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45Vorrei aggiungere che i miei genitori provenivano dai quartieri rom, ma avevano sempre

vissuto nelle case nel paese d’origine, quando sono arrivati qui non hanno trovato quello che pensavano; la loro idea era di avere un lavoro, di avere una stabilità, di trovare le case, invece quando sono arrivati qua sono stati piazzati in quelli che poi sono i campi e comunque questo a livello mentale sfasa molto. Nei campi hanno messo tutti assieme: serbi, macedoni, persone che venivano da zone di conflitto nei Balcani, si sono ritrovati assieme nei campi, ma nel loro paese d’origine mantenevano fra di loro la distanza, dai campi pareva non ci fosse una via d’uscita. Anche perché mio padre all’inizio non è stato messo nel campo di Tor di Valle, ma si muoveva fra Casal Bruciato e la Tiburtina. Quando è successo il fatto della madre rom alla quale Casapound e Forza nuova hanno negato l’accesso alla casa popolare, chiesi a mio padre se c’era mai stato in quel quartiere, e lui mi disse che quando andava lì con le roulotte li prendevano a sassate, già nel 1990.

Dai Balcani venne anche mio nonno, venne tutta la famiglia. Mio nonno me lo ricordo benissimo, aveva dei gran baffi, un bel capello, sempre elegante, e nel campo, dove regnava la confusione, ci trovavi questo signore che si avvicinava sempre con fare elegante, era una figura pazzesca.

Sono rimasti tutti a Roma, credo per la speranza di vivere meglio.

Rispetto al mio affidamento so che fecero diverse riunioni con mia mamma e mio papà e che lui non era convinto, voleva conoscere la famiglia, voleva vedere dove andavo, e si oppose ad un’eventuale adozione. I miei erano nel campo a Tor dei Cenci e conobbero una famiglia italiana che abitava nello stesso quartiere, e qui arriviamo alla famiglia affidataria, in realtà credo sia stata proprio l’Opera Nomadi a mettere in contatto i miei genitori affidatari con la mia famiglia d’origine, ed io all’età di 5 mesi entrai per la prima volta in una casa. La famiglia

gagi è composta da mamma e papà, di nome Caterina e Silverio, e due figli naturali, Stefano

e Luca. Mia madre Caterina è molto cattolica, ma è anche una cattolica bizzarra, una di quel- le che se ti fai il segno della croce dentro una chiesa, poi devi razzolare bene anche fuori. Lei disse a mio padre che quello che poteva fare era semplicemente di crescermi e di farmi andare avanti e gli disse che non avrebbe mai cercato di portarmi via e di tenermi solo per lei. All’inizio mi portavano un giorno sì e un giorno no al campo, poi ho iniziato ad andarci una volta alla settimana, perché i servizi sociali all’inizio dissero che la cosa doveva essere graduale, mi sarei dovuta abituare, in realtà io non andavo solo una volta alla settimana, perché quando volevo bastava che lo dicessi e la mia famiglia mi ci portava. La mia mamma gagì instaurò un rapporto bellissimo con i miei genitori naturali, questo perché mia madre, fondamentalmente, non è una di quelle aperte di sinistra, ma comunque è una pratica, era una che il rapporto lo voleva instaurare, non è che doveva, ma voleva, quindi mia madre ha iniziato a conoscere non solo la mia famiglia, ma tutto il campo ed io, dai 5 ai 7 anni, i Natali, i compleanni, i matrimoni, li ho sempre festeggiati con entrambe la famiglie (quella affidataria e quella d’origine).

Da bambina non potevo assolutamente tagliarmi i capelli. Quando ero alle elementari ho sofferto tantissimo, ero una bambina molto vivace, in classe spesso facevo polemica, in quel periodo avevo i capelli lunghi e mi vennero i pidocchi e, siccome andavo al campo, mi con- vinsi di averli presi lì, anche se in realtà avrei potuto prenderli anche da qualche amichetto italiano. E quando mi vennero i pidocchi non lo dissi a nessuno, sapevo di averli, ma non lo avevo detto a nessuno. Io mi nascondevo sotto il banco, mi grattavo da morire la testa per poi alzarmi e far finta di nulla e per non farmi vedere. Poi accadde una cosa, non so se succede ancora questa cosa, un giorno venne un medico e bussò alla porta e ci fece fare la visita dei pidocchi. Mi ricordo che era seduta fuori dall’aula dove mi controllavano i pidocchi, però ero sola, e quel giorno ho temuto che scoprissero che li avevo. Io non lo volevo dire, perché temevo il giudizio degli altri compagni. Comunque, alla fine me li trovarono e la scuola mi impedì di

