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PERSONA E NATURA

LA VITALITA’ UMANA SUPERAMENTO DELLA NATURA NELLA CULTURA

1.4. L’INAUGURALE ECONOMICO

L’esserci inaugurale è in de Martino l’esserci economico come ordine del patire e dell’immediatezza di esso, e come socializzazione di questo patire. «Nel mondo dell’utilizzabile i bisogni vitali si fanno comunicabili ed entrano in un orizzonte riboccante di relazioni interpersonali . […] Nell’economia la sfera dei bisogni vitali diventa dialogo, e nella sua logica interna si muove inauguralmente l’idea di una solidarietà economica universale proprio nel cuore della sfera che sembra più irrelata e “individualistica”».154 Per l’umana storia dell’utilizzabile, la presenza fa la sua

prima prova: «E la fa proprio in quel dominio del vitale che parrebbe il regno sovrano della più

solitaria individualità chiusa del piacere e del dolore, del bisogno e della soddisfazione. Solo sulla base di questo dominio intersoggettivo della “sicurezza” –sempre rimesso in causa e sempre accresciuto nella storia, sempre “dato” e sempre “dabile”- si possono costruire gli altri orizzonti di valorizzazione del mondo».155 Vedremo poi, nel capitolo dedicato alla umana corporeità, come nello specifico l’istinto di riproduzione sia luogo inaugurale della emergenza umana nella civiltà. Ebbene, a cominciare dalla coerenza economica di “utilizzare secondo regole”, la presenza umana «si distacca dalla immediatezza del vitale “abbisognare” e del vitale “nutrirsi” e “riprodursi”, istituendo un ordine intersoggettivo del “bisogni” e delle “soddisfazioni”, cioè un regime economico-sociale e giuridico-politico, dotato di determinati strumenti tecnici di domanda e di risposta, di relazione e di controllo, a cominciare dal linguaggio»156.

De Martino mostra, in tal modo, come la regola culturale sia “naturale” esigenza imposta già dal “mero” istinto della fame; e di come questo rimandi immediatamente alla realizzazione di altre

occorre reintegrare il materialismo storico). E fu certamente merito non piccolo di Croce d’aver accolto nella vita dello spirito, tradizionalmente limitata alla triade del bene, del bello e del vero, il mondo dell’utile come valore autonomo (in questo senso, credo, occorre reintegrare il rapporto fra Croce e Marx)», E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 642.

152 E. de Martino, Morte e pianto rituale, cit., p. 18. 153 E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 43. 154 Ivi, p. 45.

155 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 655. 156 E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 171.

45 regole, cioè alla presa in carico di altri “bisogni”, anzitutto quello della socialità. La regola degli istinti rimanda alla socialità perché «il mondo umano dei bisogni, sia per qualità di questi bisogni che per il modo di soddisfarli, non può mai prescindere da una plastica modalità di vita comunitaria con le sue regole intersoggettive e con il vario condizionamento intersoggettivo delle stesse decisioni innovatrici»157. Ed infatti, già solo nella più semplice decisione economica, «nel bisogno di nutrirsi, si fa valere il rapporto con un certo ordine culturale, con una determinata regola dell’essere insieme per il bisogno, in un mondo reso domestico per la soddisfazione»158. Il “vitale abbisognare” umano si accompagna dunque al bisogno di socialità, dove storicamente un regime economico è già sociale in quanto come tale prevede «un momento cooperativo irriducibile alla astratta signoria di ciò che piace e di ciò che giova»159. Un regime economico è comunitario in quanto la presenza, che emerge secondo valore, «è orientata sempre verso l’intersoggettivo, cioè verso una decisione che vale per una società e una cultura storicamente determinate»160; e come tale «l’esserci in società, in un mondo dell’utilizzabile che è sempre socializzato, racchiude in modo inaugurale l’appello fondamentale alla intersoggettività della vita umana, ad una fedeltà rispetto agli altri anche nella sfera dei bisogni materiali»161. Ed infatti, in tutti i regimi economici (cacciatori- raccoglitori, capitalisti, socialisti, ecc.) vale una regola di produzione che è per tutti; e colui che per un’utilità individuale pretendesse di imporre un suo valore privato (es. la schiavitù in contesto capitalista), egli soggettivamente si annienterebbe come presenza di fronte a una società che lo sottoporrebbe alla legge o al ricovero psichiatrico. L’utile e la relazione comunitaria che lo accompagna sono le prime conquiste umane mediate dalla regola culturale, da cui poi tutte le altre derivano:

La socialità e l’economia costituiscono una regola tendenzialmente universale per la soddisfazione dei bisogni connessi alla vita, e questa regola non coincide con l’immediatezza del rapporto meramente animale bisogno-soddisfazione. Il “vitale” si trascende nell’uomo già come regola, come apertura all’universale, come scelta e istituzione di questa regola: socialità ed economia sono trascendimento della mera vitalità: una “vita” umana è sempre ricompresa in una “regola sociale ed economica della vita” ed è su questa “base” che si dispiegano le altre forme di universalizzazione.162

Valga da esempio di inaugurale economico-sociale il grano, che, divenuto pane per opera della “addomesticazione umana”, è valore sia perché, così come il sole, l’uomo lo coglie “per ciò che se ne può fare”, sia per il lavoro della panificazione che da esso ne deriva e che a sua volta genera tutta una serie di trascendimenti che concorrono a rendere il grano-pane una natura

157 Ivi, p. 22.

158 E. de Martino, Storia e Metastoria, cit., p. 77. 159 Ivi, pp. 101-102.

160 Ivi, p. 101.

161 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 675. 162 E. de Martino, Storia e metastoria, cit., pp. 105-106.

46 ampiamente socializzata nella storia e nello spazio umani. La storia del grano, in tal senso, è istinto della fame trasceso in regola economica e in socializzazione. Il pane dunque è valore, spiega de Martino, non perché semplicemente “toglie la fame”, bensì in quanto la toglie nel quadro di una “civiltà agricola” che ha imparato la domesticazione animale e la cerealicoltura, quindi in grado di educare la fame animale in umano “bisogno di pane” e di appagare tale necessità attraverso il ciclo lavorativo che fa capo “all’alimento pane”. In tal modo la necessità vitale fame-bisogno è oltrepassata nella libertà del valore “pane”, con tutto l’ordine di scelte valoriali che ne derivano. Omero chiama gli uomini “mangiatori di pane”: il pane nell’Odissea è sineddoche della stessa umanità. Il pane è valore «perché quel pane racchiude un modo civile di sfamarsi, e quindi una serie immensa di valorizzazioni a partire da quella più prossima del ciclo lavorativo e distributivo che ha reso possibile quel determinato pane sul mio desco risalendo su fino alla rivoluzione economica del neolitico che rese possibile l’agricoltura e quindi la cerealicoltura. Il mio saziarmi di pane è incluso in questo gigantesco sforzo comunitario che condiziona qui ed ora questo mio saziarmi e che fa del pane quell’ente che è domestico in quanto so che cosa posso farne»163. E pertanto, mentre per l’animale è una minaccia “solo” la fame, per l’uomo è minaccia sia la fame che il mangiar soli (si noti come coerenza economica e socialità in de Martino procedono insieme), «ché il pane come cibo che nutre si può perdere anche quando si spegne la sua valorizzazione di cibo da mangiarsi in comune»164. Omero chiama gli uomini “mangiatori di pane”: il pane nell’Odissea è sineddoche della stessa umanità. Tale valorizzazione, tra l’altro, può assumere delle forme raffinatissime e “doppiamente trascendenti” (lo approfondiremo poi), come avviene nella cultura del Cristianesimo dove il simbolo eucaristico sottrae al pane, “assottigliato nell’ostia”, qualsiasi significato corporeo «per l’esclusivo vantaggio di un nutrimento di altro genere che distingue l’uomo dall’animale»165. E mentre, prosegue lo studioso, il mondo moderno simbolicamente evoca un drammatico “perdere il pane” rispetto ai milioni di uomini che al mondo soffrono la fame, nei self service delle nostre metropoli «si rischia di “perdere il pane” in altro senso, perché malgrado la folla di individui solitariamente masticanti e deglutenti, non c’è più né banchetto né commensale»166. Così, il pane:

E’ tale per l’uomo in quanto racchiude molteplici memorie culturali umane, la invenzione dell’agricoltura, della domesticazione degli animali, della cerealicoltura, sino a giungere al lavoro di contadini e di fornai che hanno realizzato questo pane che sto mangiando: un progetto comunitario dell’utilizzabile, con tutti i suoi echi di immani fatiche umane, di decisioni, di scelte, di gusti socializzanti, sostiene e assapora questo pane qui ed ora, e ne condiziona l’appetibilità e il nutrimento.167

163 E. de Martino, Scritti filosofici, cit., pp. 37-38. 164 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 616. 165 Ivi, p. 617.

