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CRISI DELL’ETHOS IN SENSO “ASSOLUTO” (FOLLIA O FINE DEL MONDO)

PERSONA E CRIS

LA MALATTIA DEL “PERDERE IL MONDO” COME APOCALISSE PSICOPATOLOGICA (CRISI DEL TRASCENDIMENTO)

7.2 CRISI DELL’ETHOS IN SENSO “ASSOLUTO” (FOLLIA O FINE DEL MONDO)

Nella sezione precedente si era parlato di un fisiologico “perdere un mondo”. Ora ne analizziamo la deformazione patologica, laddove –scrive de Martino- «l’esperienza del “finire” del mondo (dando al “finire” il significato di un “crollare”, di uno “sprofondarsi”, di un “annientarsi catastrofico”) è patologico se riflette nell’Erlebnis il “crollare”, lo “sprofondarsi”, l’“annientarsi catastrofico” del “ci” dell’esserci»,905 dunque l’invertirsi dell’imperativo etico della persona, che a sua volta sconvolge altresì la gerarchizzazione del decidere. Se, come appena visto, «il nulla di una singola forma culturale è un’altra forma culturale che si confonde con essa, l’annientamento della presenza è la perdita della cultura, è il risommergersi nella natura nel completo naufragio dell’umano. O anche, è il non esserci più in una storia umana: è la follia».906 Che, detto diversamente significa che mentre «queste modalità del negativo per entro un valore lasciano intatta la capacità di valorizzare su altri fronti del valorizzabile, e sottolineano soltanto lo scacco rispetto al valore in questione»,907 diversamente l’eticamente negativo “radicale” (che poi coincide con i modi della psicopatologia) «colpisce lo stesso ethos del trascendimento su tutto il fronte della possibile 901 Ibidem. 902 Ibidem. 903 Ibidem. 904 Ibidem. 905 Ivi, p. 635. 906 Ivi, p. 657.

194 valorizzazione» e dunque «non concerne la capacità di realizzare un valore particolare ma la impossibilità del valorizzare in generale».908 De Martino specifica qui che pertanto «non si tratta più del negativo di un valore categoriale, ma del negativo dell’ethos che fonda i valori categoriali»;909 per cui stavolta «entra in causa l’essere-insieme (sociale, comunitario) in un mondo utilizzabile, cioè si spalancano sul nulla tutti i valori a cominciare da quello inaugurale di un orizzonte operativo intessuto di multanimi rapporti con l’utilizzabile».910 Occupiamoci, dunque, di «analizzare innanzitutto il finire o crollare come rischio psicopatologico»,911 dove nell’ottica demartiniana la follia è in linee generali crisi del trascendimento, impotenza del distacco, scacco dell’intenzionalità. Qua si tratta non più, come nel caso del singolo trascendimento mancato, di un’attesa delusa che come tale è rimediabile ed affrontabile, di nuovo, operando col valore, ma si tratta ben più drasticamente di un crollo gravissimo «che coinvolge anche quella valorizzazione inaugurale che è il progetto comunitario dell’utilizzabile (gli enti intramondani, la loro ovvia mondanità, il proprio corpo, il dispiegamento della vita psichica nei suoi affetti, volizioni, pensieri)».912 Per questo crollo radicale, il mondo “mal-intenzionato” si coglierà come deforme e insensato, derealizzato dunque; e la persona, non possedendosi più come presenza in un mondo, comincerà a “spersonalizzarsi”; ed infatti, sostiene de Martino, «i vissuti di derealizzazione e di depersonalizzazione germinano su questo terreno».913

