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LA CORPOREITA’ LUOGO INAUGURALE DELLA EMERGENZA MORALE

PERSONA E NATURA

IL CORPO UMANO TRA NATURA E PERSONA

3.1 LA CORPOREITA’ LUOGO INAUGURALE DELLA EMERGENZA MORALE

Si è inteso fin qui che «affinché una civiltà sussista, una società funzioni, un linguaggio comunichi e dei valori circolino occorre progredire oltre la naturalità trascendente la vita».319 E abbiamo già potuto vedere come «all’uomo è vietato isolarsi nella stessa sfera della nutrizione. L’uomo sotto questo rapporto, è un animale in cui anche il mangiare diventa “problema”, e in cui la “fame” organica si riplasma in regime di “appetito” e di “gusti” corrispondenti alla ricerca e alla fabbricazione di cibi secondo regole, in un chiedere e in un avere –sempre secondo regole- il cibo fabbricato, in un modellare lo stesso appetito organico secondo alimenti socializzati e familiari».320 Ora, mentre la coerenza economica (l’utilità) è l’evento inaugurale dell’umano trascendere la vita nel valore, il primo luogo in cui l’uomo compie tale distacco inaugurale, è il corpo, che come tale va a costituire nell’uomo il “medium” tra natura e cultura, quindi responsabile della doppia natura umana animale e morale, luogo di manifestazione primordiale della persona come unità dinamica di ethos, vita e valore. E’ nel corpo, quindi, che si dà originariamente il telos della verità umana. Sappiamo, infatti, che senza un corpo l’ethos resta inespresso, così come il corpo non può farsi presenza, in quanto «la vita è sempre trascesa, l’ethos è sempre trascendimento: la vita al di qua del trascendimento e l’ethos nella sua assolutezza sono pertanto per loro natura inesprimibili»321. Così, cominciamo col dire che proprio perché «la condizione umana è natura che, mediante l’ethos della presenza, si solleva alla cultura»,322 non si può dare alcune persona se non dal corpo. La persona, in certo senso, è il corpo umano. Resta pur vero, come già detto, che di per sé il corpo biologico con la sua ripetizione vitale e i suoi istinti non differenziano l’uomo dalla bestia. Ed infatti «la corporeità, la individualità biologica, il vario “patire”, il bisogno di cibo, la maturazione della sessualità, ecc., appartengono alla sfera della vita»323. Ma se, appunto, in tutti gli animali, uomo compreso, «nutrirsi e riprodursi, fame e sessualità, denunziano la vita», nell’animale uomo, che è persona, «ci si nutre in tanti modi, il cibarsi è culturalmente plasmabile, e fame e sete si plasmano nel distinguere il cibo

319 Ivi, p. 673.

320 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 73. 321 Ivi, p. 30.

322E. de Martino, La fine del mondo…, cit., , p. 661. 323 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 68.

74 dal non cibo, un certo cibo che piace e sfama, così come la sessualità si plasma nel talora estremamente complicato ordine delle nozze possibili»324. Per comprendere meglio in che senso nell’uomo il corpo è valore, ritorniamo all’intenzionalità che l’ethos mantiene. Il corpo è nell’uomo corporeità intenzionante, ma non nel senso che i sensi “da soli” comunicano fra loro conoscendo, nella loro chiusura vitale, la realtà degli enti, ma di nuovo questo è da intendersi in ordine al trascendimento. Ed infatti per de Martino «se i sensi comunicano fra di loro e si aprono alla struttura delle cose ciò accade sempre attraverso un ordine di trascendimenti utilizzanti umani che sono incorporati in essi»325. Ad esempio, prosegue lo studioso, i nostri occhi in qualche modo “già” vedono il vetro rigido e fragile, così come il suo rompersi con un suono cristallino «ma questo vedere è possibile solo in una civiltà che abbia lavorato il vetro e che abbia incorporato nel vetro le esperienze di questo lavoro sino al punto da renderle ampiamente partecipi a tutti, nella misura in cui “oggetti di vetro” e “uso di oggetto di vetro” appartengono alla memoria, più o meno implicita e latente di ognuno».326 Per la stessa ragione, «la distinzione degli oggetti, naturali o artificiali, e quindi il loro costituirsi in unità percettive, è in rapporto con la distinzione di progetti operativi attuali o possibili»327. Ad esempio, scrive de Martino, «se distinguo il calamaio dal portacenere col quale è otticamente in contatto, ciò significa che il progetto operativo “calamaio” è diverso dal progetto operativo “portacenere” e tale distinzione percettiva non può interpretarsi diversamente che come invito a non intingere la penna nel portacenere e a non buttare la cenere nel calamaio».328 Distinguiamo intenzionalmente il calamaio dal portacenere perché i progetti operativi che coinvolgono questi enti sono diversi. «Analogamente ai fini del progetto operativo del prendere un libro e leggerlo, occorre vedere i libri separatamente uno per uno, e la loro distinzione nella biblioteca è concretamente inscindibile dalla possibilità di leggerli e dalla memoria operativa che essi racchiudono rispetto alla utilizzazione»329. Stessa cosa è da dirsi, prosegue lo studioso, per la conquista umana dello schema corporeo, ma anche del mondo esterno e della stessa “individualità conquistatrice”. Tutta l’umana appropriazione fisica «appare dunque inscindibile dall’abbisognare, dallo sforzo per superare certe resistenze che si oppongono alla soddisfazione dei bisogni, dalla

