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UN CASO DI TRADIZIONE RELIGIOSA IL TARANTISMO SALENTINO

PERSONA E CULTURA

LA TRADIZIONE COME CONSERVAZIONE DEL MONDO DEI VALORI (PERSONA E CIVILTA’)

6.4 UN CASO DI TRADIZIONE RELIGIOSA IL TARANTISMO SALENTINO

Benché storicamente determinato, in quanto «adattamento della coerenza tecnica dell’uomo a quel particolare fine che è la protezione della presenza individuale dal rischio di smarrirsi»,822 il comportamento magico è manifestazione logica e coerente della permanente esigenza umana di protezione simbolica. De Martino in questa direzione studia la “bassa magia cerimoniale” della Lucania quale «orizzonte rappresentativo stabile e tradizionalizzato»823 che, oltre ad essere luogo d’interesse per il lamento rituale, pure lo fu per lo studio sulla “fascinazione magica”, «una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia

della persona, la sua capacità di decisione e di scelta».824 Condizione psichica che trovava riparo negli argini dell’operato tradizionale della “fattucchiera” che, nei casi migliori, recita un apposito scongiuro (historiola) «che attraverso la parola e il gesto rituali riassorbe nel suo exemplum il negativo attuale del sentirsi affascinato»;825 e nei casi più difficili, come la lamentatrice rituale, «si immerge nel corso della recitazione in una condizione psichica oniroide controllata, e in tale condizione si immedesima nello stato di fascinazione del cliente, e lo patisce»,826 dove questo patire giunge fino alla possessione vera e propria (in cui, cioè, la crisi che reclama rapporto è così radicale

821 Ivi, p. 165.

822 E. de Martino, Sud e Magia…, cit., pp. 193-4, nota 3. 823 Ivi, p. 96.

824 Ivi, p. 15. 825 Ivi, pp. 19-20. 826 Ivi, p. 16.

177 da divenire una vera e propria persona, un demone o uno spirito). Senza entrare nel merito di questa interessante tradizione, si osservi come lamento funebre rituale e fascinatura siano sorti insieme a proteggere una stessa comunità per la quale, «in condizioni di miseria psicologica, qualunque manifestazione del negativo comporta il rischio di una negatività ancora più grave, cioè la caduta della stessa energia morale di decisione e di scelta, lo smarrirsi della presenza individuale».827 La stessa medesima miseria fisica e morale la ritroviamo nel Salento degli stessi anni, terra in cui de Martino studiò la tradizione magico-religiosa del Tarantismo.

Si tratta di un esorcismo coreutico-musicale in forma di tradizionale tarantella, in cui la “tarantolata”, persona affetta da tarantismo, è insieme “persona magica” (come la fattucchiera o lo sciamano) e “persona rituale” (come la lamentatrice), facendosi insieme ragno e danzatrice, quindi malata e guaritore “riscattante” al medesimo tempo. Anche qui la crisi è trasfigurata in una relazione metastorica ambivalente, dove però l’ambivalenza non si riduce ad un unico personaggio che in sé racchiude sia il negativo (tremendum) che il positivo (fascinans), ma si distingue chiaramente in persona “positiva” e persona (o meglio, “bestia”, benché personalizzata) “negativa”; ed infatti nell’orizzonte del tarantismo si trovano insieme il personaggio soprannaturale di san Paolo, che aiuta le tarantolate a liberarsi dal morso perché anch’egli sensibile al “pungolo della carne”, e quello naturale-bestiale del ragno, in quanto la persona tarantolata, per riscattarsi come persona, affronta il ragno cioè il simbolo metastorico della crisi reale che è in lei, non solo rapportandosi al ragno ma “facendosi” ragno (si fa animale bestia, regredendo al vitale non personale per eccellenza), dove –come per lo sciamano- si mette in moto un catartico disfarsi personale ai fini di una riacquisizione della propria integrità: dall’“agire” storico la tarantolata affronta un “essere-agita da” al fine di poter, di nuovo, agire per-la-storia. I tarantolati sono, appunto, quei «protagonisti di un disordine estremo»,828 che ogni anno si recavano dal 28 al 30 giugno nella cappella di San Paolo in Galatina a chiedere al santo la grazia di essere liberati dallo spirito dell’aracnide velenoso che li aveva punti, dopo aver «celebrato nei rispettivi domicili un rito singolare: mediante il vibrante simbolismo della musica, della danza e dei colori si erano sottoposti all’esorcismo della taranta, il cui morso immergeva in un mortale languore o in una disperata agitazione senza orizzonte».829 Come il lutto generava in Lucania ebetudine e planctus, qui il morso similmente generava una polarità di inerzia totale e agitazione psicomotoria. «Inerti abbandoni al suolo, agitazioni psicomotorie incontrollate, atteggiamenti di depressione ansiosa, scatti di furore aggressivo, e ancora archi isterici, lenti spostamenti strisciando sul dorso, abbozzi di passi di danza,

