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PERSONA E NATURA

LA VITALITA’ UMANA SUPERAMENTO DELLA NATURA NELLA CULTURA

1.3 DALLA RIPETIZIONE ALLA REGOLA

Ora, posto che la presenza è “potenza oggettivante” dell’immediatezza del vivere, dalla quale si dispiegano tutte le altre “potenze operative umane”, e che da tale oggettivazione emerge per l’uomo la coerenza culturale, bisogna chiarire come, per de Martino, «la forma inaugurale del distacco dalla vitalità è l’economico, che dischiude l’autonomia delle altre»135. Vediamo perché. L’umana vitalità, in quanto “distacco” da una natura ripetitiva e dominata dall’eterno ritorno, è vita continuamente trascinata, nel divenire storico, «a “passare” con “ciò che passa” senza e contro l’uomo, ad ogni momento sperimentando i limiti della regola culturale che “fa passare” la natura nel valore»136. Ma perché la cultura nell’uomo si manifesta come “regola”? O, potremmo allo stesso modo chiederci: perché la natura umana è già “normativa”? Addentriamoci, ora, nell’evento inaugurale per cui la vitalità umana si fa storia, superando la ripetizione nella regola.

Sappiamo che la natura animale e vegetale non è mai ordine, se non nel senso di inerzia ciclica che all’uomo e solo ad esso per via del distacco intenzionate appare già come ordine o distinzione (per esempio, le quattro stagioni, il giorno e la notte, le costellazioni stellari). Nemmeno il battito cardiaco di per sé è regola: è ripetizione fisiologico-naturale; è la presenza in quanto coscienza che lo coglie “mondanamente” come regolare o irregolare, rapido o lento rispetto ad una regola del battito, per cui la medicina distingue, ad esempio, tra tachicardici o bradicardici. Il susseguirsi delle stagioni, il ciclo dell’acqua e delle piogge, quello astronomico non è regola o ordine di per sé, è ripetizione naturale spontanea: è sempre e comunque l’uomo che supera tale ripetizione nel calendario culturale o nella scienza metereologica. L’ordine necessita di uno sforzo del distacco che la natura in sé non prevede. La natura è ripetizione, non regola; ma se la regola non coincide con la ripetizione, di fatto non può emergere se non a partire dalla ripetizione naturale. Se la vita è di per sé ripetizione biologica (astronomica, animale, vegetale, istintuale, ecc.) di contro la cultura per emergere come tale deve farsi superamento di tale ripetizione. Ma tale superamento della natura non è mai, per l’uomo, un andare “contro natura” (una distruzione di essa), ma un trascenderla assumendola, in quanto l’uomo è anche natura. Così, se la natura è ripetizione (di istinto, di necessità, di bisogno), l’uomo non può non ripetersi, cioè anche la sua vitalità prevede la dinamica animale della ripetizione, dove però tale ripetizione, in virtù della cultura, non è più

134 E. de Martino, Scritti filosofici, cit. p. 80. 135 E. de Martino, La fine del mondo., cit., p.664. 136 Ivi, p. 646.

41 necessitata ma decisa; non più ripetizione indistinta ma distinta. Il valore è la misura di questa decisione, di questa distinzione della ripetizione nella norma culturale. La regola, in tal senso, è ripetizione distinguente.

L’uomo quindi oltrepassa la ripetizione naturale in un'altra ripetizione, originale oltre che originaria, che è scelta culturale e non passiva dipendenza dal naturale: ecco la regola, l’ordine, la sistematizzazione del caos di cosmos. Se la natura è pigra, nella sua “massiccia necessità di ripetersi”, «lo spirito è distacco dalla pigrizia della natura»137 mediante una riplasmazione originale dell’eterno ritorno naturale che de Martino definisce imitatio naturae e che, come meglio vedremo nella seconda sezione di questo lavoro, consente all’uomo di fondare il mondo culturale come tradizione e civiltà e di proteggere la sua presenza dal rischio di essere risucchiata nell’indistinzione naturale, cioè di naturalizzarsi. Non può l’uomo, che è anche natura per mezzo del corpo, disconoscere, distruggere questa ciclicità ripetitiva biologica (andrebbe “contro” se stesso). Gli è dato solo di superarla nella libertà di un ordine valorizzato:

Questo distacco si compie intercalando fra specie umana e natura l’ordine degli strumenti materiali e mentali per il controllo della natura, l’ordine dei regimi economici di produzione, l’ordine delle regole sociali per ripartire il lavoro e le occupazioni e per regolare i rapporti fra i gruppi e le persone, l’ordine delle regole morali per oltrepassare gli istinti e per liberare i sentimenti della devozione, della riconoscenza, dell’amore filiale e fraterno, l’ordine della catarsi estetica e del puro conoscere, l’ordine dell’autocoscienza dell’umano operare e del produrre culturale e del distaccarsi dalla natura per fondare la cultura.138

Proprio perché non può darsi l’umanità senza regola, cioè senza distacco dalla ripetizione vitale, e in quanto la regola può emergere ed affinare solo intersoggettivamente con l’educazione dell’uomo bambino, de Martino individua un “primato” morale nell’umanità matura adulta, e ciò a dispetto della teoria psicoanalitica che egli mira a scardinare nei suoi “punti deboli”, quelli cioè originanti da una inesatta comprensione del rapporto natura\cultura inerente la condizione umana. Insomma, emerge compiutamente nella storia l’adulto, non il bambino, che lentamente deve imparare ad emergere come presenza nel mondo grazie all’imprescindibile sostegno dell’adulto già avvezzo alla decisione nel valore. La confusione natura\cultura (per cui l’uomo «è quel “male” che la società e la storia si industriano di combattere»139), il concetto “fisiologico” di rimozione (per cui il rimosso «è il prodotto della pressione esercitata dal sistema di scelte»140 degli adulti) e la pretesa di voler il mondo culturale degli adulti dalla storia dell’infanzia (laddove «i bambini, i fanciulli, i giovanissimi hanno una funzione culturalmente egemonica»141 perché ancora “privi” della pressione culturale adulta) sono, per de Martino, i tre grandi “equivoci” della psicoanalisi. De 137 Ivi, p. 225. 138 Ivi, pp. 660-661. 139 Ivi, p. 651. 140 Ivi, p. 652. 141 Ibidem.

42 Martino oppone a tutto ciò il fatto che la cultura non è censura della natura, ma «plasmazione di questi bisogni naturali, come ordine di itinera consentiti o proibiti per soddisfarli in un mondo umano (e non meramente animale)»142; così i contenuti rimossi vanno interpretati non come processo fisiologico della coscienza ma, in senso problematico o addirittura patologico, «come contenuti rescissi o perduti per la presenza per la semplice ragione che la presenza non li ha decisi, non li ha oltrepassati»143, abdicando al suo compito di dover sempre decidere la situazione nel valore e per la storia. Ne consegue, che allora «è il mondo degli adulti che fonda la civiltà e i suoi valori e che plasma e orienta l’infanzia e la pubertà delle nuove generazioni attraverso l’educazione»144. Così, il primato resta alla umanità matura in grado di innestare «un certo ordine culturale nell’ordine meramente biologico».145 Così, nessun infante, privo degli adulti e della “pedagogia del distacco” a cui l’adulto educa, può infatti emergere come umanità nella storia. «La stessa fondamentale norma della comunicazione interpersonale, il linguaggio, l’infante lo trova già foggiato dagli adulti, lo apprende dagli adulti: e col linguaggio tutto il mondo adulto si versa in lui gradualmente, fino al momento in cui diventato adulto a sua volta parteciperà più o meno attivamente alla “storia della lingua»146. Senza la società adulta, insomma, non vi è occasione di umanità. «E’ il mondo degli adulti», sostiene dunque de Martino, «che fonda la civiltà e i suoi

