ed a volte si cerca ancora, di non essere indentificati come rom o sinti, perché altrimenti ti ritrovi addosso un gran numero di stereotipi.
Anche la nostra famiglia è stata colpita dalla deportazione: la madre del mio nonno mater- no fu portata in un campo di concentramento nazista, non sappiamo quale, non siamo mai riusciti a capire in quale fosse finita. Sappiamo che non è mai tornata e che ha lasciato dei figli piccoli.
Altri parenti sono stati deportati nei campi di concentramento fascisti: Haldaras, Held e Reinhardt furono rinchiusi insieme nel campo di concentramento di Agnone.
Il padre di mio nonno materno, Giovanni Haldaras, è sopravvissuto, ma ha sempre ricordato la grande fame che dovette sopportare nel campo. Da quel giorno ha sempre vissuto con un pezzo di pane in tasca ed anche quando ci ha lasciati, lo abbiamo sepolto lasciando il suo pezzo di pane in tasca.
A ricordare queste persone, sul muro dell’ex convento di San Bernardino ad Agnone che fu un campo, dal 2013 c’è una targa che riporta i cognomi delle nostre famiglie rinchiuse in quel luogo. Quando l’ho vista ho pensato che si tratta anche della mia storia, che quella targa ce la portiamo sulle spalle ancora oggi, perché non solo di quella storia non si è mai parlato, ma sono vivi gli stessi pregiudizi razzisti.
A volte si mitizza il passato, senza agire e seminare nel presente per evitare il ripetersi dell’o- dio nel presente. Non diamo seguito alla memoria. A scuola mio figlio ha dovuto affrontare il pregiudizio e siamo a Prato nel 2020, non negli anni di guerra. Per fortuna ha un maestro eccezionale che aveva deciso di venirci a trovare con la classe, per fare una merenda insieme. Pensate un po’ alle reazioni di alcuni genitori. Noi però lo abbiamo portato in fondo, abbiamo parlato ed abbiamo accolto i compagni di classe e da quel momento è scomparsa la paura. È servito anche a mio figlio per non aver paura ed affrontare il tema della sua appartenenza senza eccessivi timori. Non ci sono altre strade se non attivarsi personalmente per tornare ad essere uomini e non stereotipi. La mia esperienza di scuola è stata difficile, ma oggi il mio percorso è di recuperare le tappe che avevo perso. Ho raggiunto da poco la licenza media ed adesso sto preparandomi per la scuola superiore. Lavoro e studio, non è semplice, ma è ciò che ho scelto consapevolmente di fare.
Un fiore per il comandante Lupo e per mio padre
Mi chiamo Ernesto Grandini e sono nato a Roma nel 1955, ma ho vissuto anche a Bologna, poi a Prato, in Toscana. In effetti, se osservo le mie parentele, mi sento un perfetto europeo, perché ho origini tedesche, ma parentele francesi, oltre a legami con tante persone in quasi ogni Stato dell’Unione. La mia famiglia ha sempre lavorato come giostrai ed è per questo che ci siamo spesso spostati in tutta l’Italia. La giostra ha sempre portato allegria e quindi è un buon modo per entrare in relazione con gli altri. La nostra intera storia familiare è segnata dalle fiere dove abbiamo lavorato: era il 1949 e mio padre era installato a Lucca, quando ha cono- sciuto Angela, mia madre, ed hanno fatto la fuitina in bicicletta. Da quel momento la famiglia è sempre cresciuta. Essere giostraio era un’arte, perché la giostra si costruiva in legno e serviva una grande maestria. Per renderla più bella, era disegnata con un piccolo quadro per ogni lato. Mio padre si chiamava Omero ed è stato per me un grande uomo. Si trovò maggiorenne nel momento in cui scoppiò la Seconda guerra mondiale. Ha combattuto con l’Italia fino all’8 settembre 1943. Arrivato l’armistizio, mio padre si è rifiutato di proseguire a combattere con fascisti e nazisti ed è stato deportato in un campo di concentramento, non so dirvi il nome del campo. Riuscì a fuggire e salì in montagna, nella zona bolognese e modenese, unendosi alla
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Stella Rossa del comandante partigiano Mario Musolesi, detto Lupo. Mio padre era presente quando c’è stato lo scontro a Monte Sole con i nazisti. Era il 29 settembre 1944. La stella Rossa subì numerose perdite tra cui lo stesso comandante, ci fu un vero eccidio. Mio padre si salvò per miracolo con poche decine di partigiani. Omero è morto nel 1999 ed è oggi sepolto a vici- no al suo comandante presso il mausoleo di Bologna. Ogni anno, porto un fiore a mio padre e non manco mai di portarlo, come ha sempre fatto lui, al suo comandante Lupo. Conservo ancora la dichiarazione di partigiano che apparteneva a mio padre: lo rappresenta perfetta- mente, per i suoi ideali e per la vita esemplare che ha condotto.