324 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 42

325 Questa considerazione è la risposta di de Martino ad un passo della Fenomenologia della percezione di Merleau-

Ponty (edizione francese, 1945) interamente riportato. Il filosofo francese scrive dei sensi che “comunicano tra di loro aprendosi alla struttura della cosa”. De Martino rimanda al trascendimento della natura questa “apertura”: «Senza la metallurgia e la capitalizzazione delle esperienze relative, senza la tessitura e la sensibilità che hanno reso comuni, e in genere senza orizzonti specifici di utilizzazione maturati in una certa storia culturale, come poter parlare di comunicazione dei sensi e di un loro aprirsi alla struttura delle cose a proposito dell’acciaio, del ferro, del lino?», E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 590.

326 Ibidem.

327 De Martino qui, invece, polemizza con la “psicologia della forma” (Gestalt), secondo la quale l’uomo costruirebbe

gli oggetti in unità prima di sapere cosa siano gli oggetti e quali esperienze possano compiersi con essi. Cfr ivi p. 594.

328 Ivi, pp. 594-595. 329 Ivi, p. 595.

75 istituzione di certe abilità e tecniche operative (dalla bocca nel succhiare il latte materno, delle mani nel prendere, dei piedi via via scoperti e impiegati nella deambulazione, ecc.)».330 Vi è un progressivo articolarsi, per l’uomo e a partire dalla natura, di resistenze e progetti, di attuazioni o possibilità, di “memorie di abilità” così come di “limiti nel poter essere abile”, «in uno strutturato affidarsi alle ovvietà dei comportamenti abitudinari e alla problematicità delle decisioni, secondo un limite mobile di volta in volta messo in causa dalla situazione».331 Il corpo umano è primariamente coinvolto in questo continuo processo di educazione al valore, il quale mai può prescindere «dalla società e dalla cultura, dal tipo di famiglia, dai progetti comunitari di utilizzazione che formano già tradizione degli adulti e che si trasmettono alle nuove generazioni»332. Anzitutto gli istinti, così, rientrano nella plasmazione culturale. De Martino non nega certamente, con questo, il fatto che l’istinto sia attività primitiva dell’organismo, ovvero innata, preformata, ereditata, dunque opposta a quella acquisita dell’individuo. «Gli istinti operano comunque in guisa sostanzialmente indipendente dalla esperienza individuale: entrano in azione senza apprendimento, non sono suscettibili di progresso, possono essere in rapporto con una certa maturazione organica (come l’istinto sessuale) ma non sono propriamente “acquisiti”»333. Questi però sono gli istinti considerati come “puri”; ed infatti nell’individuo, quale esso sia (anche animale-bestia, in un certo grado) «l’abitudine si innesta sull’istinto variamente modificandolo, e così pure l’addestramento: con l’abitudine e con l’addestramento l’istinto puro si sviluppa, si deforma, si riduce».334 Ora, accade che nella persona umana queste tendenze innate che sono gli istinti, diversamente da quanto avviene nella bestia, sono tendenze “miste” o acquisite, ovvero vengono riplasmate nel valore, fino ad emergere, a vari gradi, nella coscienza stessa e divenire conoscenza. Certamente, quelle tendenze innate che nell’uomo «mettono in giuoco solo i centri nervosi inferiori (midollo, bulbo, cervelletto e cervello medio) non si accompagnano a nessuna coscienza diretta»;335 così come pure ci sono movimenti riflessi coscienti ma totalmente indipendenti dalla coscienza, come ad esempio «la reazione della pupilla alla luce»336 Ma in generale si può dire che nell’uomo «la resistenza di origine fisica o morale, l’ostacolo –fisico o morale- alla soddisfazione, trasforma la tendenza in coscienza di un desiderio. Una affezione nata lentamente e diventata “abituale” non ha mai coscienza di sé. La coscienza della tendenza diventa conoscenza di essa quando si accompagna alla