142 Ibidem. 143 Ibidem. 144 Ivi, p. 653.

145 In particolare, de Martino polemizza contro le tesi di fondo della teoria freudiana, per il fatto che essa riduce

l’uomo “vero”, cioè “autentico”, “originario” a pura e spontanea natura, definendo la cultura come rigida “maschera” che a tale autenticità originaria umana andrebbe a sovrapporsi, sorta di «mistificazione senza margine di valori “autonomi» (de Martino, La fine del mondo, p. 651); mistificazione che la stessa psicoanalisi è chiamata terapeuticamente a togliere, smascherare, per rinvenire le radici istintuali umane. Per il fatto che Freud «confonde insieme natura e cultura» il suo paradigma non può «essere assunto come criterio antropologico» (ibidem). In tale ottica, la natura è la libertà originaria mentre la cultura è il soffocamento artificiale e macchinoso dei propri istinti. La radice del concetto di natura proprio della psicoanalisi rimanda all’assunto di base degli scritti rousseauniani secondo cui vi sarebbe la contrapposizione tra homme e citoyen, con la convinzione che l’uomo può raggiungere la più piena felicità e libertà nell’assenza di condizionamento sociale, quindi di “regola” culturale. Da questa distorsione naturalistica ne consegue come l’infante, l’Émile roussoniano, essendo “meno” condizionato socialmente, sia il modello al quale l’adulto dovrebbe affidarsi. Con la presa di distanza da Freud de Martino non intende certamente negare che le scelte culturali (e quindi le censure imposte dalla educazione e dalla pressione sociale) siano a loro volta condizionate da primari bisogni naturali, dall’alimentazione o dal sesso, insomma dalla vitalità biologicamente intesa che particolarmente l’infante esprime, nel suo essere al principio “solo” ripetersi di fame, pianto e sonno: «Ma la cultura si definisce appunto come plasmazione di questi bisogni naturali, […] come ordine che si articola storicamente in modalità diverse e che può essere sempre di nuovo rimesso in causa. La prospettiva della decisione secondo valori è appunto quella che, nel freudismo, appare non tematizzata, onde vale soltanto quella della genesi del super-io dalla sfera “istintuale” il circolo vizioso della psicoanalisi». (ibidem, p. 652). L’aberrazione psicoanalitica di poter dedurre il mondo culturale degli adulti dalla storia dell’infanzia deriva proprio, secondo de Martino, dalla convinzione che i valori culturali degli adulti siano riconducibili ad un inautentico Super-Io prodotto della storia, tale che quelli infantili siano i più aderenti alla condizione umana autentica. Il “vero nodo” di tale contraddizione nell’approccio psicoanalitico per il filosofo napoletano sta tutto racchiuso nel concetto di “rimozione”, dove ciò che viene rimosso sarebbe «il prodotto dalla pressione esercitata dal sistema di scelte che il mondo adulto ha deciso: come può questo sistema di scelte essere a sua volta essere considerato esclusivamente come il prodotto delle rimozioni (proiezioni, sublimazioni, ecc.) infantili?», E. de Martino, ivi, pp. 652-653.

43 valori, e che plasma e orienta l’infanzia e la pubertà delle nuove generazioni attraverso l’educazione»147. Il mito di Mowgly, non a caso, è solo un mito; frutto della fantasia di Rudyard Kipling che immaginava per un bambino una possibilità umana scaturente dalla vita in mezzo ai lupi in una giungla “senza cultura”, senza regole.

