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PERSONA E CULTURA

IL TRASCENDIMENTO COME FONDAZIONE DEL MONDO DEI VALORI (PERSONA E STORIA)

4.4 GERARCHIZZAZIONE DEL MONDO

In linea generale, la “gerarchizzazione del mondo” rappresenta per entro il decidente divenire della persona «la distinzione tra mondo come sfondo domestico di operabilità e mondo come flusso di emergenze egemoniche»,522 per cui vi è certamente differenza “morale” (segnatamente all’intensità, e non alla bontà) tra l’ovvietà mondana appena vista e la mia iniziativa. Vediamo meglio. Ora, nel continuo e fisiologico processo di “perdere un mondo” e “perdersi nel mondo” peculiare alla umana dimensione morale, tutti questi mondi perduti o conquistati, ovvi o impegnativamente decisi, richiamanti fedeltà o iniziativa, così come gli atti della persona, stanno tra loro in rapporto teleologico-gerarchico, ovvero l’umana mondanità, soggetta al continuo “muori e diventa”, consiste in una continua emersione e sommersione di mondi in base alle esigenze del presentificarsi personale. «La presentificazione mondanizzante è dunque storicamente gerarchizzata: il doverci essere nel mondo è un ordine di “mondi”, cioè di valorizzazioni mondane, che si ricapitola di continuo nell’unità dinamica del mondo culturale storicamente determinato, e che partecipa all’orizzonte ideale del doverci essere».523 “Gerarchia del mondo” significa più semplicemente manifestazione dell’ethos a vari gradi. Ovvero, sia che io che cammini sia che io rifletta filosoficamente sto compiendo una scelta fedele all’ethos e in cui questo principio si manifesta; ma il mio camminare richiede “meno sforzo” all’ethos del mio filosofare; del resto, la mia vita non potrà mai ridursi al solo filosofare, ma sempre esige momenti di meno intensa liberazione morale. Quando de Martino parla di “gerarchia dei gradi dell’ethos del trascendimento” si riferisce alla «maggiore o minore energia con cui esso si afferma: onde accade che nella vita quotidiana non si è sempre eroi, e del resto beneficamente si vive di abitudini, di costumi passivamente accolti, di opinioni correnti, di frasi o di gesti cerimoniali, di anonimie o addirittura di stereotipia. Proprio questa varia energia con cui si dispiega l’ethos del trascendimento rende umano l’uomo, in quanto essere che lavora ma, anche, si stanca».524 Nell’uomo, così, che si stanchi o che

521 Ivi, p. 650. 522 Ivi, p. 559.

523E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 103.

524 Qui de Martino avanza esplicitamente della critiche al concetto di “medietà” o “quotidianità media” dell’esserci

119 lavori, la regola culturale emerge. L’esserci, insomma, «è sempre in un far differenza»,525 pure nell’abitudine o nella necessità del vivere. Non vanno quindi svalutate, scrive de Martino, quelle forme culturali più vicine all’utilizzabile e all’“appagante”, «come se questa forma di trascendimento non potesse manifestare il suo proprio eroismo, la sua propria volontà di cultura e di storia»526 ed infatti «certamente anche qui vi è coraggio e pigrizia, anonimia e passività nel sistema dato e contributo personale, scoperta, innovazione, rivoluzione: cioè anche qui vale la gerarchia dei gradi dell’ethos del trascendimento».527 Come già detto per la persona, tale pluralità mondana si compone come silenzioso, ovvio orizzonte mondano (das man) che, a partire dal corpo, “abbraccia” e sostiene gli altri più impegnativi nel medesimo ordine personale. Ed infatti

L’emergenza presentificante ha luogo nella domesticità di uno sfondo, cioè nell’assunzione di una datità ovvia, mantenuta nell’anonimato, e tuttavia senza problematicità attuale proprio perché concrezione di passati o remotissimi trascendimenti che “una volta” furono presentificazioni nella storia del singolo come in quella della umanità. In tale sfondo di presentificazione e domesticazioni culturali avvenute una volta e che ora stanno come datità ovvia, anonima, disindividuata, la presentificazione attuale secondo valore si fa margine e si dà concreto orizzonte di domesticazione operativa qualificata: emerge, cioè, secondo orientamenti di volta in volta egemonici, secondo questo o quel telos. Ora questo immenso “affidarsi a” per “raccogliersi in” […] sta come ordine umano che produce vita e bisogni e mezzi per la soddisfazione dei bisogni, ed in cui la fedeltà alle domesticazioni utilizzanti già una volta avvenute fa da sfondo condizionante al concentrarsi in una certo ben determinata utilizzazione attuale, nella varia gradualità della “applicazione” più o meno meccanica e abitudinaria, dell’adattamento di tradizioni tecniche operative, della innovazione, della invenzione.528