330 Ivi, p. 596. 331 Ivi, pp. 596-597. 332Ivi, p. 597.

333 Ibidem. Importante fonte per lo studio dell’istinto è, per de Martino, il Manuel de psycologie di Paul Guillaume (Puf,

1952).

334 Ibidem. 335 Ivi, p. 604. 336 Ibidem.

76 rappresentazione degli oggetti e degli atti con cui la tendenza può essere soddisfatta».337 Una tendenza conosciuta può essere poi svincolata dalla situazione oggettiva; de Martino parla per questo di un “giuocare le tendenze”. E così:

Se gli istinti sono tendenze innate, e se negli animali inferiori sono il terreno elettivo per studiare gli istinti allo stato puro […], nell’uomo invece, oltre le tendenze innate, si afferma in larghissima misura la loro plasmazione sociale e individuale, cioè il costituirsi di tendenze acquisite o miste. Nell’uomo l’istinto dà una direzione generale all’attività, ma la esperienza acquisita, l’esempio degli altri, i modelli sociali e le tradizioni culturali, i valori della vita, plasmano con grande varietà i modi e i limiti della soddisfazione dell’istinto stesso338.

Così, a partire dagli istinti, «la natura è l’orizzonte che segnala la inesauribilità dell’ethos di valorizzazione»,339 ovvero senza la natura non si dà valore. In tal senso de Martino parla di necessità vitale e non morale: io non posso dirmi persona senza un corpo, esso mi è “necessario” per trascendere; ma io resto libero di trascendere o meno, e anche di decidere come trascendere. Nella persona, già dalla tenerissima età, perfino «lo stesso distacco dalla madre, nelle due modalità della nascita e dello svezzamento, è culturalmente plasmato, rientra cioè in una sfera di valorizzazioni adulte per cui non è mai, nelle società umane, un evento soltanto naturale».340 Insomma, sempre la vita per l’uomo è già forma culturale e non natura, ovvero «vita già valorizzata in una modalità intersoggettiva dell’abbisognare e del soddisfarsi»;341 e questa utilizzazione inaugurale ha inizio proprio dal corpo umano, che a tutti gli effetti si fa “pontefice” tra la vita e il valore, tra l’animalità e l’umanità. È perché vi è un corpo, così, che l’ethos può attuarsi, quindi che l’uomo può dirsi natura e cultura allo stesso tempo, senza che un principio escluda l’altro; «è per questo continuo trascendere la immediatezza della vita corporea che l’esserci si costituisce e si mantiene, ed è per questo universalizzarsi che la sua singolarizzazione emerge»;342 è per il corpo, dunque, che la persona è insieme singolarità e universalità. Il corpo dell’uomo, così, a differenza di quello della bestia è altra cosa. «Si consideri la più elementare delle tecniche del corpo, la stazione eretta: conquista complessa e lentissima forse già realizzata dagli australopitecidi e dai pitecantropi, ormai consolidata nei protoantropi, e che ogni uomo infante, con l’aiuto degli adulti, riconquista e riadatta alle circostanze della vita, variamente culturalizzandola (le varie andature istituzionali per civiltà, per classi sociali, per professioni e mestieri, per sessi, per età, per stili personali del camminare)».343 Il corpo attraversato dall’ethos è infatti “corporeità”, distinzione questa cara ad Husserl (con la sua individuazione di un Körper, “corpo oggetto, corpo anatomico” e un Leib,

337 Ibidem, pp. 598-599.

338 E. de Martino, La fine del mondo…, op. cit., p. 598. 339 Ivi, p. 649.

340 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 77. 341 Ivi, p. 69.