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frequentare, finché non li avessi tolti. Alla fine, mia madre chiamò mio padre Ferie per dirgli che avrebbe dovuto tagliarmi i capelli. Ricordo il giorno in cui rientrai a scuola con i capelli a caschetto e tutti mi guardarono come se fossi io l’untrice. Alle elementari ero in classe con dei rom abruzzesi e non ci andavo molto d’accordo, perché erano quelli fighi, erano gli zingari fighi, io invece ero la zingara che fa schifo. Non dicevo di essere rom non l’ho mai detto, però il mio cognome era indicativo, la mia famiglia non mi ha mai cambiato il cognome, ma siccome il campo era a venti metri di distanza dalla scuola ed io facevo Sejdic di cognome, si sapeva; era una cosa che si sapeva, ma io non ho mai voluto parlare. E poi questa cosa con il passare del tempo, e su questo ho fatto un gran lavoro di terapia su me stessa, si è acuita. Quando io uscivo con le mie amiche, avevo la mia comitiva e vedevo la «zingara» che aspettava l’autobus, io non è che mi fermavo a parlarle, me ne andavo, e anche loro, quelli del campo, quando mi vedevano in giro facevano finta di non conoscermi; poi quando andavo al campo, mi dicevano che mi avevano visto, ma che non volevano disturbarmi, non volevano interferire. Poi al liceo la situazione è stata più tosta.

Io comunque per tanto tempo, non accettavo quella parte lì, io stessa avevo il pregiudizio nei miei confronti, a me quella parte lì faceva schifo, io non la volevo proprio vedere. Il tuo rifiutarti deriva anche dall’esterno, perché ti fanno pensare che, se sei così, è perché sei sba- gliato, quindi quella cosa lì di te non la vuoi vedere e perciò si preferisce essere altro: «Io non voglio essere quello».

Alla fine, scegli di essere rom, non è che hai il sangue che dice che sei rom o non sei rom. Tu scegli quella parte là, ed io in quel momento della vita non volevo essere quella parte lì, non mi rappresentava, non mi rappresentava per niente, almeno in quel momento pensavo di no.

Pensate però che quando sono stata affidata e frequentavo il campo, quel luogo mi piaceva tanto, andare al campo un giorno alla settimana mi piaceva da morire, giocavo con i bambini, mi nascondevo, giocavo con l’acqua, per me era tipo andare in villeggiatura, io non ci vivevo nel campo, ma quando ci volevo andare, chiamavo mio papà che mi veniva a prendere. Mi ricordo due cose del campo, la prima è che mia mamma rom era gelosissima, mia mamma rom mi ha fatto passare le pene dell’inferno, era gelosa del fatto che crescessi con un’altra mamma, con mio padre è stato diverso in questo, lui era più cosciente, consapevole di quello che stava accadendo, mia mamma rom no. Era molto gelosa e allo stesso tempo non stava bene per quel- lo che era successo. Mi ricordo un episodio avvenuto nel container: mi disse di prendere un cucchiaio, me lo chiese in romanés, ed io non la capii e lei mi disse: «Vedi? Tu sei cresciuta con i gagi». Non avevo capito quello che stava dicendo e quindi mi rimproverò in una maniera così brutta, tanto che, da quel momento, la guardai in modo negativo, poi negli anni ho capito come lei poteva sentirsi. Un’altra cosa che mi ricordo è che assieme a me in quel campo venne affidata un’altra bimba di nome Elvira. Lei era un pochino diversa da me, lei odiava il campo, lei veniva al campo e piangeva sempre. Successe una cosa molto brutta, lei purtroppo non aveva lo stesso tipo dei miei genitori affidatari, la serenità non era la stessa, ai suoi genitori naturali l’avevano portata via. Lei quindi non voleva venire al campo, lo rifiutava, non voleva vedere i suoi genitori, piangeva, piangeva, piangeva ed io la consolavo. Dopo 3 anni, Elvira non venne mai più e i servizi sociali rispetto a questa cosa non hanno fatto proprio niente, perché i genitori d’origine, che vivevano due container dopo il mio, avevano una famiglia numerosa e non ebbero la forza di tenersela ed Elvira scomparve dalla vista di tutti, quella famiglia ita- liana poi si separò. Io mi ricordo benissimo che in quegli anni i servizi sociali non vennero neppure una volta a trovarmi, non si fecero proprio vivi, se io fossi capitata in una famiglia violenta, che mi maltrattava, nessuno se ne sarebbe accorto. Io ho avuto una grandissima fortuna ad avere un padre intelligente da una parte ma anche dall’altra, mi è andata proprio bene, nel senso che tu non sai a chi l’affidi la bambina. I servizi avrebbero dovuto controllare, quasi quotidianamente, la crescita del bambino, come va con la famiglia, e poi l’affidamento

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