166 Ibidem. 167 Ibidem.

47 L’umanità (oggettivazione formale, presenza), abbiamo visto che emerge come storia inaugurata dall’utile, che è prima regola storica (prima forma), quale coerenza economica per cui la materia biologica (vitalità) si fa primordialmente valore. In de Martino non c’è confusione «fra il vitale che è sempre materia e la coerenza culturale economica che è certamente una forma. Infatti l’economico segna il distacco inaugurale che l’umano compie dal meramente vitale»168. Per lo studioso, infatti, il vitale di per sé non può essere forma (altrimenti anche gli animali potrebbero avere “regimi economici”)169 e l’utile di per sé non può essere solo “materia”, in quanto ci si ritroverebbe a domandarsi, a quel punto, «come potrebbe questa vitalità trascendersi nelle concrete società ed economie umane, con il loro corteo di omissioni e di scelte? Donde trarrebbe mai la forza per diventar “forma” in un progetto comunitario dell’utilizzabile?»170 Se nell’uomo la materia non avesse già il principio della sintesi, il corpo umano si ridurrebbe a mera “cosa”, biologicità individuale, oggetto della forma, a passivo esecutore di “comandi spirituali”, mentre lo studioso mostrerà –qui illustrato al capitolo III- come l’uomo può dirsi “persona” proprio e solo dal suo corpo trasceso in “corporeità” a partire dalla regola sessuale. E questo perché la materia, solo

168 E. de Martino, Morte e pianto rituale, cit., p. 18. Si ritiene qui doveroso aprire una parentesi. De Martino giunge,

infatti, ad asserire che “vitale” ed “economico” sono realtà differenti, l’una materia e l’altra forma, dopo aver analizzato e polemizzato con le posizioni, a riguardo, di Benedetto Croce ed Enzo Paci, dalle quali ne emergerà una sintesi originale. Ed infatti, sia per Croce che per Paci, vitalità e coerenza economica si equivalgono; ma mentre in Croce entrambe sono “forma” (coerentemente col suo storicismo assoluto, per cui anche la natura animale è spirito), in Paci, entrambe sono “materia esistenziale”.

169 Mentre Signorelli attribuisce a de Martino –ci sembra imprudentemente- uno “storicismo assoluto” «che, sebbene

ampliato dal suo tipico approccio multidisciplinare, costituirà uno dei tratti distintivi del pensiero demartiniano», cit. p. 122, ben evidenza il problema Marcello Mustè, per cui se de Martino avesse inteso nel senso di uno storicismo assoluto la vitalità come forma, «non era dunque possibile individuare una distinzione reale tra uomini e animali, e questa differenza rinviava alle nozioni empiriche, quantitative, al più e al meno di progresso e di capacità creativa: perché, ancora una volta, lo storicismo non determinava l’essenza dell’uomo, ma quella di tutta la realtà, senza che la cosiddetta natura potesse davvero distaccarsene», M. Musteè, Croce, Carocci, Roma, 2009, p. 147. De Martino al contrario fisserà nella sua specifica concezione di vitalità umana l’elemento discriminante che distanza l’uomo dalla bestia, la natura dalla storia, dove una “natura storica” non può esistere e dove l’uomo naturalizzato –vedremo meglio nell’ultima sezione- è soltanto un uomo malato. Scrive de Martino che Croce, appunto, attribuisce alla vitalità tutta (e dunque anche animale) «l’origine della dialettica sia nel senso che il negativo delle forme si origina per essa, sia nel senso che offre sempre nuovo stimolo al riaffermarsi della loro positività, sia infine nel senso che accompagna il loro positivo esplicarsi con “piacere vitale”», Scritti filosofici, cit., p. 61. De Martino insiste sul fatto che invece la vitalità cruda, l’individuale “soddisfare le proprie brame” è impotente ad uscire da sé e se nell’uomo va oltre è per via del fatto che in lui la vitalità umana è già altra cosa. Proprio per questa fondamentale distanza, tra uomo e bestia «l’uomo non può chiudersi in questa animale possanza senza corrompersi e morire, senza perdere anche la stessa presenza, che nell’isolamento si converte in corruzione e morte», ibidem.