827 Ivi, p. 27.

828 E. de Martino,La terra del rimorso…, cit., p. 30. 829 Ivi, p. 31.

178 tentativi di preghiere, di canti, conati di vomito»,830 tutti comportamenti, questi, che al di fuori del rito catartico stavano, racconta de Martino, «senza nesso dinamico, senza ordine finalistico, come in un palazzo crollato in cui si ritrovano mescolate nelle macerie esattamente le stesse cose che arredavano le stanze quando il palazzo era ancora in piedi».831 E come nel lutto lucano il pianto regrediva ad abbaiato canino, nel tarantismo salentino, con la medesima forza di retrocessione al piano bestiale, «dominava questa disperata agitazione il grido stilizzato dei tarantati, “il grido della crisi”, un ahiiì variamente modulato, e che meglio si sarebbe detto un guaito che non un grido umano».832 Così, come la crisi luttuosa fu presa in carico dal lamento tradizionale, così il tarantismo tradizionale salentino riplasmava in ordine rituale il rischio del naturalizzarsi senza compenso dei morsicati. Ma chi è la taranta, chi sono i morsicati, e perché il morso avveniva a ridosso di fine giugno? Queste furono le domande che de Martino si pose per risalire alle “ragioni esistenziali” di una tradizione che conferiva “potenziamento simbolico al ragno”, da ricondursi, ancora una volta, alla necessità umana di garantirsi come persona nella storia.

Fine giugno, per una comunità essenzialmente contadina quale quella salentina fino agli anni Cinquanta (periodo di declino ed estinzione del rito), è per eccellenza l’epoca culminante di una società agricola, che investe fisicamente ed emotivamente sul raccolto, «quando cioè acquistano particolare rilievo sia gli animali che danneggiano il raccolto stesso, sia quelli che insidiano chi raccoglie».833 La natura, con l’inaugurale economico, resta sempre e comunque il terreno su cui l’umana tradizione si innalza;834 ed infatti, motiva de Martino, «solo in un regime esistenziale nel quale il morso velenoso costituiva una possibilità reale connessa al momento decisivo della vita economica della società, il morso velenoso e l’animale che mordendo avvelena potevano diventare la trama di tessiture simboliche culturalmente autonome»835. Se nella realtà i contadini avevano periodicamente a che fare col fastidioso ma non letale latrodectus tredicim guttatus, nel processo di simbolizzazione tradizionalizzato questo animale divenne la pericolosa lycosa tarentula, un grosso e scuro ragno peloso assente nelle campagne salentine, ma che meglio del primo (più pericoloso per

830 Ivi, pp. 111-112 831 Ivi, p. 112. 832 Ivi. 833 Ivi, p. 161.

834 «Uno dei primi e più importanti aspetti, che per de Martino caratterizzano il Tarantismo, è la cosiddetta autonomia

del simbolo della taranta. Il concetto di “autonomia esistenzialmente condizionata” qui somiglia anche terminologicamente a quello di “natura culturalmente condizionata”, sviluppato nel Mondo magico, sebbene con una sfumatura molto differente. De Martino non ha più interesse a dimostrare l’efficacia reale della pratica magico- religiosa, ma si concentra sull’efficacia sociale e culturale del simbolo, come elemento di “deflusso” delle criticità esistenziali. Di quanto complesso sia l’intreccio fra “natura e cultura” nella produzione dei simboli culturali (“natura e cultura” che invece nel Mondo magico parevano piuttosto contrapposte l’una all’altra), il tarantismo è l’esempio perfetto: nato dal rischio concreto del latrodectismo, ma trasceso nella simbologia di una cultura contadina, esso agisce poi in maniera autonoma rispetto alle concrete situazioni in cui viene impegnato ed evocato» , G. Maccauro, cit., p. 91.