Se dunque nella norma del trascendimento “sano” della natura in regola culturale, a partire dall’inaugurale economico la persona, in quanto presenza, «si apre ad una permanenza culturale, ad un’opera che vince il divenire e la morte»,914 il trascendimento malato conduce ad uno stato esistenzialmente «caratterizzato da una dinamica disintegrativa rispetto a qualsiasi ordine culturale, a qualsiasi sistema di valori intersoggettivi».915 Il che equivale a dire che se, di norma, «la coerenza della mondanità è sempre nella apertura al significato intersoggettivo, alla comunicabilità, alla progettabilità»,916 all’opposto, spiega de Martino, l’incoerenza alla mondanità è demondanizzazione, cioè patologia di quel fisiologico “passare” da un mondo a un altro, che ora diviene problematico e sofferente, finendo per costituirsi non più “fisiologica” distruzione mondana (sospensione e ripresa) ma vera e propria distruzione senza ricostruzione. La sospensione della datità per una ripresa al valore non avviene; il dovere assoluto di riplasmare il mondo “sempre di

908 Ivi, p. 19. 909 Ibidem. 910 Ibidem.

911 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p., p. 15. 912 Ivi, pp. 16-17.

913 Ivi. 914 Ivi, p. 269. 915 Ivi, p. 175. 916 Ibidem.

195 nuovo” si fa rischio radicale di perdita di esso; le sistole e diastole del cuore culturale, come ben scrive de Martino in metafora, sospendono quella vitale pulsazione. Così, il doveroso

Weltvernichtung (quell’annientamento fisiologico del mondo inteso come “riduzione”) si fa passivo Weltuntergangserlebnis; il passaggio da un mondo a un altro è «l’esperire non già “un” mondo che

crolla ma il crollare della stessa energia di mondanizzazione (di farsi presente al mondo), onde il mondo storico si viene smondanizzando, destorificando, e acquista il segno del correre alla fine, al caos, invece di cominciare sempre di nuovo dal caos attraverso l’ordine dell’ethos culturale».917 ed è rischio antropologico permanente il fatto che il fisiologico perdere il mondo possa venir meno; in ogni persona, infatti, «questa energia è sottesa al rischio della caduta, dal vissuto della “fine del mondo” (non “di un mondo”): tale vissuto, che accenna alla fine dell’esserci, alla depresentificazione, alla demondanizzazione, alla crisi della presenza e ai modi dell’assenza, è

normalmente coperto nel senso che deve essere sempre ricoperto, tale copertura costituendo la vita

culturale».918 Se l’intenzionamento sano trascende la “cosa in sé” cogliendola già come ente intramondano dotato di senso, nell’intenzionamento malato gli enti subiscono la catastrofe del loro esser state valorizzate: sono inconsistenti, insensate o minacciose “potenze cieche ed estranee”. «Gli oggetti che non stanno in limiti oggettivi (riflettendo in tal modo l’alienarsi della stessa energia oggettivante della presenza), sono avvertiti qui come forze in atto di scaricarsi, come oscure tensioni spianti la più piccola occasione per frantumare le barriere che li trattengono, e per fondersi e confondersi in caotiche coinonie».919 La crisi di intenzionamento è, in altri termini, crisi di oggettivazione formale, per cui l’oggetto non è superato nella forma e recede nel nulla della natura indisciplinata, ribelle e indistinta. L’intenzione umana ora è oscura, matrigna, irrelata. «Qui in tutte le cose del mondo si muovono intenzioni oscure, e questo è il segno che oscurata è l’unica intenzione capace di illuminare il mondo, l’intenzione umana, onde nelle oscure intenzioni delle cose si riflette in realtà la stessa possibilità di una decisione umana che cerca se stessa, l’alienazione radicale di questa possibilità».920 Oscurata l’intenzione umana, come conseguenza si oscura altresì la natura intenzionata, quindi il limite che la natura costituisce per ogni processo intenzionante. Ed infatti «la crisi di oggettivazione, rispetto all’oggetto che “sta sopra”, è travaglio di limiti, onniallusività rischiosa, possibilità per ogni ambito del reale di potersi convertire in tutti gli altri senza fermarsi in nessuno, senza incontrare “il limite”, l’altro del rapporto qualificante: appunto perché è caduta in crisi la stessa potenza alterificante secondo qualità definite».921 Tutto ora può

917 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 104. 918 Ibidem.

