• Non ci sono risultati.

SU ALCUNI FINDAMENTALI TRASCENDIMENTI DI ESPERIENZE CORPOREE PROPRIAMENTE UMANE (LINGUAGGIO, STAZIONE ERETTA, CAMMINATA, MANUALITA’).

PERSONA E NATURA

IL CORPO UMANO TRA NATURA E PERSONA

3.4 SU ALCUNI FINDAMENTALI TRASCENDIMENTI DI ESPERIENZE CORPOREE PROPRIAMENTE UMANE (LINGUAGGIO, STAZIONE ERETTA, CAMMINATA, MANUALITA’).

Ora, tra la scelta morale che nel cuore matura e il nulla morale a cui il cadavere riporta, vi è la realizzazione continua di opere mondane “giornaliere” che, dall’homo habilis all’homo sapiens, passando per l’homo herectus, emergono come fondamentali compiti etici che nell’immediato distinguono l’uomo dalla bestia che ne resta impotente: il parlare, la manualità, la stazione eretta (e il camminare). Se riprodursi, dormire, respirare, mangiare e morire sono azioni anche “animali”, diversamente il parlare, la statura eretta e il camminare che ne consegue, la manualità dotata di valore sono diversamente doveri solo umani. Il parlare è quel trascendimento umano per cui i segni della natura, appoggiandosi al trascendimento del “verso vocale” in parola, si superano in simboli. Questo movimento di distacco, peculiare della persona, altro non è che un continuo lavorio di simbolizzazione della realtà, dove ogni aspetto della natura rimanda a quello simbolico-vocale,

412E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 46.

413 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., pp. 591-592. De Martino studia “il problema dell’altro” sempre attingendo

dalla Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty, ampiamente citata ne La fine del mondo.

414 «Infatti, nel suo andar oltre irrelativo e senza soluzione, comunica caoticamente il proprio vuoto ad altri ambiti del

reale, e al tempo stesso i più disparati ambiti del reale, con progressione minacciosa, spiano l’occasione più accidentale per farsi simbolici rispetto al cadavere, e ripeterlo in una eco multipla senza fine», E. de Martino, Morte e

pianto rituale…, cit., p. 46.

415 «Infatti esso sta nella crisi dei sopravvissuti come contenuto in cui la presenza è rimasta impigliata e prigioniera,

onde torna a riproporsi in modo inautentico nell’estraneità e nella indomabilità della rappresentazione ossessiva o dell’allucinazione», ibidem.

416 «Si dibatte per i sopravvissuti nella infeconda polarità di repulsione e attrazione: infatti il suo scandalo respinge in

quanto centro di crisi e di dispersione, ma al tempo stesso comanda perentoriamente il rapporto, in una vicenda irrisolvente», E. de Martino, ibidem.

417 «Infatti il cadavere , come oggetto in crisi, non soltanto non mantiene le distanze rispetto agli altri oggetti, ma non

rispetta neanche la distanza rispetto alla presenza, e incombe su di essa catturandola via con sé», E. de Martino, ibidem.

92 connaturato ma indipendente dal segno reale della “cosa” o della “esperienza” evocata. Sappiamo che il segno in sé non distingue l’uomo dalla bestia. «I riflessi condizionati non vanno oltre il “segno”. Il suono del campanello diventa un segnale del cibo che sta per venire nel noto esperimento. […] Venti cani reagiscono ciascuno individualmente in modo identico al suono del campanello, ma non “comunicano” fra di loro attraverso il “simbolo” della parola cibo».419 Uomini e animali, così, condividono la “segnaletica” della comunicazione. «Ma gli uomini oltre ai segnali riconoscono anche i simboli, che hanno un carattere interpersonale o sociale».420 Il riconoscimento dei simboli, a partire dai simboli verbali, è già linguaggio, parola, voce umana dotata di senso.