342 Ivi., p. 152. 343 Ivi, p. 127.

77 “corpo vissuto, corporeità”)344. Nel cogliere la “già data” valorizzazione del ciclo biologico naturale (nascere, respirare, dormire, mangiare, ecc.) o di alcune “tecniche del corpo”345, de Martino non sta quindi certamente negando come «un grande numero di funzioni nervose si compie in noi in modo del tutto inconscio. I movimenti peristaltici del tubo digestivo, le secrezioni dello stomaco, del pancreas, dell’intestino, l’apertura del piloro per l’evacuazione dello stomaco son riflessi dovuti alla presenza e alla trasformazione chimica degli alimenti»346, tali che «la cenestesia, il sentire continuo che noi abbiamo del nostro corpo, è una ripetizione incessante di vissuti organici diventata, per questo ripetere noi stessi, la ovvietà e la normalità dell’esserci in quanto corporeità»347. Egli vuole però mettere a fuoco filosoficamente come il corpo non venga mai colto dall’uomo come “natura in sè” (e quindi come movimento peristaltico, secrezione, ecc.), poiché –così come già detto per il distacco umano rispetto al sole e al grano- in fondo per l’uomo anche «i corpi sono ciò che se ne

può fare, secondo memorie operative culturali di volta in volta evocate, messe alla prova, riadattate

e modificate secondo livelli di consapevolezza che vanno dalle buone abitudini quotidiane alle invenzioni tecniche geniali»348. I corpi per l’uomo sono già valori e solo come tali ha senso affrontarli e conoscerli. Gli uomini, a differenza della bestia, non soltanto “sono” corpi ma “hanno” un corpo e come tale questo corpo “che io ho” viene intenzionato, come tutte le cose del mondo in cui mi imbatto come coscienza, secondo valore, dove questo essere e avere un corpo stanno tra loro in un rapporto di continua fusione: nell’atto di scrivere, ad esempio, io non afferro la mia mano, così «in rapporto alla mia mano, io non sono nello stesso atteggiamento utilizzante che in rapporto alla penna: io sono la mia mano»349. Ma nella malattia fisica, ad esempio, il corpo viene fuori come coscienza: io ho un corpo (malato) e come tale io sono chiamato a sceglierlo350. Sia ovvio sia meno ovvio, insomma, «il corpo è ovunque: è al termine del bastone su cui mi appoggio al suolo, al

344 Questa distinzione husserliana tra corpo biologico e “vissuto” fu ripresa felicemente da studiosi successivi che

dell’esserci come corporeità hanno tratto la loro fortuna, quali Merleau-Ponty, importante fonte per de Martino: in proposito, cfr le pp. 580-592 in La fine del mondo…, op. cit. fondamentale, altresì, la concezione del corpo in Sartre, alta fonte importante per de Martino in tal senso: «Sarte definisce il corpo, il proprio corpo, come “centro di riferimento totale indicato dalle cose”, “strumento e fine dell’azione”», de Martino, La fine del mondo, cit., p. 569. Le citazioni tra virgolette sono tratte dall’edizione francese di l’essere e il nulla (Parigi, 1943, p. 383).

345 Espressione presa in prestito dagli studi di Marcel Mauss. Cfr ibidem le pp. 605-609 per approfondimenti sulla fonte

di Mauss in de Martino. Inoltre, cfr pp. 385 e segg. al paragrafo “Le tecniche del corpo” in M. Mauss, Teoria generale

della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 2000.

346 E. de Martino, La fine del mondo…, op. cit., p. 604. 347 Ibidem.

348 Ivi, p. 533.

349 Questa riflessione matura, in de Martino, seguendo la lettura di Sartre L’essere e il nulla, nella versione francese

edita a Parigi nel 1943.

350«Anche questa infermità di cui patisco, per il fatto stesso che la vivo, io l’ho assunta, io la oltrepasso verso i miei

propri progetti, ne fo l’ostacolo necessario per il mio essere e non posso essere infermo senza scegliermi infermo, cioè senza scegliere il modo col quale costituisco la mia infermità (come “intollerabile”, come “umiliante”, “da dissimulare”, “da rivelare a tutti”, “oggetto di orgoglio”, “giustificazione dei miei scacchi”). Ma questo inafferrabile corpo, è precisamente la necessità che vi sia una scelta», J.P. Sartre, L'être et le néant, Paris, 1943, p. 389. Tradotto e citato da de Martino alla p. 571, ivi.