919 E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 29. 920 Ivi, p. 152.

196 diventare tutto; perché nulla si intenziona e nulla si lascia intenzionare. «Per questo straniarsi della potenza oggettivante, il mondo e i suoi oggetti sono sperimentati in atto di non essere più “nel loro quadro”, cioè nella memoria di una determinata tradizione di significati e nella prospettiva di una possibile operazione formale della presenza».922 Cadono le distinzioni e le differenze del mondo, cade cioè la cultura e con essa, essendo coappartenenti, si smarrisce la stessa natura. La negazione della coappartenenza di vita e valore è la struttura che sta alla base del non intenzionamento, a fondamento della follia umana. L’uomo è l’unico animale che può “divenir pazzo” perché, anzitutto, è l’unico animale che intenziona la natura nel valore; che deve intenzionare e quindi che può non intenzionare. «La prospettiva ermeneutica del vissuto di fine del mondo», scrive de Martino, «è più profonda quando assuma come punto di partenza la presenza come trascendimento della situazione nel valore, trascendimento che è minacciato dal non-trascendimento».923 Se la persona si dà nella storia come presenza morale in quanto, mediante l’intenzionamento, “fonda” il mondo, «il crollo della presenza, il ricadere dell’energia del trascendere, il venir meno dell’oltrepassare come compito, è quindi il crollare del mondo»,924 che a sua volta è non- intenzionamento. Ora, se l’intenzionare è il modo con cui l’uomo dà senso al mondo, ne deriva che il suo crollo va a deformare questo senso mondano secondo una opposta duplicità di esperienze patologiche che esprimono il disarticolarsi della fisiologica coappartenenza di vita e valore. Si tratta, da un lato, dell’esperienza che manifesta l’emergere egemone della pura natura rispetto al valore, per cui ora il mondo non ha senso, è cioè irrelato, illogico, vuoto, ogni cosa del mondo resta indifferente, insensata (intenzionalità sclerotica); dall’altro lato, si tratta dell’esperienza che manifesta l’emergere dell’assolutizzazione del valore, per cui stavolta il mondo ha “troppo senso”, dove i significati non oltrepassano armoniosamente ma “minaccia” la natura confondendosi l’uno nell’altro (intenzionalità “in tensione”). Nel crollo mondano la presenza abdica al suo dovere morale di trascendere, ovvero «esperisce l’intenzionalità che non riesce più a trovare il suo compimento»,925 e ciò appunto secondo questi due aspetti “contrapposti”:

Per un verso l’intenzionalità vaga allo stato libero, secondo un vuoto oltre onniallusivo e minaccioso che travaglia i singoli ambiti percettivi, caricandoli di una tensione verso un vuoto “oltre” minacciosamente onniallusivo; per un altro verso il vuoto eccesso di semanticità dei singoli ambiti percettivi coinvolge, in quanto “vuoto”, un difetto di semanticità, di progettabilità, di operabilità di questi stessi ambiti, che sono vissuto come “rigidi”, “artificiali”, “inerti”, “morti”, fuor d’ogni intenzionalità possibile.926

922E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 28. 923 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 58. 924 Ibidem.