La famiglia, l’ordinamento economico e sociale, il sistema di interdizioni e di obbligazioni, le norme dei rapporti interpersonali, la varietà degli istituti culturali, i simboli mitico-rituali, le arti e i più o meno progrediti strumenti mentali e tecnici per il controllo della natura, costituiscono scelte del mondo adulto, iniziative che hanno origine in decisioni di adulti e che hanno acquistato forza di tradizioni trasmissibili ai bambini, ai fanciulli, ai giovani. […] Non è mai esistita, e non può esistere, una civiltà in cui i bambini, i fanciulli, i giovanissimi hanno una funzione culturalmente egemonica. Senza dubbio le nuove generazioni fattesi adulte (secondo norme e “passaggi” che variano di civiltà in civiltà) entrano a far parte in varia misura della sfera egemonica della civiltà in movimento, del potere di guida e di iniziativa: ma finché non sono diventate adulte esse non posseggono pleno iure questo diritto umano148.

Ora, se per l’essere umano, che in quanto vitalità culturale è già progetto, ordine, distinzione e regola, il “trovarsi” nella vita è possibile per entro un porsi secondo valore nella vita stessa,149 resta fatto innegabile che in ogni istante della sua storia si «impone una decisione e una scelta, un pronto adattamento alla realtà».150 E la prima regola che la vita umana esige è il superamento nella scelta degli istinti biologici, esigenze più prossime all’uomo. Accade, dunque, che l’uomo trasfiguri in “ripetizioni morali” anzitutto quelle necessarie e perentorie “ripetizioni naturali” del ciclo vitale, come nascere, mangiare, riprodursi, dormire, ecc.; quindi quelle “più delicate” –che vedremo più avanti nella “tradizione”- del ciclo della storia biografico-sociale, come le vicende intorno alla mietitura del grano, o alla morte di una persona cara, o cosmica (i “tempi forti” di solstizio- equinozio trasfigurati in festività). In virtù di queste ripetizioni morali i passaggi naturali, a cominciare dall’istinto cieco e ripetitivo della fame e della sete, escono dalla inerzia naturae e si valorizzano, divenendo “culturali”. Ed è l’istinto della fame (legato, a sua volta, all’istinto fondamentale della conservazione) la principale ripetizione da “governare”151. Senza questa

147 Ibidem. 148 Ibidem. 149 Ivi, p. 638.

150 E. de Martino, Storia e Metastoria, cit., p. 113.

151 De Martino cita per intero un passo “ispiratore” tratto da Ideologia tedesca di Marx ed Engels: «Il primo

presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia (è che) per poter “fare storia” gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e il bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storia, ma una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini… ecc.», Marx, Engels, in de Martino, La fine del mondo, p. 427. E nella stessa pagina, de Martino appunta la precisazione di Marx in una nota marginale della stessa citazione. «Gli uomini hanno una storia perché devono produrre la loro vita, e lo devono, precisamente, in una maniera determinata», ivi. Del resto, de Martino non manca di segnalare anche Croce come altra fonte essenziale della teorizzazione intorno all’inaugurale economico: «Fu certo grandezza di Marx di aver compreso che, nella vita della cultura, l’economia costituisce la valorizzazione inaugurale, la testimonianza prima che condiziona tutte le altre testimonianze di una vita per il valore (in questo senso, credo,

44 sicurezza, nessun valore umano può darsi. Così, «quando il patire, con la sua polarità di piacere e di dolore» si sceglie deliberatamente in un piano razionale «di produzione di beni secondo regole dell’agire, la vitalità si risolve nell’economia, e la civiltà umana comincia»152. L’inaugurale valore morale del distacco umano dalla vita animale è l’utilità, la coerenza economica.

Nell’ordine civile dell’utilizzabile comunitario vi è un valore autonomo che trascende la vita, e che fonda il “mondo” distinguendolo dal “caos” della mera vitalità. L’utilità è quel modo civile di vivere per cu, per es., in una data società che pratica la cerealicultura piace il pane, mentre non lo sono certi vermi di cui si nutrono popolazioni che vivono di caccia e raccolta; per cui ancora, i figli “non si mangiano”, non sono “utili per questo” e in cui invece si lavora per farli mangiare.153

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