78 termine delle lenti astronomiche che mi mostrano gli astri, sulla sedia, nella casa tutta, poiché esso è l’adattamento a questi strumenti»351. Senza il corpo, come detto, l’ethos resterebbe muto; il corpo resta pertanto condizione del mio trascendimento nel mondo: «il mio corpo è nascita, razza, classe, struttura fisiologica, carattere».352 Solo nell’uomo si può allora affermare che, in virtù della coappartenenza di vita e valore nell’ethos si dà anche l’indifferenza psicofisica, per cui il concetto di corpo biologico, «deposta la sua materialità e la sua esteriorità», riacquista il significato spirituale, mentre il concetto di anima «per questo stesso riconoscimento della spiritualità del corpo, ha vinto la vergogna della “carne”, superando l’ideale ascetico».353

De Martino, come vedremo, studia le “tecniche del corpo” nel senso del corpo trasceso in comportamenti culturali che si possono differenziare a seconda dell’etnia o del periodo storico: la camminata, il valore attribuito al cadavere, l’addormentamento, eccetera. Ma altresì non tralascia l’interesse (più ridotto, almeno nei suoi appunti filosofici postumi) per l’universalità corporea propria di ogni uomo, di cui una parte è in comune con gli animali. Tra gli istinti di conservazione, egli riconosce quelli relativi alla funzione organica (respirare, mangiare e bere, l’equilibrio con la stazione eretta e la locomozione, il sonno, gli esercizi muscolari spontanei); quelli relativi alla difesa della personalità morale (es. l’inquietudine del bambino nella solitudine), quelli relativi alla conservazione della specie (es. la pubertà) e le tendenze sociali primitive (come la simpatia e l’imitazione)354. Inoltre, si interessa in senso universale alle emozioni, quali «reazioni viscerali ed espressioni (nell’atteggiamento del corpo, nella mimica, nel tono della voce, ecc.)»355; alle abitudini, che «si formano mediante un apprendimento e uno sforzo più o meno intenso e prolungato, poi tendono ad automatizzarsi, lasciando disponibili ulteriori valorizzazioni della vita»356; e alla personalità quale “unità della coscienza”, che «dipende dal suo contenuto e dalle esigenze di adattamento a una situazione e a un problema. Io mi vesto e allo stesso tempo penso alla riunione cui debbo assistere. Vestirsi è un’attività quasi macchinale, tuttavia fissata e regolata dalle percezioni. Le due correnti non hanno unità soggettiva reale: ma io rifletto che bisogna che mi affretti a vestirmi per arrivare in tempo alla mia riunione»357.

Prima di “passare in rassegna” i principali trascendimenti umani che principiano dal corpo, specie quelli strettamente dipendenti dalla ripetizione istintuale del ciclo biologico (respirare,

351 Ibidem.

352 Ibidem. Si consideri sempre la fonte di Sartre: «Il corpo come condizione permanente della possibilità della mia

coscienza in quanto coscienza del mondo, e in quanto progetto trascendente per il mio futuro», Sartre, op. cit., p. 393.

353 E. de Martino, Scritti Filosofici, cit., p. 62. De Martino riprende un passo di Croce su “Anima e corpo” tratto da

Filosofia e Storiografia (1947) in cui Croce tratta ciò in riferimento al vitale come forma.

354 E. de Martino, La fine del mondo, cit., cfr p. 599. 355 Ivi, p. 600.

356 Ibidem. 357 Ibidem.

79 mangiare, dormire, ecc.), è necessario venire a conoscere dell’esperienza cardinale per cui, secondo de Martino, l’uomo è persona e comincia la civiltà: la sessualità regolata nel valore. Con la regola sessuale si fonda, dunque, la possibilità del dispiegamento etico della persona, a partire dalla liberazione di sentimenti come amore, rispetto, devozione, fraternità, affrancati dalla perentoria necessità del soddisfacimento privato e della riproduzione. Se dunque il trascendimento inaugurale della coerenza economica fu, parafrasando de Martino, “soltanto la porta stretta di accesso al regno della cultura”, la regola sessuale è concretamente ed essenzialmente questa “porta stretta”, al di là della quale vi è la civiltà; primo coraggio che “sospinge a valicarne i confini”, fino alle vette dei più alti obblighi morali e della più consapevole realizzazione della persona.

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