925 Ivi, p. 59. 926 Ibidem.

197 L’intenzionalità patologica, dunque, è intenzionalità “in tensione” e o intenzionalità “sclerotica”; cioè conduce la persona o alla rischiosa coinonia col tutto, dove ogni ambito percettivo si confonde con l’altro secondo “somiglianze accidentali” che si fanno rigidamente “identità sostanziali”; o conduce la persona ad esperire gli ambiti percettivi come dominati da “inerzia mortale”, impartecipi di un “oltre” dotato di ordine e regole, e perciò rigidi, finti, teatrali rispetto “alla verità della vita”, e questo fino ai limiti della rigidità cadaverica (“Io intendo, vedo tocco, ma non sento come un tempo, gli oggetti non si identificano col mio essere”927). L’intenzionalità malata è, come tale, universo in tensione o sclerotico. Più precisamente, nel caso dell’universo in tensione si tratta del disconoscimento dei limiti della natura, da cui patologicamente ne consegue «la onniallusività dei vari ambiti in cerca di semanticità, la forza che travaglia questi ambiti e li sospinge ad andare oltre i loro limiti in modo irrelato, e che li fa partecipare caoticamente a tutto il reale e a tutto il possibile, senza sosta e senza offrire mai un appiglio operativo efficace»928; nel caso dell’universo sclerotico, il limite della natura diviene così egemone da impedire che il valore lo trascenda, ed ecco perché qui «il mondo che diventa “immobile”, il divenire che perde la sua “fluidità”, la vita che si devalorizza costituiscono un momento vissuto dell’ethos del trascendimento che muta di segno».929 Queste esperienze “eticamente negative” mostrano in modo indiretto come sia “malattia” il disarticolarsi dell’equilibrio strutturale di vita e valore nella persona umana. Se questo equilibrio vacilla, la persona incorre in una sorta di polarità di immobilità e tensione, dove predomina o la natura sul valore, con l’esperienza dell’essere-agito-da (dove è la natura che agisce sulla presenza in luogo di essere agita dalla presenza) o il valore sulla natura, con l’esperienza della alterità radicale (per cui il mondo si carica di una forza onniallusiva che giunge alla vera e propria personificazione). Già abbiamo incontrato, circa la destorificazione magico-religiosa, questa polarità di essere-agito-da e di “radicalmente altro” del numinoso: ma se lì si trattava di momenti mediatamente reintegratori, qui nessuna catarsi giunge in soccorso all’uomo, chiuso nel privato del suo immediato patire. Qui si tratta di un rischio vissuto nella immediatezza. «Proprio perché l’essere è sempre l’esserci del trascendimento valorizzante, il rischio di non esserci vissuto nella sua immediatezza si polarizza nel chiudersi delle situazioni, nel loro non andare oltre se stesse, e al tempo stesso nel loro andare oltre in modo irrelato, come cieche forze in cerca di significato, come

927 De Martino cita in particolare frasi di pazienti di Pierre Janet sulla perdita di persona e mondo, tratte dal suo De

l’angoisse à l’extase, (Cfr Pierre Janet, De l’angoisse à l’extase, vol. 2, Parigi, 1928, pp. 350-376, e 47, 49, 52) quali “Io

mi sono smarrita, è orribile avere lo stesso volto e lo stesso nome e non essere la stessa persona”; “Di tanto in tanto la mia persona se ne va, io perdo la mia persona. È una cosa bizzarra e ridicola, ma è come se un velario cadesse e tagliasse in due la mia personalità”; “Io intendo, vedo tocco, ma non sento come un tempo, gli oggetti non si identificano col mio essere”; “Le cose non sono più nel loro quadro e non indicano più la loro utilità”. In tali esperienze, commenta de Martino, ciò che la persona “registra senza soluzione” è il vuoto valoriale, l’impotenza del distacco dalla natura e dell’oggettivazione, la inattualità dell’esserci.

928 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 631. 929 Ibidem.

198 semanticità errante in cerca di tutto e di nulla, e che schiaccia per questa sua estrema sovrabbondanza fatta di estrema miseria: così, nell’irrigidirsi del limite e nella tensione cifrata che lo travaglia, la presenza che si perde vive il suo non poter oltrepassare il limite nel valore, vive il suo “morire”».930 De Martino evoca il dramma di questa ambivalenza immediata con la metafora di un incendio “crepitante” (universo in tensione) e di una bara che contiene la rigida natura:

