Le voci e il silenzio
73lardo, senza olio, senza burro Pane non c’era quasi mai Per miracolo sono ancora viva.
Era molto difficile. Nel 1943 hanno preso mio fratello più grande e lo hanno portato ad Auschwitz dove è morto. Ed oltre a lui tanti altri. Poverini. C’erano tanti campi lì, tanti altri dove ammazzavano quella povera gente. Zingari e poi altra gente. Tanti poveretti, morti nei forni. Avevamo sempre paura. Adesso siamo liberi. Da quando è venuta la fine della guerra mi ricordo ancora qualche cosa.
Eravamo noi soli, mia mamma e noi quattro bambini. Mio papà, i tedeschi l’avevano preso e portato in un campo, ai lavori forzati. Conosci Sum, nella Germania? Adesso eravamo noi soli. Eravamo in un bosco e tutta la notte sentivamo sparare di là e di là. «Adesso», dice mia mamma «adesso questo e qualcos’altro. Ho visto dei grandi carri armati con dei fucili sopra. E non sono mica Gestapo quei militari lì. Adesso noi stiamo bene, adesso va bene!» Ho capito che era qualcosa altro, non i tedeschi. Erano gli ameri- cani venuti. Hai visto? Adesso i tedeschi scappano, scappano! Lasciano cose dappertutto – i mitra, i carri armati, i cavalli lasciano, le macchine, tutto! I tedeschi scappano!
Alla mattina siamo venuti più vicino alla strada, e ho visto, ho visto, ho visto… c’e- rano tanti carri armati. Tanti! «E quelli» dice mia mamma « quelli non sono tedeschi più» E noi tutti sulla strada a salutare con il fazzoletto in mano! Con noi bambini la mia mamma, e lei piangeva perché era contenta così! Allora ci hanno presi gli americani. Sì! Ci hanno tirato su nei grandi carri armati assieme con loro. Così felici eravamo! Loro hanno detto: «Quelli sono gypsies» gypsies, non so. E noi sopra il carro armato. Eravamo tanto contenti […]. Sono rimasti qualche giorno in mezzo a noi. Poi ci hanno salutato e ci hanno detto «Adesso potete andare dove volete. Siete liberi».
Dopo abbiamo sempre girato. Gli americani hanno liberato mio padre. Lui sapeva i luoghi dove noi ci fermavamo ed è venuto in cerca. Dopo la guerra eravamo più liberi. Si poteva girare senza paura che qualcuno ci prendesse ci ammazzasse. Liberi. La vita andava meglio. Giravamo con una specie di zaino. Mettevamo dentro roba da vestire, pentole, coperte, cose così. Si faceva mangiare sul fuoco – fritto, minestra, carne […]. Qualche volta andavamo dai contadini a dormire. Ci lasciavano nelle stalle o nei fienili. Ogni tanto i contadini ci davano un lavoro da fare, un paio di ore, anche una giornata. Durante la guerra non abbiamo mai fatto cose perché c’era troppo pericolo. I contadini non si poteva sapere come la pensavano. Potevano stare con Hitler. Adesso viviamo bene. Siamo in pace qui giù. Ma quella volta ogni giorno c’era pericolo che ci ammazzassero.
