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PERSONA E CULTURA

LA TRASCENDENZA COME GUARENTIGIA DEL MONDO DEI VALORI (PERSONA E METASTORIA)

5.2 LA DESTORIFICAZIONE RITUALE

Abbiamo appena spiegato in che senso il rito è tecnica umana direttamente rivolta all’esserci mondano, mentre la regola è rivolta più che altro al dominio della natura. Questa distinzione, come si sarà già notato, resta forse troppo categorica; anche il rito infatti –quando culturale e non patologico, beninteso- è rivolto a distaccare l’uomo dalla natura, benché assolva solo indirettamente a questo compito. Bisogna precisare allora che così come la regola culturale supera senza distruggere la natura, allo stesso modo anche il rito supera senza distruggere l’oltrepassamento della natura in regola. Anche il rito, così, si innalza dalla natura e a suo modo ne dipende; si può dire che il rito presuppone la regola che a sua volta presuppone la vita. «Vi è dunque una tecnica della presenza verso se stessa, al fine di non diventare natura e di potersi permettere una cultura: una tecnica che può anche essere pensata come dominio sulla natura, ma nel senso di una lotta contro il naturalizzarsi della presenza e per impedire il trionfo assoluto del vitale-animale lì dove si pone l’animale che deve diventare uomo e che anche alla vitalità deve dare un significato umano e non più soltanto meramente animale».605 Dobbiamo comprendere, ora, in che modo il dispositivo rituale possa consentire alla persona di restare nella “fluidità del divenire” (così de Martino si esprime) permettendo quindi alla sua presenza storica di non restare «senza margine di operabilità e di

601 Ivi, p. 577.

602 E. de Martino, Mito scienze religiose e civiltà moderna…, cit., p. 73. 603 E. de Martino, Scritti filosofici…, cit., p. 14.

604 Ibidem.

605 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 60. De Martino qui precisa che «Questa tecnica […] della presenza verso

se stessa, questo dramma vitale-esistenziale, non va inteso affatto come vicenda precategoriale, dalla quale le distinte potenze del fare avrebbero nascimento: al contrario tutte le categorie della vita spirituale, la totalità dei valori o delle forme della cultura, condizionano questa vicenda e la rendono possibile e pensabile come dramma umano».

137 progettabilità del divenire stesso».606 Ma siccome non tutti i riti soddisfano questa “felice” umana reintegrazione al valore, conviene anzitutto venire a conoscere in che modo tutti i riti (sia culturali che patologici) siano indistintamente dispositivi destorificatori, sia questa destorificazione positiva (cioè votata al valore) sia essa negativa (votata alla imitazione del ripetersi biologico). Spiega quindi de Martino che «la destorificazione, cioè l’occultamento della storicità del passaggio critico, si ottiene mediante il ritualismo dell’agire»,607 ovvero nei casi felici «lo storico è risolto come un identico metastorico che si itera»,608 mentre in quelli infelici lo storico regredisce ad un identico naturale che si itera. Non evochiamo ancora la metastoria catartica, ma sostiamo sul perché la iterazione rituale “spinga fuori” dalla storia. Cominciamo dunque a definire la destorificazione come “momento di riposo” nella storia, dove il motivo per cui io debbo riposarmi nella storia risiede nel fatto che questa, rispetto alla “pigra” ripetizione naturale, è «una mondanità fluida, in cui c’è sempre da scegliere»;609 un divenire culturale «sempre operabile mediante il valore».610 Accade quindi che in questo divenire, come più volte ribadito, si presentino momenti critici che mi impediscono di scegliere nella storia, abbandonandomi all’esperienza della angoscia che rappresenta «l’Erlebnis del divenire che perde la sua fluidità, la sua operabilità secondo valori»,611 con la sempre più fattibile possibilità di “passare con ciò che passa”. Un’angoscia non «di questo o di quello, ma di non poter decidere un questo o un quello per entro l’ordine di un mondo»;612 angoscia del nulla che avanza, dunque, non come nulla di “qualcosa”, ma «ma della stessa energia culturale qualificante, e della apertura all’essere».613 Reazione “normale”, fisiologicamente umana, a questo critico “non c’è più nulla da fare” (lo definisce de Martino) è, appunto, un desiderio tutto umano di uscire dalla storia, di “arrestare” il suo divenire rischioso.