L’universo entra in tensione, ogni suo ambito diventa un centro di dissoluzione del significato, una dissoluzione che si allarga irresistibilmente e si comunica a sempre nuovi ambiti: è il crepitante dilagare di un incendio in una foresta e il rapido inesorabile restringersi del cerchio di fuoco intorno al viandante smarrito. Il vissuto dell’universo in agonia assume anche la forma dell’universo già morto, in cui tutte le cose stanno immobili come in una bara, irrigidite nei loro limiti senza significato, senza oltre: nel che si riflette sempre la caduta dell’energia oltrepassante e valorizzante della presenza, caduta che il delirio rende sia in quanto esperienza di un oltre irrelato, di una forza onniallusiva, di una carica di semanticità che si allontana sempre più dalla semantizzazione, sia in quanto esperienza di un irrigidirsi di tutti gli ambiti, di un loro perdere quell’oltre, quell’orizzonte relazionale, quella domesticità intersoggettiva che li rende ambiti di un mondo culturalmente esperibile, in cui tradizione e iniziativa, memorie e scelte si compongono in una viva dialettica.931

Ora, questo oscillare tra il “troppo” e il “troppo poco” di semanticità proprio del vissuto patologico di fine del mondo conduce la persona coinvolta ad una “ambivalenza di aspetti” che se nella destorificazione magico-religiosa conduceva alla decisione morale (pur trasfigurata in una “già decisa” scelta metastorica), stavolta invece, non risolta nella mediatezza, «non può essere decisa: e se nel vissuto emerge talora solo uno di essi (l’universo in tensione o l’universo sclerotico), l’altro è sempre pronto a subentrare»,932 in quanto ora la presenza «in luogo di fondare l’oggettività sta diventando essa medesima un oggetto, si sta alienando con l’oggetto e nell’oggetto».933 La follia, come tale, è impotenza, abdicazione umana alla decisione. La follia è la più radicale negazione della libertà, dove «la colpa radicale di questo crollare dell’ethos e, polarmente contrapposto, il trascendimento vuoto»934 costituiscono il fenomeno più imponente della rinnegata libertà. Se la follia è nella persona «minaccia mortale per eccellenza»,935 diviene anche, e paradossalmente, oggettiva garanzia di umanità. Se ci si imbatte in un folle, si ha la certezza oggettiva di aver in contrato un uomo, una persona. La follia non solo grava sul compimento etico della persona ma anzitutto –e paradossalmente- è assicurazione del fatto che l’essere persona sia possibilità solo umana. Se la follia è «la perdita della presenza come rischio radicale a cui l’uomo –e soltanto l’uomo- è esposto»,936 ciò significa che la follia è testimonianza di

930 Ibidem. 931 Ivi, p. 632. 932 Ivi, p. 59.

933E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 28. 934 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., pp., 16-17. 935 Ivi, p. 25.

199 umanità, pure se si costituisce come rinnegamento del senso più proprio (la libertà) di tale umanità. Come infatti solo l’uomo ha un mondo e può farsi presente in esso, così solo l’uomo in quanto persona può perderlo, cioè può mancare al suo “appuntamento” con il piano morale. Solo per l’uomo, sappiamo, il mondo può finire. «Il mondo degli animali “non può” finire», si era detto.937 Il mondo degli uomini, invece, può finire. E la sua fine è la follia; è cioè esperienza di una colpa “contro natura” per cui il dovere teleologico dell’ethos rimane inascoltato. La follia è, in tal senso, quella universale “infedeltà” che mette a nudo lo sforzo umano di essere persone, di farsi presenti nella storia e di fondare un mondo. Quello sforzo umano che lotta, senza tregua, per trarsi dalla natura, per arginare quel mai sopito rischio «di recedere sul piano della naturalità, dove la presenza non ha luogo. Qui noi tocchiamo la suprema alternativa dell’esistenza in quanto fatto culturale: o la presenza sana che si dischiude alle opere e ai giorni dell’umana cultura, o la presenza malata che perde se stessa e precipita nella follia»938. In metafora, de Martino illustra l’ethos primordiale come un Atlante che sostiene il mondo; e questa catastrofe personale e mondana come l’estremo rischio contro cui Atlante è chiamato a combattere, dove sempre resta aperta la possibilità che «quest’ethos receda, muti di segno, inverta il suo slancio per una immensa stanchezza, onde questo Atlante che è l’uomo ceda allo sforzo e lasci crollare i cieli e inabissarsi la terra».939

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