Giravamo dappertutto, secondo di come andavano i mestieri […]. Eravamo sempre in pochi. Forse un’altra famiglia o due. Eravamo contenti quando ci trovavamo in compa- gnia, per parlare del più e del meno e sentire le notizie, ed era tutto bello. Quello che c’era da mangiare quel poco che c’era, si mangiava tutti assieme, come fratelli e sorelle, come una famiglia unica. Giravamo a volte in compagnia di parenti dei miei genitori, anche se nella guerra tanti di loro sono finiti male. Anche fiori di carta facevamo, e sono ancora brava a farli. Finché ho preso mio marito sono sempre rimasta con i miei geni- tori. Io sono la più giovane. I miei fratelli si sono sposati prima di me, e quando ero in Austria li vedevo ancora. In Italia dopo la guerra ho preso la vita di mio marito. Avevamo un carretto con i cerchi di legno con un tendone sopra, che quando pioveva la pioggia veniva dentro. Dentro il carro si metteva paglia e fieno per dormire, e chi poteva aveva anche un vecchio materasso. I carri erano molto più piccolo di queste roulottes e non si poteva tenere dentro molta roba. C’era più povertà. Si faceva da mangiare fuori, sul fuoco. Allora era bello stare in compagnia. Ognuno aveva una storia da raccontare, esperienze e i fatti suoi, e c’era proprio gusto. Anche adesso abbiamo la possibilità di avere i fornelli dentro la kampina, ogni tanto sentiamo il bisogno di accendere un po’ di fuoco, come gli indiani! È proprio un fatto di razza, che ci arriva dai nostri nonni e bisnonni. Intorno al
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fuoco si sta in compagnia. Giravamo. Io vendevo saponette porta a porta[…]. Ogni tanto mio marito prendeva un cavallino che cercava di allevare. Poi lo vendeva e guadagnava qualche cosa e ne comperava un altro. Qualche volta aveva un mulo. Ho girato poco in Italia. Una volta sono stata a Roma. Siamo stati a Trento, Bolzano, Ferrara, Verona.
A Padova sono stata di più, sono stata più di dieci anni a Padova. Mia figlia Pupi ha fatto la scuola a Padova.
Una volta eravamo quasi sempre in compagnia, con parenti e non parenti. Siamo stati con tutte le razze – con i Sinti Italiani, con i Gačkane (Gifteri noi li chiamiamo), con i Khorakane, con i Bulgari. Una volta però era più facile incontrarsi. Per le strade si vede- vano tanti carretti. C’era chi aveva il carretto a quattro ruote con il tendone, e chi aveva il biroccino, a due ruote. Adesso con queste macchine ci passiamo vicino e neppure ci riconosciamo; ma prima quando avevamo i cavalli, si vedevano zingari da tutte le parti.
Antonio Hudorovi
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48Quando eravamo a Tossicia ricordo che una volta è venuto un ufficiale tedesco. Ci ha preso tutte le misure, anche della testa. Diceva che era per darci un vestito e un cappello.
Giuseppe Levakovi
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49Qui (a Teramo) incontrammo una romnì che andava a manghel (mendicare). Venne anche da noi e tentai di parlare in italiano che però non capiva. Appena parlai la nostra lingua: la comprese benissimo! Ci raccontò che era nel campo di concentramento con circa ottanta persone originarie della Jugoslavia, che erano state prese vicino a Trieste […]. I rom chiusi lì vivevano in condizioni miserevoli, in baracche e dormivano per terra anche senza giaciglio. Avevano da mangiare poco e razionato, ma fortunatamente il tenente aveva concesso di mandare ogni giorno le donne più anziane a manghel nei paesi limitrofi e in questo modo riuscivano a campare.
Goffredo Mirko Bezzecchi 50
Goffredo Bezzecchi, internato a Tossicia nel 1942, ripercorre la storia della famiglia Hudorovic all’epoca del nazifascismo:
C’era la guerra, qualcuno ha detto: «Se moriamo, moriamo tutti insieme». Sono arrivati due tedeschi, erano vestiti da tedeschi, sembravano brilli e cercavano signorine, noi già dormivano, io e il mio amico. Hanno sentito che qualcuno stava cercando di scappare e siccome avevano bevuto hanno sparato ed hanno colpito il mio amico proprio qui [indica la fronte]. Mio suocero, il papà di mia moglie, è stato preso ed è stato portato in questa casermona, mia suocera, intanto aspettava notizie, poi si è resa conto, parlando con la gente, che il marito non sarebbe più tornato, in effetti questo uomo qui non è più tornato. Hanno portato via mia zia ad Auschwitz, ed è tornata a casa cadavere, pelle ossa, lei ci
48 Idem.
49 Idem. Si veda anche G. Levakovich, G. Ausenda, Tzigari. Vita di un nomade, Bompiani, Milano, 1975. 50 Video intervista a Goffredo Mirko Bezzecchi, in Il Porrajmos dimenticato, Edizione Opera Nomadi con il
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