dove metterlo. Il problema è che, anche questa volta, non si riesce ad entrare nella progetta- zione ed a far ascoltare direttamente anche la nostra voce. Questa situazione mi rattrista e mi preoccupa, c’è ancora troppa distanza.
Una memoria violata e la violenza quotidiana
Mio bisnonno Niko è arrivato per la prima volta in Italia durante la Seconda guerra mondia- le, perché era fuggito da un campo di concentramento con tutta la sua famiglia. Nel racconto familiare non è chiaro quale fosse il nome di questo campo, ma la casa di Niko era a Slavonski Brod, a 100 chilometri circa da Jasenovac e quindi le poche indicazioni che abbiamo, fanno propendere proprio per quel luogo di deportazione e di persecuzione. Il mio bisnonno era un mercante, aveva degli affari abbastanza floridi prima della guerra e questo gli permise di pagare per la sua libertà, pagò per sé e poi per tutta la sua famiglia. Si era sempre rifiutato di fare la guerra.
Dai racconti, possiamo collocare queste vicende intorno al 1941. Arrivati in Italia nel 1942, si muovevano nella zona della Lombardia e del Veneto, per spostarsi verso il Piemonte ed in particolare sono arrivati a Torino ed a Grugliasco, dove evidentemente c’erano comunità con- sistenti di rom, infatti negli anni Settanta proprio a Grugliasco fu costruito un campo nomadi, il più noto della zona. Per la mia famiglia, tre generazioni fa, quel campo divenne – parados- salmente visto che avevano sempre abitato in casa in Jugoslavia – un punto di riferimento. Mi spiego meglio: quando mio nonno è giunto in Italia, scappato dal campo di concentramento, non vide riconosciuto nessuno status di profugo. Egli continuò a fare il mercante in Italia, ma non avendo i documenti è finito in una situazione di clandestinità. È questa condizione di nessun riconoscimento che ha portato i miei bisnonni a muoversi come nomadi, perché nella storia della nostra famiglia il racconto degli sgomberi non è mai finito. Tutti irregolari quindi, comprese le generazioni come la mia e pure quelle successive.
Io mi chiamo Suzana Jovanovic e sono nata proprio a Grugliasco nel 1978, esattamente in quel campo che restava l’unico punto di riferimento, seppur sui generis, per la mia famiglia.
Lungo l’arco della mia vita, ho messo piede in Croazia non più di due volte e sono sempre vissuta in Italia ma, come avete capito perfettamente, anch’io risultavo priva di documenti e quindi irregolare. Questo era il motivo per il quale, neppure nel campo nomadi avevamo pace e spesso, quando c’erano i controlli, ci saremmo dovuto allontanare, per trovare altre sistema- zioni ancor più di fortuna.
Mio nonno si chiamava Ratko e quando arrivò in Italia aveva circa 14 anni. Superata la fase della guerra, mio nonno aveva fatto il tentativo di riprendere i commerci di famiglia in Jugoslavia, ma era tutto cambiato e il «mercante zingaro» era visto con sospetto. Bisogna anche avere presente che i miei nonni tornavano in Jugoslavia per far nascere i propri figli, perché in Italia, giovani e senza documenti, temevano che le istituzioni potessero portarli via a causa delle condizioni di precarietà e di povertà. Ecco perché mio padre, che si chiama Radomir, è nato in Serbia, in questo continuo spostamento sul confine che per la mia famiglia significava sopravvivenza quotidiana.
Tra i racconti di famiglia sono sempre rimaste due vicende che raccontavano: la fuga del bisnonno dal campo di concentramento, ma anche la sfortuna di mia nonna che stava per essere fucilata, perché aveva preso della farina per dare da mangiare ai suoi sei figli che aveva con sé nel campo, ma la farina cadeva dalla tasca e lasciava il segno per terra e quindi fu sco- perta. Si salvò solo perché la obbligavano a fare la cuoca e quindi era utile.