179 le sue crisi tossiche ma figurativamente insignificante) si adattava «a dar orizzonte alle oscure pulsioni dell’inconscio, all’aggressione del passato cifrato che torna nell’estraneità del sintomo nevrotico, al morso interno che induce a cercare “ciò che morde”, al sogno di rinnovamento totale, di erotismo e di fecondità, in concomitanza della stagione in cui si raccoglie quanto è stato seminato e si pagano i debiti contratti sul piano economico e su quello esistenziale».836 La tarantola, nella sua egemone autonomia simbolica che ben accoglie ciò che de Martino definisce “potenza del morso” (che è, fuor di metafora simbolica, potenza disgregatrice del rimorso morale), giunge nello stato di spirito, come mito unificatore della crisi, fino a palesarsi come una vera e propria persona. Porta, a volte, un nome di persona. «Dà ordini al tarantato, dialoga e viene a patti con lui. […] In quanto persona ha carattere e inclinazioni. […] Insomma la taranta si atteggia proprio come uno “spirito” che possiede e che l’esorcismo controlla»,837 dove questa possessione rituale prende la forma di una perdita della persona a favore dell’acquisizione protetta di quella del ragno; quindi, fino all’uccisione di questa persona mitica per il ritorno alla storia di quella reale del tarantolato “risanato”. Senza entrare nei minuziosi e pure interessanti dettagli del rito in esame, ci basti qui conoscere che l’esorcismo musicale domestico (che precedeva il pellegrinaggio alla chiesa di s. Paolo) constava sempre di due momenti, che corrispondevano, riplasmati mitico-ritualmente, allo stato di totale disgregazione personale della malata (alienazione), quindi a quello della graduale riacquisizione della propria persona, mediante l’uccisione del ragno (riscatto della crisi). Quindi, al suono di quattro musicanti locali la tarantolata sdraiata su di un lenzuolo bianco presso la sua casa comincia una danza codificata che contempla uno schema a terra -dove, destorificantesi, la persona si fa ragno-, ed uno in piedi –dove la persona, ri-presentificandosi, uccide il ragno-, con il ricorso ad oggetti rituali e a degli slanci di furore narcisistico che, nelle donne, si aggiungono a gesti seduttivi di alto simbolismo erotico.

Per far “crepare” o “schiattare” la taranta occorre soprattutto mimare la danza del piccolo ragno, cioè la tarantella: occorre cioè danzare col ragno, essere anzi lo stesso ragno che danza, secondo una irresistibile identificazione; ma, al tempo stesso, occorre far valere un momento più propriamente agonistico, cioè il sovrapporre ed imporre il proprio ritmo coreutico a quello del ragno, costringere il ragno a danzare fino a stancarlo, inseguirlo fuggente davanti al piede che incalza, o schiacciarlo e calpestarlo col piede che percuote violentemente il suolo al ritmo della tarantella. Il tarantato esegue la danza della piccola taranta (la tarantella) come vittima posseduta dalla bestia e come eroe che piega la bestia danzandola: la compie nella tensione di “identificazione” e “distacco agonistico”, di “lasciarsi andare” e “riprendersi”, di “farsi ragno” e “danzare il ragno”.838

836 Ivi, pp. 59-60. 837 Ivi, p. 172. 838 Ivi, pp. 62-63.

180 Dipendente ma non riducibile al latrodectismo, il morso della taranta, mostra de Martino, è andato trascendendo la crisi di una sindrome tossica839 per rendersi autonomo in un simbolo unificatore, che nel Salento «appare articolato in modo da offrire orizzonte di evocazione, di deflusso e di risoluzione ad alcuni contenuti critici e conflittuali determinati dalla pressione che, nel regime esistenziale dato, esercitava l’ordine sociale dalla prima infanzia sino alla maturità e alla vecchiaia»;840 contenuti critici tra i quali ha il primo posto l’eros, specie quello precluso dalla famiglia o dalle “traversie d’amore”.841 Ora, in un regime in cui il dominio tecnico della natura era già compromesso nel vivere quotidiano, qualsiasi decisione dotata di valore diveniva doppiamente rischiosa. Accadeva che da una crisi tossica reale la persona “cogliesse occasione” per evocare e risolvere altre forme di “avvelenamento simbolico”, «e cioè i traumi, le frustrazioni, i conflitti irrisolti nelle singole biografie individuali, e tutta la varia potenza del negativo».842 Ma accadeva altresì –de Martino non esclude nessuna delle due possibilità- che, in occasione di momenti critici esistenziali, come quelli sempre rischiosi e faticosi del raccolto, della pubertà, della morte di qualcuno, delle vicende d’amore infelici o sfortunate, della condizione della donna, dei conflitti familiari, della fame e della malattia, «insorgeva “la crisi dell’avvelenato”, utilizzando il modello del latrodecrismo simbolicamente riplasmato come morso di taranta che scatena una crisi da controllare ritualmente».843 Così, dove il rimorso di una decisione faticosamente presa e poi assunta come sbagliata rischiava seriamente di compromettere la salute morale, vi era un morso metastorico che si faceva carico di quel pentimento che restava, come tale, negli abissi della coscienza del pentito. «E proprio per questo rischioso vuoto della memoria e per il conseguente carattere di “estraneità” che il sintomo mascherato assume per la coscienza, il simbolo del tarantismo configura come “primo morso” ciò che in realtà è “ri-morso” di un episodio critico del passato, in un conflitto