Siano dati, in via di ipotesi teorica, tre animali più elevati degli scimpanzè e più in basso dell’homo sapiens, e si supponga che questi tre animali siano rimasti soli dopo la partenza della madre. Uno di questi tre ominidi vede una pietra usata sempre dalla madre, fa un gesto con le mani che implica felicità ed emette il suono ma-ma. Gli altri due ominidi, in una sorta di improvvisa illuminazione, comprendono che la pietra, i gesti con le mani e il suono ma-ma significano mamma per il primo. Un grande evento si è prodotto nel mondo! Il simbolo, che era individuale, è comunicato al secondo e al terzo ominide, e significa la stessa cosa per chi l’ha pronunziato e per gli altri due che lo hanno udito. Nasce un simbolo verbale, e da ora in poi useranno per denotare la madre o la pietra, o il gesto o la parola ma-ma. La pietra è un feticcio della madre, il gesto e la parola sono linguaggio. Il simbolo ma-ma sostituirà la pietra o il gesto, mediante esso un suono verbale visualizzerà la stessa immagine materna, rappresenterà una immagine non più strettamente individuale ma comune e comunicabile, non più legata al momento attuale in cui la madre è presente, ma la madre “nel passato” e la madre “nel futuro”.421

A partire dalla parola umana il simbolo è, scrive de Martino, prospettiva del passaggio dalla situazione alla storia, dalla vita al mondo, dalla natura alla cultura; prospettiva dunque di temporalità, in quanto col linguaggio posso evocare ciò che non vedo, ciò che vidi e ciò che spero di vedere, esperienza tutta umana che –approfondiremo più avanti- si affina per l’uomo nei valori della trascendenza, dove la parola profana si erge alle vette della parola sacra, rituale, mitica, evocando non più solo la realtà ordinaria ma anche il piano straordinario, metastorico. Basti ora tenere a mente che il simbolo è già mondo umano poiché, dichiara lo studioso, il mondo dei simboli è il

mondo dei semi di cultura.422 L’uomo è anzitutto animale simbolico -testimonia il parlare- in netto contrasto con la bestia che coglie solo i segni, dove i segni restano sottoposti alla necessità del vitale, senza trascendimento intersoggettivo in un “oltre”.

Anche i gesti, come appena detto, sono simbolici; in certo senso essi stessi “linguaggio” perché intrinsecamente comunicativi. Così come il camminare nell’uomo è già valorizzato. La stazione eretta e il gesto, restano nell’uomo trascendimenti strettamente interdipendenti in quanto se è vero che l’homo habilis precede epifanicamente l’homo erectus, resta pur vero che è grazie al

419 Ivi, p. 164. 420 Ibidem.

421 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 165. 422 ivi, p. 265.

93 fatto che cammino che le mie mani restano libere per ulteriori e più affinati trascendimenti. Ed infatti, scrive de Martino, «nel semplice camminare umano il corpo non è dato, ma messo in causa e

ripreso continuamente e totalmente ai fini di quella utilizzazione particolare che è lo spostarsi sul

suolo lasciando libere le braccia e le mani per altre valorizzazioni utilizzatrici».423 Il camminare umano non resta mai, come nella bestia, un evento non deciso, ma sempre e comunque «camminare è un’opera secondo valore, un’opera che –al pari di qualsiasi opera per il valore- ci libera dalla datità del corpo mettendola in causa e riprendendola, e ci fa emergere in virtù di questa ripresa».424 Nella persona il camminare è già “tecnica del corpo”, esperienza morale, “dovere etico”, antico quanto il pithecanthropus erectus ma attuale quanto quello doveroso degli infanti che tuttora lo apprendono con l’ausilio degli adulti (dove, di nuovo, senza l’umanità adulta nessun uomo camminerebbe), “tesaurizzando lentamente” –come si esprime de Martino- una primordiale conquista culturale umana dotata di domestica ovvietà:

Ora questo particolarissimo mettere in causa e riprendersi, impegnarsi e lasciarsi disponibile, che si realizza con la stazione eretta nel camminare costituisce un trascendimento del corpo: quando si cammina si evoca una tecnica e la si riadatta alla circostanza. Il fatto che il camminare per lo più viene eseguito “senza pensarci”, con la mente rivolta ad altro, etc., non significa che noi non andiamo via via presentificando la nostra deambulazione, ma soltanto che il doverci essere in essa è diventato per noi un dovere così elementare, un trascendimento del corpo così agevole, una emergenza così inaugurale, da rendere possibile, mentre pur ci siamo nella deambulazione, di esserci per altri trascendimenti e per altre emergenze, sia per quanto concerne l’utilizzabile, sia al di là di questo dominio della valorizzazione (per es. mentre camminiamo seguiamo il filo di un fantasma poetico o di un pensiero).425.