Con questa storia di famiglia, come potevo non interessarmi alla storia, nella mia vita? È dal primo Treno della Memoria della Regione Toscana che viaggio insieme a tanti studenti verso Auschwitz, per condividere il dolore delle altre vittime e per ricordare che quel luogo fu la tomba anche di migliaia di sinti e rom. La prima volta sono partito da solo, ma suc- cessivamente, ogni anno, sono riuscito a portare qualcuno, fino a quest’ultimo anno che ho viaggiato insieme a sei miei nipoti ed è stata per me una soddisfazione grandissima. Abbiamo bisogno di narrare la storia nelle nostre comunità, per valorizzare ciò che siamo, ma anche per riconoscere che l’odio che oggi subiamo, ha una radice profonda che ci riporta proprio ad Auschwitz. Le persone non sanno che siamo stati sterminati, perché i nazisti dicevano che eravamo inferiori per questioni di razza. Parlavano d’inferiorità genetica e dicevano che la nostra colpa erano il nomadismo e l’asocialità.
Se ci pensate, sono le stesse cose di cui ci accusano oggi. Si è marchiati, quando vivi in un campo nomadi. Per cambiare atteggiamento verso di noi, ho imparato che è necessario l’in- contro diretto con le persone.
La mia comunità è stata segnata anche dalle classi speciali per zingari che le mie sorelle ed io abbiamo frequentato restando poi analfabeti. Non abbiamo imparato niente e la gente ha imparato solo che eravamo diversi e pericolosi. Io ho sempre pensato che la scuola avesse un ruolo importante per i miei figli ed allora andavo avanti e indietro dalle fiere per fare in modo che potessero frequentare sempre la stessa scuola e restare con i loro compagni. Il preside un giorno scoprì che eravamo sinti e si stupì del fatto che m’impegnassi così tanto per farli frequentare, a me sembrava una cosa normale. Oggi ho un nipote che si è specializzato con le scuole superiori e siamo alla prima generazione di ragazze che si avvicinano all’università. Credo sia la strada giusta. Sul lavoro invece sono costretti spesso a non dire dove abitano. Una mia nipote faceva la cameriera in una pizzeria qui vicino ed appena hanno saputo che stava qui al campo, hanno trovato una scusa per licenziarla. Queste esperienze sono devastanti, perché i nostri ragazzi si trovano obbligati a stare in silenzio ed il silenzio non crea riconosci- mento ed amicizia. Mio nipote ha pure deciso di cambiare cognome. Ne aveva uno slavo ed ogni volta doveva difendersi da stereotipi a pregiudizi, per primi sui rom e poi anche perché lo consideravano straniero; ha potuto risolverlo solo cambiando identità sui documenti, non è una cosa accettabile nel nostro presente, perché ci ricorda che la strada verso Auschwitz non è così distante neppure adesso.
In Consiglio comunale a Mantova
Mi chiamo Yuri Del Bar, sono un sinto lombardo e vivo a Mantova. Mio padre era un sinto lombardo, mentre mia mamma è una sinta emiliana con origini più antiche in Francia. La mia famiglia sono secoli che abita in questa zona della Pianura padana. Siamo stati per lungo tempo dei giostrai, ma mia mamma proveniva anche da una famiglia di circensi. Mio fratello continua ancora a lavorare nelle fiere, mentre io faccio traslochi e molti altri lavori abba- stanza duri. Ho fatto per un po’ di anni anche il mediatore culturale. In famiglia, Giovanni
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