Detto in altri termini, senza la mia mondanità domestica che comprende, silenziosamente, il mio dover nutrirmi, dormire, camminare, e parlare, che è già un “si mangia così”, “si dorme così”, “si cammina così”, “si parla così”, senza tutto ciò verrebbe meno anche il mio “mondo filosofico” o il mio “mondo tecnico” o, ancora, il mio “mondo scientifico” in cui trovano posto il mio speculare di filosofia, di matematica o di astronomia. Senza domesticità ovvia non vi sarebbe la mia emergenza presentificante che si rinnova nella attualità del mio esistere personale. È grazie al fatto che questo mio incessante e rinnovantesi mondo del camminare, dormire, parlare e nutrirmi io posso lasciarlo “nello sfondo", quindi senza doverlo problematizzare ma “dandolo per scontato”

comunque decide per la storia sebbene in modi “più bassi” di energia presentificante. Cfr Scritti filosofici alle pp. 100 e segg. In particolare, «La heideggeriana “media quotidianità dell’esserci” è mondanità inautentica dell’esistere, copertura, fonte di illusioni, smarrimento nell’anonimia, estraneazione, ecc. Ora il mondo dell’utilizzabile e del sociale è in realtà la testimonianza inaugurale dell’ethos del trascendimento, in quanto fonda un mondo di “fedeltà” intersoggettive che va ben “oltre” il piacere e il dolore “individuali” fondando al tempo stesso un orizzonte di possibili iniziative», ivi, p. 109. Scrive ancora de Martino: «Se Heidegger ha potuto teorizzare l’esserci-nel-mondo come modalità inautentica dell’essere dell’esserci, è perché ha identificato l’esserci-nel-mondo con il valore socio- economico, degradando questo valore nell’anonimia del Das Man: nel che si riflette semplicemente la feticizzazione delle alienazioni della società borghese in crisi», ivi, p. 166

525 Ivi, p. 100. 526 Ivi, p. 101. 527 Ibidem.

120 (dal momento che è già stato “problema” nella mia infanzia o per uomini del passato, mediante i quali si è silenziosamente convalidato divenendo ovvio), che io posso impegnarmi in opere mondanamente più esigenti, ad esempio leggere e scrivere, contare o moltiplicare; avviandomi, infine, ad iniziative dotate di alta individualità, responsabilità e impegno, quali la speculazione filosofica o l’invenzione fisico-matematica. «Mentre scrivo a macchina questi fogli, lo scrivere a macchina si svolge sul piano delle abilità divenute così agevoli da poter essere affidate per l’esecuzione al piano delle attività riflesse: ma il mio lavoro non è quello del dattilografo ma di chi scrive saggi»,529 precisa de Martino distinguendo l’ovvietà dattilografica dalla più impegnativa invenzione saggistica. Ma per quanto l’essere saggista emerga egemonicamente sull’automatico scrivere a macchina, senza la possibilità di “lasciare in margine” questa capacità di scrivere, non potrebbe mai emergere l’azione egemonica di comporre un saggio scientifico. Ciò significa che senza una gerarchizzazione del decidere nessun lavoro può darsi nella persona; sempre qualcosa deve emergere rispetto a qualcos’altro che deve stare come sfondo per garantire quell’emersione. «Il “lavoro” comporta sempre elementi inconsci ma, perché sia lavoro, deve tendere alla scelta congeniale, alla concentrazione cosciente, alla responsabilità attiva, alla prospettiva unitaria del risultato verso cui si muovono coordinandosi le singole abilità, alla possibilità di consumare, volendo, il prodotto, e soprattutto alla coscienza di lavorare per la comunità a cui si appartiene».530 E così, senza l’inaugurale utilizzazione degli istinti, dei beni, del controllo della natura e dei bisogni non si potrebbe parlare nemmeno di arte, di logica, di morale, di scienza, eccetera. Il genio non è “genio” nel senso che, senza ausilio altrui e in piena autonomia, giunge a risultanti sorprendenti nell’ambito della cultura; esso è genio perché, nel suo proprio ordine gerarchico di mondi, vi è uno sfondo domestico –non importa se fedelmente riconosciuto o se polemizzato rispetto a una “cattiva” educazione ricevuta- che permette e sostiene le sue invenzioni. Anche per il genio, il mondo domestico delle cose è, parafrasando de Martino, “indice di abilità possibili o attuali”, un mondo che seppure «guadagnato e costruito nella vita individuale attraverso una educazione complicata e difficile, culturalmente condizionata e relazionata, e che pur presentando limiti che sono in rapporto con tale educazione e con le attitudini personali, è sempre nel complesso un ordine che è alla base dell’esserci-nel-mondo, rendendoci disponibili per altre valorizzazioni»531. In questa gerarchizzazione di mondi, pertanto, de Martino individua tre momenti diversi ma posti in sintesi gerarchica nella persona: «Domesticità dello sfondo, orizzonte di operabilità domesticatrice, emergenza presentificante della valorizzazione attuale iterantesi sempre di nuovo senza tuttavia esaurire mai la totalità ideale dell’essere, questi tre momenti costituiscono l’articolarsi concreto