Il fatto stesso che il camminare nell’uomo sia evento “personale” (come ogni scelta morale) emerge dalle diverse camminate che distinguono, anche di poco, una persona da un’altra. Tutti gli uomini camminano, ma tutti in modo diverso. Così il camminare nel tempo è andato a differenziarsi in “numerose camminate culturali”, ognuna delle quali va a ricordare o rappresentare precise categorie di persone o valori. Il modellamento dell’andatura, spiega de Martino, può essere infatti dotato di un preciso valore sociale, di “stile personale”, di espressione di uno stato d’animo, di temporanea assunzione di un ruolo definito, eccetera. Egli ad esempio, ricorda quella “lenta e grave” (a causa della sua gamba fratturata nel terremoto di Casamicciola) di Benedetto Croce; quindi, l’andatura caratteristica dei pastori, dei contadini e degli uomini d’arme; quella ancheggiante delle ragazze Maori, molto apprezzata dagli uomini della loro etnia; ancora, «chi è stato a lungo costretto dalle abitudini carcerarie alle quotidiane passeggiate in fila nel cortile del carcere, conserva poi anche nella vita una andatura un po’ rigida, in cui le oscillazioni delle braccia

423 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., pp. 127. 424 Ivi, 128.

94 sono ridotte al minimo»426. Ed infine, racconta ancora de Martino, «chi non ha mai patito queste esperienze di un camminare innaturale e servile, e possedendo un carattere frivolo e immodesto vuol sempre esibire la sua sicurezza e la sua disinvoltura, muove rapidi passi avanzando alternativamente la parte destra e la parte sinistra del tronco e della spalla, bilanciandone l’agile ritmo con la corrispondente alternanza, davanti a sé e alle proprie spalle, delle braccia vibratamente piegate: il che, praticato nella vita ordinaria e fuor di ogni impegno sportivo, muove certamente a riso e a commiserazione»427.

Anche la gestualità, del resto, caratterizza fortemente l’espressività personale; e non solo è umanizzata dal suo essere “manualità”, come tale impossibile negli animali che hanno solo zampe o nelle piante che non hanno nemmeno quelle. Ma altresì è esperienza peculiarmente umana perché solo nell’uomo una cosa è la mano destra e altra cosa la sinistra. Infatti, come nella persona umana cuore e sonno stanno agli antipodi, nella loro simbologia, di potenza e impotenza morale, così il gesto della mano destra e quello della mano sinistra nella vita culturale appaiono valorizzati in modo estremo ed oppositivo: la destra, “mano egemonica, padrona, forte, efficace”, e la sinistra, “mano vicaria, subordinata, servile, debole”. Se infatti la prima, di norma, è storicamente (per ovvi motivi neuro-fisiologici), la mano che «promuove e conserva e incrementa l’ordine tecnico delle abilità»,428 essa ha potuto valorizzarsi e convalidarsi nel tempo come mano che altresì “promuove e conserva e incrementa” l’ordine giuridico, morale e liturgico. Di contro, la mano sinistra –sempre per gli stessi motivi- si è affermata storicamente come la mano che «tende all’eversione, al disordine, in tutte le sfere dell’operare umano»429: ecco che la sua valorizzazione ha fatto sì che essa «nella stessa sfera del sacro si lega all’oscuro mondo dei demoni, o alle pratiche antisociali di magia nera»;430 dove ancora oggi si ricorda quando per le passate generazioni di studenti essa era la cosiddetta “mano del diavolo”, svalutata e scongiurata in ambito scolastico. Mano destra e sinistra, così, sono state trascese nella storia umana per il loro valore e il loro disvalore rispetto al lavoro manuale di cui, in modo più o meno universale, erano e restano capaci:

In altri termini la mano destra è la mano della progettante vita comunitaria secondo valori, mentre la sinistra segna il limite di questa progettazione, la resistenza che occorre per quanto possibile piegare ai fini delle direzioni operative egemoniche, la costante tentazione dell’eversione dell’ordine, la sfera del negativo e del non risolto, che sempre di nuovo alimenta questa tentazione e che può costituirsi anche come orizzonte vicario di operatività variamente antisociale (cioè contro un certo ordine della società) nell’interno stesso del gruppo431.

