia certamente sia “sepolta nell’inconscio, contratta nell’ovvio e nell’abituale”, tuttavia resta necessaria nel sostenere l’emergenza dell’uomo; necessaria e imprescindibile dal momento che «il suo destrutturarsi segna il chiudersi di qualsiasi possibile orizzonte operativo e annunzia la catastrofe radicale dell’esserci-nel-mondo».569 Quello stesso dipanarsi personale tra l’“imperativo” e il “rischio” del trascendimento si riversa direttamente, manifesto e imperante, nella drammatica condizione mondana, per cui il mondo è manifestazione storica nell’onnicomprensività dell’ethos: «Il dover esserci nel mondo culturale, il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile: in questa tensione vive l’ethos primordiale della presentificazione»,570 dichiara de Martino. Avviene allora che, come in un domino, se crolla il primo mattoncino della mondanità ovvia e appaesata (il parlare, il camminare, il mangiare, ecc.), tutto il resto gradatamente crolla. Se lo sfondo domestico, nella normalità, funge da suolo saldo da cui emergere con le proprie biografiche iniziative, col disgregarsi di questo orizzonte patrio la sfera privata viene soffocata dallo stesso sfondo ovvio che, pur restando ovvietà per lo sguardo altrui, appare alla persona interessata dalla crisi iniziativa impegnativa e complicata: il mangiare, il bere, il

inaugurale dell’ethos della progettazione culturale: un progetto ricco di storia inconsapevole di cui possiamo renderci consapevoli, non altro. Oppure il mondo potrà esser sorpreso come mondo dell’arte, o della vita morale, o della scienza, e non mai a partire dal “mondo della vita”, ma sempre dall’ethos valorizzante che trascende la vita senza mai metterci in contatto diretto né con un puro ethos in sé esaurito né con una vita immediata ed ingenua “prima di qualsiasi categoria”», E. de Martino, Scritti filosofici…, op. cit., p. 124. Scrive in proposito Clara Gallini: «La datità del mondo (nel rapporto con gli oggetti e con gli uomini) è tale perché è resa possibile dall’ethos del trascendimento. Metterla “tra parentesi” significa valutare naturalisticamente, come sempre dato, ciò che al contrario è prodotto culturale secondo valore. Gli evidenti calchi del linguaggio husserliano vanno intesi come riferimenti su cui l’A. esercita una critica interna. […] La natura “in sé” esiste solo nella misura in cui riveste un significato pratico ed entra, rispetto all’uomo, in un rapporto di utilizzazione. L’orizzonte dell’utilizzazione (cioè l’economico) riplasma inauguralmente la vita come mondo di “cose” domestiche. Il mondo è sempre un mondo culturale, che si esperisce entro un progetto comunitario di operabilità. È ripresa anastrofica del rischio di una catastrofe dell’ethos che la sostiene», C. Gallini, in E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 636.

567 Ivi, p. 577. 568 Ivi, p. 560. 569 Ibidem.

128 camminare, il dormire si fanno “problemi” imponenti; e in tutto questo rumore dell’ovvio, l’iniziativa personale si contrae fino ad annientarsi.

Quando la sommessa coralità operativa del mondo perde il suo carattere di “sfondo” in cui si inaugura la mia iniziativa valorizzatrice, quando lo sfondo diventa problema e tutto è rimesso in causa senza lasciar margine per il trascendimento e senza farsi “punto d’appoggio” per il “salto originario”, allora il mondo perde il suo momento di “domesticità”, di “patria dell’agire”, di solido “suolo” su cui metter radici operative qualificate, e diventa ciò che spossessa, cioè che ruba ogni sfera privata.571

Ora, de Martino –e lo approfondiremo nella sezione ultima di questo lavoro- rinviene questo crollo mondano in due importanti esperienze negative relative al mondano, diverse per intensità ma entrambe infedeli alla dimensione morale e all’ethos che la sostiene: il patologico “perdersi”, che è crisi della patria e si manifesta con tentativi intellettuali e artistici in “lotta” contro l’ovvietà mondana svalutata come “punto d’appoggio”, quindi sostituita col proprio malessere privato e cifrato (apocalisse culturale senza escaton); e, ben più grave, il patologico “finire”, che è crisi dell’intenzionamento sotto la forma di due opzioni (lo scacco del trascendimento e la vera e propria fine del mondo) e che de Martino studia specialmente con la mediazione del documento psicopatologico (apocalisse psicopatologica). Qui lo studioso ritrova le esperienze di “depersonalizzazione” e “derealizzazione”, quindi il delirio di negazione e il vissuto di fine del mondo anticipato dallo stato di angoscia, «quando cioè si annunzia, con varie modalità che l’analisi deve chiarire, l’inversione del trascendimento intenzionante sino a colpire e disarticolare lo stesso ordine inaugurale di un “mondo possibile”: una caduta che converte l’altro in tutt’altro, e che si profila come il rischio esistenziale per eccellenza».572 E come è impossibile tornare all’utopico “stato di natura senza cultura”, così resta impossibile, nel crollo del mondo, sperimentare l’esperienza “zero” del limite, cioè l’assenza della storia. L’uomo fuori dalla storia, cioè fuori dal mondo, è già morte (sperimentabile solo come morte altrui) o già incosciente follia: gli oggetti e il corpo si “spalancano sul nulla” avviandosi verso la fine, e con essi le “memorie operative” che li rendevano cose intramondane e corpi personali, i quali si fanno spersonalizzati, demondanizzati, quindi non più cose “su cui agire” e “corpi agenti” sulle cose ma cose “mostruose” e ingovernabili e corpi agiti-da (dagli oggetti stessi, dalla natura, da forze occulte). È, questa, la crisi della persona, del mondo, della storia; una crisi che sempre l’angoscia annuncia. «Il crollo totale della presentificazione perde la storicità di queste memorie, esperendo con ciò l’annientarsi dell’esserci- nel-mondo, e paventando l’esperienza-zero che avanza».573 Ma poiché questa “esperienza-zero” non è esperibile dall’uomo, in quanto è l’annientarsi stesso dell’ethos –come tale inesprimibile al di fuori della storia-, questo annientarsi mondano non è in sé zero, sostiene de Martino, ma più