839 Precisa lo studioso: «Nei casi in cui il latrodectismo non era sicuramente in atto la crisi del tarantismo imitava più o

meno grossolanamente la sindrome tossica del latrodectismo, proprio come se il modella culturale di colui che “fa” l’avvelenato fosse stato ricalcato per quanto possibile su quello del latrodectismo reale. La caduta al suolo, il senso di spossatezza, l’angoscia, lo stato di agitazione psicomotoria con obnubilamento del sensorio, la difficoltà di mantenersi in piedi, il mal di stomaco, la nausea e il vomito, le varie parestesie e i dolori muscolari, l’esaltazione dell’appetito venereo figuravano nel momento della crisi del tarantismo anche nei casi –ed erano la grande maggioranza- in cui per altri segni, si poteva escludere con certezza che si trattasse di latrodectismo in atto: ne risultava un’immagine di avvelenato che poteva facilmente trarre in inganno il non medico», ivi, p. 52.

840 Ivi, p. 169.

841 «Il che concorre a spiegare», precisa de Martino, «perché al tarantismo abbiano sempre partecipato in larga misura

le donne, non escluse quelle appartenenti a ceti sociali elevati. Il ricorrente scenario del bosco, delle fronde, dei pampini, delle fonti mormoranti, il predominio di quel “verde” che nel simbolismo medievale dei colori era associato con l’amor nuovo, la frenetica danza al ritmo della tarantella e l’atteggiarsi a sposa splendidamente abbigliata, i canti dell’amore agonizzante o morto e dell’aspirazione al mare, il gemere riplasmato in nenie funebri, gli esorcismi accennati alla taranta che morde il pube, i denudamenti e le esibizioni oscene, e infine alcune figure al suolo durante la danza del piccolo ragno che potevano valere come posizioni e ritmi di un amplesso immaginario, costituivano un ordine di possibili orizzonti simbolici di ripresa e di deflusso, per entro i quali le tarantate cercavano di dar voce e gesto di sogno alla oscura pulsione libertina che le travagliava», ibidem.

842 Ivi, p. 53. 843 Ibidem.

181 rimasto senza scelta»844. La tradizione del tarantismo per lunghi secoli accolse, in fondo, un rimorso morale che “troppo sporgeva”, proteggendolo in un morso simbolico, quello appunto della taranta, la quale poteva ancora decidere per la storia “non voluta”. Sul tema della riplasmazione di un di un rimorso storico in un morso metastorico sta racchiusa tutta la faccenda.

Con la parola “rimorso” siamo soliti intendere la pungente rammemorazione di una scelta mal fatta, e la esigenza di una scelta riparatrice, che estingua il debito contratto verso noi stessi e verso gli altri. Nel rimorso così inteso la scelta cattiva sta interamente davanti alla memoria, e noi sappiamo con precisione di che cosa portiamo rimorso, anche se non sempre ci è possibile soddisfare “fino all’ultimo centesimo” la esigenza di una riparazione. Nella crisi del tarantismo si tratta invece di un conflitto irrisolto in cui la presenza individuale è rimasta imprigionata, e che smarrito per la rammemorazione risolutiva torna a riproporsi come sintomo chiuso, cifrato, sottratto ad ogni potenza di decisione e di scelta. Nella crisi del tarantismo il rimorso non sta nel ricordo di un cattivo passato, ma nella impossibilità di ricordarlo per deciderlo e nella servitù di doverlo subire mascherato in una nevrosi.845