La storicità sporge, il ritmo del divenire si manifesta con particolare evidenza, il compito umano di “esserci” è direttamente e irrevocabilmente chiamato in causa, qualche cosa di decisivo accade, o sta per accadere, costringendo la stessa presenza ad accadere, a sporgere a se stessa, a impegnarsi e a scegliere: il carattere critico di tali momenti sta nel fatto che in essi il rischio di non esserci è più intenso, e quindi più urgente il riscatto culturale.614

Che tale riscatto avvenga o meno, quando la storia “sporge” la risposta umana si esprime in una tensione ad occultare (a vari gradi, non scordiamolo) in modo protettivo il divenire storico, il nesso tra situazione e trascendimento, in un processo che in un certo senso è obliante rispetto alla

606 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 263. 607 Ivi, p. 663.

608 Ibidem.

609 E. de Martino, La fine del mondo…, ocit., pp. 93-94. 610 Ivi, p. 93.

611 Ivi. Più volte de Martino fa ricorso al termine tedesco di Erlebnis. È sempre un rimando alla “coscienza

intenzionante” della fenomenologia husserliana.

612 E. de Martino, Storia e Metastoria…, cit., p. 10. 613 E. de Martino, La fine del mondo…, cit., p. 94. 614 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 62.

138 storia: si arresta il divenire storico mediante la reiterazione dell’identico propria della ripetizione naturale, che essenzialmente può essere fisica, verbale o sonora. L’uomo è continuamente attratto dalla “nostalgia dell’identico”, dall’aspirazione all’origine materna, in quanto tratto dal nulla, al nulla tende a ritornare e lo desidera specialmente quando il distacco al valore è rischioso e difficoltoso. Nessun uomo è esente da quest’“odio per il distacco”, che quando non assecondato in una qualche forma, anche bassissima, di “riposo culturale” si paga –vedremo poi- col prezzo della follia, quale riposo patologico dalla storia.615 Occasioni di destorificazione le si ritrovano in numerosissime esperienze umane, anche ovvie e automatiche; quelle in cui «nel modo più scoperto fanno scorgere la corsa verso la morte che appartiene al vitale nella sua immediatezza»,616 col rischio che si consumi ciò che de Martino definisce «la crisi di oggettivazione, lo scacco del trascendimento».617 Soffermiamoci sull’esempio del cullare un neonato in fasce che non vuole dormire. Ebbene, l’atto del cullare con la iterazione ciclica che comporta, è rituale destorificante con lo scopo -proprio di qualsiasi destorificazione rituale in genere- «di polarizzare la coscienza in un certo contenuto e di impedirle di andare oltre di esso: il che equivale a spegnerla come presenza, poiché la possibilità dell’esserci è proprio in quell’oltre, che qui è aspramente combattuto».618 Quando la presenza si “spegne” essa può realizzare in modo “destorificato” «cioè in stato intermedio fra la coscienza onirica e quella di veglia, desideri e impulsi a vario titolo interdetti nella vita reale. Su un livello di coscienza abbassato, e tuttavia controllato, questi desideri e impulsi sono raggiunti, ripresi e parzialmente soddisfatti».619 Il cullare spegne, dunque, la presenza dell’infante che può superare la situazione critica dell’addormentamento protetto in un eterno ritorno fisico. Ora, se la iterazione rituale che polarizza la coscienza in un medesimo contenuto (ad esempio, essere cullati da destra a sinistra, o ascoltare ripetutamente la stessa nenia) è il principio essenziale della de-storificazione, ciò avviene perché la storia nella realtà non si ripete, così come fa la natura. Per “bloccare la storia”, dunque, è anzitutto necessario sostituire l’irripetibile “muori e diventa” del