529 Ivi, p. 615. 530 Ibidem. 531 Ivi, p. 641.

121 dell’ethos del trascendimento della vita».532 A partire dallo sfondo, insomma, hanno inizio per l’uomo tutta una serie di emergenze, che vanno da un grado di bassissimo impegno, come quelle legate al corpo, ad esempio il camminare; passando per “decisioni agevoli”, come quelli di un operaio alla catena di montaggio, per il quale è sì quasi automatico controllare la produzione di quell’oggetto che vede e rivede ogni giorno ma resta sempre più consapevole e deciso dell’aver dovuto camminare da casa sua per giungere sul posto di lavoro; quindi si passa a quelle di una più vigile “responsabilità operativa”, che giunge alla speculazione e perfino alla invenzione: si pensi allo stesso operaio che intuisce e mette in pratica un nuovo modo di fabbricare quell’oggetto stesso che ogni giorno vede scorrere sulla catena di montaggio.

Attraverso l’orizzonte della utilizzazione la vita riceve la sua plasmazione inaugurale come mondo di “cose” domestiche, ripartito cioè secondo sfere di operabilità utilitaria, di ambiti di resistenza e di possibili memorie di “ciò che se ne può fare” evocabili di volta in volta in rapporto ai comportamenti concreti della loro utilizzazione e delle corrispondenti iniziative. La domesticità del mondo è in primo luogo e innanzitutto questo esser fra corpi inutilizzabili col nostro corpo utilizzabile: domesticità che in parte costituisce lo sfondo opaco della vita quotidiana, in parte affiora in decisioni così agevoli da non richiedere un impegno particolare della coscienza (il comportarsi abitudinario seminconscio o addirittura inconscio, l’adoperare quotidiano o anche i gesti quasi automatici di un operaio alla catena di montaggio), e in parte infine emerge in iniziative che possono richiedere la più alta tensione della coscienza e un vigile senso di responsabilità operativa o addirittura d’invenzione di una tecnica dell’operare completamente nuova.533

Il mondo, in questa dinamica e diveniente gerarchizzazione sintetica, è continuamente “dato” e “ripreso”, “allontanato” e “riavvicinato”; dato nella totalità comunitaria e ripreso nella specifica e singola valorizzazione; «è sempre allontanato nell’abitudinario per poter tracciare in questo vissuto più o meno anonimo e socializzato la figura intima, personale, emergente della propria personale iniziativa valorizzatrice».534 La singola biografia culturale è già legata, e indissolubilmente, alla ovvietà abitudinaria della patria mondana, e si manifesta quanto più è ad essa fedele, col suo passato e le sue trascorse generazioni. «E se fanno suolo e patria su cui si innalza il compito personale dell’ora, è perché soltanto attraverso questa domesticità anonima del mondo è possibile rendersi disponibile per proseguirlo nella ripresa sempre rinnovantesi delle scelte “mie”, originali, singolarizzate».535 Si può emergere, dunque, come iniziativa “privata” e nella responsabilità operativa o, ancora, nell’invenzione “nuova” solo se questo emergere si erga egemonicamente al di sopra di uno sfondo subalterno; si può emergere solo se la gerarchizzazione prevede un mondo ovvio al di sotto o “a sostegno” del mondo nuovo. «Il singolo può “ricominciare” qualche aspetto del mondo –e lo ricomincia sempre cose se fosse il primo uomo che comincia ad essere uomo la prima volta- solo se tutti gli altri aspetti fanno momentaneamente da

532 Ivi, p. 640. 533 Ivi, p. 641. 534 Ivi, p. 648. 535 Ibidem.

122 sfondo»;536 e soltanto se, scrive de Martino, questo sfondo mondano è orizzonte –pure implicito- di senso umano, insomma «una testimonianza fondamentale di non-solitudine, di sommessa coralità operativa distendentesi nello spazio e nel tempo».537

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