170 Cfr p. 22 in E. de Martino, Scritti filosofici, cit. Qui si evidenzia, invece, il distacco di de Martino con Enzo Paci, per il

qual “utile” e “vitalità” coincidevano in una medesima “materia esistenziale”, e la vitalità umana era, al pari di quella biologica e animale, “nulla” o “negativo”, indipendente dall’umano e subordinato all’essere. De Martino rifiuta l’idea che la vitalità umana, inaugurata nell’utile, sia mera vita passiva e necessitata perché già decisione valorizzante per un progetto comunitario orientato ai valori intersoggettivi; se così non fosse non potrebbe da essa darsi la storia, il mondo, i valori.«E’ evidente», egli scrive, «che la presenza non può identificarsi con la mera vitalità biologica, in sé cieca e indivisa, incapace di contrapporsi autonomamente a se stessa e di decidersi con una scelta deliberata»,170 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., pp. 657-8.

48 nell’uomo, «ha già in sé, per potersi esplicare, il principio della sintesi autonoma utilitaria».171 Lo studioso, così, tiene ferma nella sua speculazione la separazione tra il mero vitale vegetale-animale –che resta materia, biologia, natura- dall’utile, inteso come forma economica, quindi sintetizzandoli nella vitalità umana,172 dove «la vitalità non sta mai come forma, ma come materia: come materia trascesa nella coerenza culturale»,173 anzitutto l’economica.

Occorre quindi pensare l’economico, esorta de Martino, come valore della securitas, cioè come valore inaugurale in cui si attua la presenza umana, nel suo oltrepassare il vitale nel qui e nell’ora della iniziativa culturale. E cominciare a pensare il corpo umano come “luogo della

securitas”. In tal senso l’economico è “orizzonte del domestico”, «della datità utilizzabile, di un

mondo di “cose” e di “nomi” relazionato secondo un progetto comunitario della utilizzazione possibile o attuale; un mondo che appunto perché dato se ne può fare qualcosa per l’utile, e che anzi indica nella sua datità il suo carattere di resistenza operabile»174. Abbiamo già detto, poi, che non si può pensare la presenza (quindi l’esistenza, la coscienza, l’esserci) distinta dai valori che da essa conseguono; e che del resto essa non coincide tout court con essi. Conviene ripetere, come allo stesso modo il valore dell’economico, l’utile, per quanto “inaugurale” non sia da confondersi con la stessa presenza, dove mentre la forma economica è una distinta “potenza del fare”, una potenza operativa precisa che provvede al dominio morale della natura, la presenza umana è “potenza sintetica” che condiziona le distinte forme della vita umana, cioè della storia e della cultura, tale che ogni forma per potersi esprimere sia necessitata dalla possibilità dell’umano trascendimento. D’altra parte l’economico non può essere l’unico valore, in quanto la presenza umana nel mondo non si esaurisce in esso; detto altrimenti, scrive de Martino, il pane soddisfa solo se non si vive di solo

pane175. Il che pone sotto una luce chiarificatrice quella iniziale dichiarazione demartiniana di

171 Ivi, p.655.

172 Come scrive Berardini, «Innanzi all’ultima riflessione crociana, che propendeva a risolvere la forma economica nella

vitalità, e dunque a gravare tale forma di elementi esistenzialistici, facendo di questa una categoria sin troppo ‘distinta’ dalle altre, ovvero troppo vicina alla materia che alla forma; e innanzi a una ‘materia’ che, in Paci, gettava ombra sulla positività dell’ufficio proprio dell’utile, Ernesto De Martino decise di percorrere la via di ‘mezzo’ che lo portò a scindere, per così dire, la materia dalla forma e a distinguere diversamente il vitale dall’utile», S. F. Berarbini, op. cit., p. 194. Per approfondimenti sulle riflessioni di De Martino circa il problema del vitale, cfr il saggio di G. Sasso, cit., il quale a più riprese ritorna sul problema; e pure si confrontino gli scritti inediti dell’autore sia raccolti in Scritti

filosofici (op. cit.) e ne La fine del mondo (op. cit.), questa specialmente alle pagine 653-668.