615 De Martino trae spunto, per queste considerazioni sulla “nostalgia dell’identico”, dal Tempo e relazione (Torino,

1954, pp. 47 e segg.) di Enzo Paci, a sua volta influenzato da Freud. Quindi commenta: «Paci riprende il tema freudiano della identità come aspirazione all’origine, all’unità con la madre, unità nella quale l’individuo si distacca entrando nel mondo, nascendo, l’uomo è necessità di distacco e di relazione, proiettando in avanti la madre sconosciuta da cui si è distaccato con la nascita, riplasmando l’origine –l’Ur- in meta, in compito, in valore. Questa continua emergenza, questa irreversabilià evolutiva, questa presentificazione sempre di nuovo distaccantesi-da, si affermano tuttavia in tensione con la nostalgia dell’identità originaria, con l’odio per ogni distacco, con la tendenza al ritorno dell’identità, con ciò che Freud chiama l’istinto di morte», de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 78.

616E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 20.

617 Ibidem. Si intenda, qui, l’uso demartiniano del termine “scacco” –che più volte ritorna nel suo linguaggio- non nel

medesimo senso di Jaspers, ovvero come “scontro” con la situazione-limite di un impossibile raggiungimento dell’Essere. Qui lo scacco è infedeltà o impotenza al dovere verso il trascendimento nel valore.

618 E. de Martino, Il mondo magico…, cit., p. 87. 619 E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 142.

139 trascendimento con la ripetibilità del rito, in una imitazione dell’eterno ritorno naturale, quello proprio del sub umano, della ciclicità naturale, astronomica e stagionale.

Il tempo ciclico è tempo della prevedibilità e della sicurezza: il suo modello è offerto dal ciclo astronomico e stagionale. Ma nell’ambito della storia umana questa tendenza della natura diventa un rischio, perché la storia umana è proprio ciò che non deve ripetersi e non deve tornare, essendo questo ripetersi e questo tornare la catastrofe della irreversibilità valorizzatrice. Il tempo della prevedibilità e della sicurezza è per la storia il tempo della pigrizia, il rischio della naturalizzazione della cultura.620

Il tempo della prevedibilità, dunque, è quello del cullare meccanicamente un infante (ripetizione fisica) e, in modo non diverso, è anche quello della ecolalia psichiatrica (ripetizione verbale) o del ritmo psichedelico della musica da discoteca (ripetizione sonora) o di altri generi di ritualismi. Di per sé tra queste destorificazioni rituali, il cullare, l’ecolalia o il ritmo psichedelico, non passa alcuna differenza. Ma se il rito fosse solo “ritorno controllato alla ripetizione naturale”, se fosse solo destorificante, in che senso esso costituisce per entro la dimensione morale della persona non la regressione ma il superamento della regola distinguente? Ovvero, in che senso il rito, rispetto alla regola, è diretta custodia (e non solo “fondazione”) del valore storico? Bisogna dunque distinguere tra destorificazione irrelativa, che conduce ad un patologico oblio, e destorificazione culturale, garante di un oblio positivo che riscatta alla storia. La destorificazione non culturale coincide con i modi ripetitivi della psicopatologia, su cui non conviene qui soffermarci in quanto ci torneremo alla prossima sezione. Anticipiamo, però, che la destorificazione patologica in tal caso è vera e propria regressione della norma culturale che differenzia e distingue nel valore storico. La destorificazione culturale, invece, è rivolta non solo a destorificare ma altresì compie lo sforzo di riplasmare questa destorificazione in valore. Si tratta, per questo di un “doppio trascendimento” (della natura e della storia), che di per sé la sola destorificazione rituale non ammette. Ciò che discrimina, allora, la destorificazione culturale da quella patologica è che nella prima si inscrive l’orizzonte metastorico, ovvero il mito quale sostanza simbolica del rito culturale.

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