571 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., pp. 648-649. 572 Ivi, p. 577.

129 precisamente “fa avanzare lo zero”, è “vissuto del rischio dello zero”: «E’ un annientarsi in cui si configura il sospetto, la mostruosità e, in genere una intenzionalità rovesciata carica di estraneità distruttiva, cioè il perdersi della presentificazione intenzionante, sotto la specie dell’essere-agito, della trama occulta, della allusività sospetta, e infine della mostruosità figurativa».574 De Martino, in tal senso, non parlerà mai di una vera e propria “fine del mondo” –vedremo meglio più avanti- ma sempre di “vissuto di fine del mondo”.575 Ecco che in questa radicale esperienza di intenzionalità deformata e deformante o, come scrive de Martino intenzionalità che “muta di segno”, allora “tutto” si problematizza; tutto nel senso di “tutto ciò che era ovvio” e che come tale fungeva da sfondo per l’emergenza personale. Diviene allora angoscioso “problema”, esce dalla domesticità il camminare, ed il mangiare, il dormire così come ogni ovvietà a cominciare al proprio corpo che, sfuggito alla fedeltà silenziosa, diviene gesto infedele e problematico, che è quello proprio del folle che tradisce, nel dramma mondano che lo travaglia, il dover essere che lo sosteneva; che non coglie più gli oggetti come segni intramondani ma li subisce angosciosamente come cose della natura, ingovernabili e nemiche.

Ed ecco che la pipa o la forchetta o la maniglia della porta o il bicchiere di birra diventano un problema, cioè smarriscono il loro significato di soluzioni culturali dell’utilizzabile, e si spalancano per così dire sul “nulla”. Anche la strumentalità del proprio corpo si problematizza, nel senso che si spoglia di quel suo carattere strumentale, per cui ci appropriamo continuamente delle nostre membra e dei nostri organi secondo una tradizione culturale mimico-operativa che viene ridecisa di continuo non partendo mai dallo zero, e aggiungendo sempre qualcosa oltre lo zero (ogni decisione mimico-operativa ha qualche frangia di novità, per abitudinaria che sia). Ed ecco che il chinarsi per raccogliere una carta senza riuscirvi è un atto che tende a staccarsi dal processo continuo di appropriazione corporea, e ad essere avvertito come servile esser-agito-da: il piccolo insuccesso operativo dà inizio a un vissuto di spossessamento che si traduce nel pensiero ossessivo di non essere più libero. Insomma ci si mette, anche nella sfera mimico-operativa, non più al di qua dell’appropriazione, ma al di là della resistenza, spogliandosi dell’appropriarsi.576

574 Ibidem.

575 «Tale vissuto è […] un “rischio antropologico permanente” – un ‘rischio vissuto’ che mai può essere eliminato,

fintantoché si dà l’esserci, la presenza, ovvero fintantoché c’è storia. Ma in che senso De Martino parla di “vissuto della fine del mondo” e non già più semplicemente di “fine del mondo”? Egli parla di ‘vissuto’ appunto perché la fine del mondo è un ‘impossibile’ che può essere esperito solo come rischio – essa viene esperita da quella presenza che vive come se il mondo finisse. La ‘fine del mondo’ non può essere oggetto di esperienza (in questo senso si dice che è un ‘impossibile’), giacché essa, qualora accadesse, coinciderebbe con la stessa fine del soggetto che dovrebbe farne esperienza. Analogamente al ‘rischio della presenza’, essa emerge quale contraddizione, e soltanto come contraddizione può essere patita. In tal senso, la fine del mondo, proprio in quanto vissuto, è una ‘malattia’ e non già qualcosa (ad esempio, un cataclisma) che può o non può accadere. E di malattia si tratta, nella misura in cui l’uomo, carente di forza morale, non è in grado di sopravvivere a finire di un mondo, quando non riesce a progettare nuova vita e a lottare per vincere la morte attraverso un’opera che segni un ulteriore ricominciare», S.F. Berardini, cit., p. 367.

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CAPITOLO V

LA TRASCENDENZA COME GUARENTIGIA DEL MONDO DEI VALORI

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