173 E. de Martino, Morte e pianto rituale, cit., pp. 17-8. 174 E. de martino, La fine del mondo, cit., p. 655.

175 Si consuma qui, insieme alla già segnalata nozione di natura che in Marx è differente dalla concezione di de

Martino, un altro importante distacco tra Marx e de Martino, secondo il quale «la riduzione della attività essenziale dell’uomo alla soggettività economica costituisce il limite del materialismo storico», de Martino, La fine del mondo, cit., p. 434. In proposito, scrive Berardini: «Al materialismo marxista De Martino criticò appunto l’assenza di questa forza morale che edifica cultura)» Berardini, cit., p. 215. Vedremo più avanti come questo “stacco” tra i due è tutto compreso nel fatto che de Martino, a differenza di Marx, individua nella natura umana un principio trascendentale etico (ethos).

49 ispirazione dostoevskijana176 per cui l’uomo è l’unico vivente che perde la vita se cerca solo questa. Ed infatti, «senza dubbio quando il pane e la soddisfazione di mangiarlo diventano un valore assoluto, senza “oltre”, allora entro nella “negazione del valore” e nella “contradditorietà”. Ma ciò può dirsi di tutte le altre valorizzazioni quando si feticizzano o diventano assolute: per esempio, quando si fa dell’arte un valore assoluto, e si tenta di condurre una vita “estetizzante”. L’arte è tale quando l’artista è uomo intero».177 Così, la sfera della vitalità umana non si esaurisce mai, tiene a precisare de Martino distaccandosi dal materialismo storico, nell’attività dell’homo faber perché vi sono altre ragioni vitali oltre a quelle che si esprimono nel dominio tecnico della natura oggettiva, e in proposito si pensi –tematica su cui più avanti torneremo- all’immenso dominio umano del sacro e del religioso, che prevede un doppio sforzo di distacco: e dalla natura e dal divenire storico. Allora possiamo concludere che la presenza è sì «il dominio tecnico della natura, la fabbricazione di strumenti, il regime di produzione dei beni economici, la organizzazione sociale, giuridica e politica dei gruppi umani, la lotta per la potenza e la egemonia degli individui e dei gruppi»178, ma altresì «quella stessa unità dialettica che per essere appunto la potenza di tutte le forme, va oltre l’utile e l’economico, distendendosi nel divenire culturale completo, nell’ethos, nell’arte, nel logos»179. Per cui, se è vero che per via della coerenza economica si danno avvio socialità ai fini della produzione, divisione del lavoro, regimi produttivi, ideazione di strumenti artificiali, linguaggio e politica, resta però innegabile che nell’uomo, sostiene de Martino, «il trascendimento inaugurale operato dall’economico costituisce soltanto la porta stretta di accesso al regno della cultura: e chi pretendesse di chiudersi nel possesso dell’economico e di restringere la vita culturale a questo semplice cominciamento o condizione inaugurale del viver civile, non riuscirebbe in realtà a mantenersi neppure nel suo regno, che ha valore autonomo solo per entro un movimento che sospinge a valicarne i confini».180 D’altra parte, per quanto l’uomo possa innalzarsi alle vette dei più nobili valori di poesia, scienza e vita morale consapevole di sé (filosofia), torna prima o poi sempre a riproporsi l’economico (benchè, ma mano, in forme sempre più raffinate ed efficaci) in quanto mai può essere definitivo il distacco dalla ripetizione vitale: l’uomo nell’esistenza resta sempre anche un corpo. È ciò che de Martino definisce, a partire dalla coerenza economica inaugurale, il “circolo della vita culturale” o la “spirale” della vita culturale, «che ha il suo centro nella presenza come potenza di oggettivazione formale e di liberazione dalla “vitalità inferma e

176 Quando, negli Scritti, de Martino appunta questa riflessione sull’uomo, la fa seguire dal nome del celebre

protagonista di Delitto e Castigo: Rodion Raskolnicoff.

177 E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 38. 178 E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 654. 179 Ivi.

50 cieca”»181, spirale che è comunque progresso in quanto diveniente incremento dei valori umani e lento cammino verso la conoscenza di sé.

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CAPITOLO II.

L’ETHOS DEL TRASCENDIMENTO. CONDIZIONE TRASCENDENTALE DELLA

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