È la decisione per il valore che caratterizza la persona e laddove una parte della vita resta non scelta, il mito unificatore giunge in soccorso per concedere, alla persona che come tale vuole stare nella storia, una possibilità di scelta morale. Le tarantolate, così, furono esistenze che sceglievano, col rito, di tornare alla storia come persone. «Per questo orientamento il simbolo della taranta comporta un ethos, cioè una mediata volontà di storia, un progetto di “vita insieme”, un impegno ad uscire dall’isolamento nevrotico per partecipare ad un sistema di fedeltà culturali e ad un ordine di comunicazioni interpersonali tradizionalmente accreditato e socialmente condiviso».846 Fu con la rilettura di questa vicenda storica per entro la filosofia dell’ethos che de Martino poté inquadrare il Tarantismo come “religione del rimorso”, testimonianza di come la storia, quando “sporge”, non si riveli esser “troppa”, bensì, in modo pretenzioso, “troppo poca”.847

6.5LA CIVILTA’ COME SISTEMA ORGANICO DI TRADIZIONI

Abbiamo detto che il trascendimento della natura nella cultura (o nel valore) fonda la regola umana; e che il trascendimento della regola è la trascendenza, la quale è superamento della storia nella metastoria mitico-rituale. Quindi, abbiamo detto che la scelta umana intersoggettivamente e

844 Ivi, p. 178.Precisa qui lo studioso: «D’altra parte, proprio mediante il simbolo della taranta, tale conflitto entra

nella coscienza, sia pure nella forma alienata nella taranta che morde e avvelena: vi entra però non come nuovo sintomo della malattia, ma come progetto di evocazione e di deflusso, di ripresa e di reintegrazione, come sistema simbolico di una taranta avvelenatrice, che ha ritmo, melodia, canto, danza, colore e che può essere perciò ascoltata, cantata e vista durante la identificazione agonistica della danza della ‘piccola taranta’. Il simbolo della taranta mette in movimento un dispositivo di sicurezza che ha tutti i caratteri della plasmazione culturale».

845 Ibidem. 846 Ivi, p. 179.

847 «Attraverso i suoi studi sui culti pagani delle plebi rustiche meridionali, de Martino aveva messo il dito nella piaga

aperta dallo storicismo, perché accoglieva il problema del vitale in tutta la sua problematicità all’interno della sua riflessione. Sul tema del vitale naufraga, di fatto, l’intera impostazione idealistica del filosofare, perché la irriducibile componente materiale del pensiero, la si chiami barbarie, la si chiami inconscio, desiderio, pulsione o vitalità, finisce per rappresentare una piccola crepa nella trave che tiene insieme lo spirito e la natura, crepa che preannuncia il crollo e la fine di questa unione. È il crollo che frantuma il circolo dell’immanenza e riporta alla necessità di pensare alla trascendenza, alla scissione, alla differenza irrisolvibile fra pensiero e vita, di cui, come abbiamo visto, resta una traccia nel simbolo religioso», G. Maccauro, cit., pp. 105-6.

182 storicamente convalidata, sia essa anche attuata per entro l’orizzonte della metastoria, “diventa” tradizione e, nello specifico, tradizione religiosa quando la destorificazione che attua è più precisamente magico-religiosa. Ora, più tradizioni mondane confluenti nell’esistenza comunitaria di un unico gruppo umano storicamente definito diventano la “civiltà”. Come tale, la civiltà è intimamente connessa alla tradizione; è essa stessa tradizione in quanto insieme di tradizioni, quindi polifonica e variegata tradizione atta a conservare il mondo della storia. In linee generali «se volessimo definire l’umana civiltà nel giro di una espressione pregnante potremmo dire che essa è la potenza formale di far passare nel valore ciò che in natura corre verso la morte […] imbrigliando in una regola culturale del passare quanto passa senza e contro l’uomo»848. La regola, sappiamo, è solo il primo mattone della civiltà, senza il quale non si avrebbe la tradizione; ed in particolare la regola economica. Abbiamo già detto, in proposito, che «l’economico segna il distacco inaugurale che l’umano compie dal meramente vitale dischiudendo con ciò l’ordine della vita civile».849 L’ordine della vita civile, come tale, comincia non appena la regola riplasma il vitale in tradizione economica, la quale porta con sé il porsi in atto di tante altre tradizioni umane: quelle intorno alla morte, all’innamoramento, all’ordine famigliare, alla guerra, alla scienza, all’arte, eccetera. Così, «quanto il patire con la sua polarità di piacere e di dolore, e con le sue reazioni conformi, viene inserito in piano razionale, deliberatamente scelto e storicamente modificabile, di produzione di beni secondo regole dell’agire, la vitalità si risolve in economia, e la civiltà umana comincia».850 E

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