426Ivi, p. 130. 427Ibidem.

428 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 613. 429 Ivi, p. 613.

430 Ibidem. 431 Ibidem.

95 Ma al di là della resistenza fisiologica o meno rispetto alla progettazione propria delle due mani, de Martino intravvede nella loro valorizzazione anche un “intersecarsi di distacchi” tali da rendere difficile l’individuazione di un’unica causa generante il processo valorizzante di una mano “eletta” e “felice” perché “tecnico-rituale” e di una “inferiore” e “subordinata” perché in rapporto col limite oltre il quale c’è l’insuccesso e la non-vita.432 Lo studioso in tal senso evoca il caso della consacrazione di oggetti e persone, presso gli Indù e i Celti, «eseguita girando tre volte intorno alla persona o all’oggetto da sinistra verso destra, come fa il sole, e presentando la destra»,433 prospettiva secondo la quale il corpo è valorizzato religiosamente a destra non perché la mano destra o comunque il lato destro del corpo fisiologicamente siano “egemonici” nel senso di “fisicamente operativi”, ma perché è verso Oriente si compie il movimento fisico del sole, il quale è comunque già colto dalla persona secondo un suo proprio ordine di distacco culturale, ovvero secondo il “mito della regolarità e dell’ordine” del corso solare. Ci si potrebbe quindi chiedere: nella persona, la mano egemonica è la destra in quanto la sua attitudine fisiologica è stata la spontanea causa della sua valorizzazione o, diversamente, essa è fisiologicamente egemonica perché un altro processo di valorizzazione, come quello mitico-religioso del sole, si è innestato su di essa in ambito rituale, influenzandone così per conseguenza l’operatività fisiologica? Il confine resta incerto e sottile. Ma, quale che sia l’origine, comunque si tratta di una valorizzazione corporea che ha origine dal trascendimento della natura: o della mano-vita o del sole-vita. Sicuramente, conferma de Martino, «se ci si vuol rendere conto della preminenza della mano destra occorre pur sempre partire dal lavoro manuale, e dalla concreta esperienza esistenziale che comporta».434 Ma di certo, prosegue lo studioso, la valorizzazione mitico-religiosa della natura è fondamentale in alcuni processi di distacco, andando a “proteggere” –così come il fragile tempo cardiaco- la labilità diveniente del corpo umano, specie la sempre indispensabile manualità, a sua volta garante di altri innumerevoli distacchi:

L’immenso resto del non progettabile ed operabile in senso tecnico-lavorativo avrebbe inghiottito la tenue emergenza della progettabilità manuale, se la energia tecnica non si fosse volta ad un progetto mitico-rituale del lavorativamente non progettabile: se cioè non fosse stata in parte impiegata a lavorare il rischio del nulla del lavoro manuale umano, lavorarlo appunto, secondo un piano mitico-rituale, avente per finalità non la utilizzazione del mondo, ma la protezione dell’esserci utilizzante (adoperante) minacciato dal non-mondo, dalla terra di nessuno oltre i limiti

432 Cfr ivi p. 612.

433 Secondo «la sommaria indicazione” di Robert Hertz: “La tesi di Hertz è che la diversa valorizzazione dei due lati del

corpo è in rapporto alla polarità religiosa del sacro e del profano (o del sacro fasto e del sacro nefasto) in quanto rappresentazioni della coscienza collettiva, polarità che si sarebbe innestata nell’asimmetria organica del corpo umano, e nei leggeri vantaggi fisiologici che possiede la mano destra: in tal modo a destra e a sinistra si ripartiscono rispettivamente il sacro e il profano, il sacro fasto e il sacro nefasto, il positivo e il negativo, il favorevole e lo sfavorevole, ecc», E. de Martino, ivi, p. 609. Qui de Martino si riferisce all’opera di Hertz: La preminenza della mano

destra. Studio sulla polarità religiosa.

96 della terra del lavoro (e quindi domestico, di qualcuno). La polarità lavoro-rito sta quindi alla base di quella diversa valorizzazione delle mani che invano cercheremo di ricondurre a semplici ragioni tecnico-lavorative (o fisiologiche).435

3.5 GERARCHIZZAZIONE DEL DECIDERE, IMPERATIVO ETICO E RISCHIO ESTREMO NEL CORPO

Outline

Documenti correlati