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rimasta viva solo fino alla generazione dei miei nonni, ma nessuno ne parla più, credo che queste vicende siano state allontanate dal ricordo personale. Nella mia comunità c’è la capa- cità di tramandare la memoria, ma vedo che c’è una memoria molto selettiva. Soprattutto la memoria dei rapporti con i non rom è quella che non viene tramandata. Quella è una memoria dolorosa, ma secondo me è anche e soprattutto una forma di tutela delle nuove generazioni, per dare loro la possibilità di avere un rapporto nuovo con i gažé.
Esiste invece una memoria romaní che va descritta bene per capire meglio di cosa si trat- ti; intanto partiamo da ciò che non è: la memoria di un rom morto è una memoria in parte ingannevole, ma per un fatto di rispetto. Mi spiego meglio: quella memoria è veritiera, ma è epurata dalla parte negativa. Questo è uno stimolo ad eliminare rancori ancestrali e passati. Ecco che la storia di Jasenovac o di Auschwitz è il tipo di memoria che “piace” ai non rom, ma per i rom è diverso.
La memoria romaní è il racconto orale, ma soprattutto è un racconto materiale delle persone che ci hanno lasciato, perché è anche legata alle funzioni del rito funebre. La pomána è un rito funebre che non è solo la commemorazione tramite il ricordo, ma ha delle cadenze specifiche (a 3, a 9, a 40 giorni, ad 1 anno, ai 3 anni dalla morte…) ed è legata ad un banchetto funebre che coinvolge tutta la comunità. Oralità e materialità quindi, dove la tomba è solo una parte di questa gestualità. La tutela della memoria del defunto è praticata tramite la cura e la sacra- lizzazione degli oggetti che il morto ha utilizzato da vivo. I figli possono avere alcuni oggetti, ma devono comportarsi in modo rispettoso verso queste cose.
La memoria di chi se n’è andato in un campo di concentramento è ancora diversa, ma ha dei rimandi con quello che vi raccontavo sulla materialità. Il racconto del lager è presente solo come parte dolorosa che non ha un valore recuperato attraverso un riconoscimento di ciò che è successo. È come se di quel morto nel campo di concentramento si fossero appropriati gli esterni alla comunità, sottratto al ricordo e dunque non recuperabile nel contesto della memo- ria romaní che vi ho descritto: è una sorta di memoria violata.
Quando si dice che i rom non ricordano perché non scrivono, credo sia un punto di vista molto banale e parziale. I rom se vogliono sono capaci di ricordare. Durante i nostri sposta- menti, mi ricordo continuamente le sere intorno al fuoco fatte di continui e ripetuti racconti che restavano memoria della comunità. C’è stata una scelta di cosa tramandare e di cosa lasciare andare e non dipende dal saper scrivere.
E qui arriviamo a cosa ricordo del mio passato. Intanto sono sempre vissuta qui in Italia. C’era qualcosa che non mi tornava nella mia comunità e mi portava a farmi delle domande: vedevo che i miei parenti erano persone intelligenti, però mi rendevo conto che, osservate le differenti generazioni, la formazione, la scolarizzazione e le capacità di vivere con i gažé era peggiorata. Fino a mio nonno c’era stata istruzione e professionalizzazione. Da lì in poi c’è stata una depauperazione della nostra comunità sia in termini di possibilità che di profes- sionalità, sia in termini di memoria e di opportunità. Non avendo dei documenti in regola, è cominciato un processo di esistenza d’individui analfabeti. Da mio padre, nessuno è più andato a scuola. Mi sono resa conto che è stato un gravissimo danno lungo le generazioni. Non c’è stata possibilità né di difenderci, né di renderci autonomi dimostrando il nostro valore come persone. Ho visto che c’è un automatismo da parte della comunità non rom che porta a veder persone non istruite e ad associarle all’incapacità di essere una persona valida come essere umano. Noi eravamo analfabeti e quindi lavoravamo con difficoltà, ma c’era anche una percezione dall’esterno di non essere in grado di far niente, anzi, di non meritare di essere inseriti nella comunità e di non avere alcun valore come esseri umani.
È su questo piano che è nato pure un conflitto con la visione dei miei genitori. Il conflitto è tanto forte che tra noi era pure quasi vietato di desiderare di essere istruiti. Attenzione però, qui conta tanto la paura. Non sto dicendo che ho individuato la colpa nei miei genitori:
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