cui c’era il campo; ci sono andato io per mio padre ed è stato un ritorno sulle tracce di questa vicenda dimenticata.
Dimenticati ieri ma, diciamolo con chiarezza, anche perseguitati oggi. Memoria è anche il 6 giugno 2008, quando alle 5 di mattina, 70 agenti hanno circondato il piccolo campo della mia famiglia allargata a Milano (siamo 40 persone in tutto) e ci hanno messo tutti in fila per essere accompagnati ai furgoni della scientifica, per lasciare le impronte digitali e farci le foto segna- letiche. Abbiamo subito l’umiliazione e la paura, mio padre è tornato al tempo degli arresti del fascismo. Mio padre ha ripatito la schedatura degli anni Quaranta. Io sono finito in ospedale, perché la frustrazione di non poter fare nulla mi ha portato ad un’ulcera. Io sono stato segnato dal silenzio della società civile. Il sentimento che ho provato è stato quello dell’impotenza e mi sono messo a piangere.
Io e tanti ragazzi della mia generazione abbiamo subito altre umiliazioni. Mi torna in mente la scuola. Erano le classi speciali Lacio Drom. Certo che vanno contestualizzate al momento storico, ma questo non significa che io non l’abbia patito. Era il 1966 e noi ci dovevamo met- tere in file separate dagli altri. Avevo 6 anni ed avevo bicchiere e tovaglie diverse dagli altri bambini, nella scuola di via Moretti a Milano. A noi davano posate diverse da un altro vassoio rispetto a quello degli altri. Le nostre madri ci mandavano particolarmente puliti proprio a scuola, ma prima di entrare ci facevano comunque la doccia. Sembrava che noi potessimo essere infetti e la mia sensazione profonda era quella dell’umiliazione. È lo stigma che ti met- tono addosso. A 6 anni, mi domandavo: «Perché? »,
Nel 1967, a Milano, ci portarono tutti con le nostre carovane, in via Michele Pericle Negrotto nel nostro primo campo nomadi in città. Arrivarono subito le assistenti sociali che ci tolse- ro alle nostre famiglie e ci portarono nel Collegio dei fanciulli sinti di Badia Polesine. Una mattina arrivarono i pullman e ci portarono via. Per me quell’esperienza in collegio è durata un anno, è stato un periodo lungo. Io oggi credo che le famiglie siano state un po’ circuite: dicevano loro che erano molto numerose e che non ce la potevano fare a vivere e che i bam- bini potevano studiare meglio. Dicevano che era un modo di alleviare le famiglie dal peso dei bambini. Quel primo campo comunale aveva la particolarità di essere individuato come cantiere-lavoro, non poteva essere un campo e permetteva la sosta a chi era nel progetto d’in- serimento lavorativo. Pertanto, le nostre famiglie lavorarono ad esempio nella costruzione del parco Forlanini come posatori del selciato.
È in quel periodo che io sono finito nel collegio di Badia Polesine ed era un unico program- ma secondo me: fermarsi e dare il lavoro, agire sui bambini ed era una sovrapposizione tra istituzioni e Opera nomadi nazionale, che a quel tempo era il referente per lo Stato sul tema nomadi.
Era una scorciatoia pedagogica inutile e diseducativa. L’esperienza di Badia Polesine, per me, era equiparabile ad un riformatorio, dove c’era qualche maestro buono, ma ci ho preso anche tante botte. Della mia famiglia ci siamo finiti Francesco, Paolo ed io, tutti Bezzecchi, e molti altri di altre famiglie. Io ho percepito lo sradicamento dalla famiglia. In collegio erava- mo molto piccoli, si doveva stare in riga. Cercavano di omologarci, non prendevano in con- siderazione i nostri valori culturali. Dovevamo entrare nella «normalità» e perdere la nostra diversità culturale. Noi costruivamo le nostre piccole carovane nel cortile e ci nascondevamo ed ogni volta che ci trovavano prendevamo botte sul palmo o sul dorso delle mani. Lo posso dire io, lo possono dire i miei fratelli. Bacolino era un altro bambino che ne ha risentito ancor più di me. Anche se bambini, sentivamo perfettamente che volevano toglierci qualcosa. Mi ricordo che avevo costruito una carovanina e me l’hanno sfasciata e dopo anche bruciata. È un’immagine che mi è rimasta dentro, forse perché era il mio modo simbolico per pensare di rientrare in famiglia. La mia famiglia ha poi deciso di riportarci a casa, lo avrebbero fatto
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subito, ma anche solo raggiungere Badia non era semplice, fosse stato anche solo per i soldi necessari. Il giorno in cui sono tornato a casa, dopo un anno e qualche mese, è stato un giorno bellissimo. Ho visto il cielo, la luce, ho dei ricordi vaghi, i ricordi con gli occhi di un bambino, quello che ricordo è il profumo, un profumo di fiori, la luce, il caldo, per me era una giornata primaverile, era un ritorno alla libertà, alla famiglia, alla mia cultura, dalla quale mi volevano in qualche modo sradicare.
Non voglio dire che lo facessero con cattiveria, ma ci hanno fatto sentire di nuovo l’umilia- zione. Per loro, la nostra era una sub-cultura e quindi non ci facevano parlare il romanés, per- ché dovevano capire cosa ci dicessimo tra noi bambini. Devo dire che molte cose le ho rimosse di quel momento. Nel collegio mi dicevano: «Voi dovete meritare di entrare nella società civi- le» e quindi noi eravamo visti come incivili. Ho visto un bambino rom che ha tentato anche il suicidio. Questo lo vedevano come uno strumento d’integrazione, ma ci stavano togliendo tutto e non ci sono riusciti: la mia carovanina l’ho subito ricostruita. Là c’erano rom harvati, istriani e sloveni e anche qualche bambino sinto. Sapete quando si parla della banalità del male? Io devo dire che l’ho vissuta nel mio piccolo all’interno del collegio: erano bravi inse- gnanti, bravi educatori, bravi funzionari, ma era il sistema, cioè le istituzioni, che mi hanno portato a subire questa umiliazione. A me è rimasto il segno di una violenza psicologica, più forte delle botte fisiche. Oggi so che la famiglia non mi aveva abbandonato, ma l’idea che avevo a sei anni era quella di essere stato lasciato solo.
La paura è rimasta costante nella nostra storia ed abbiamo sempre subito l’intervento diffe- renziale, siamo silenziosi, a chi lo raccontiamo? Questa è la sofferenza che ci è rimasta dentro. Questo è legato anche all’impegno che oggi è costante sul tema della storia e della memoria da parte mia. Si parla di trasmissione culturale del passato, ma se i nostri anziani non sono tornati, chi poteva trasmettere questo racconto? Ci sono rimasti pochissimi anziani che pos- sono raccontare. Nel farlo abbiamo collaborato con Ucei e con le comunità ebraiche.
Devo però ribadirlo, la memoria oggi è Auschwitz, ma deve essere anche il collegio di Badia, la scuola, la schedatura del 2008 di persone come noi, in Italia, da sempre registrati all’anagra- fe, ma comunque sottoposti ad un censimento etnico.
La bandiera rom sul municipio di Venezia
Mi chiamo Loris Levak e vivo a Mestre. Tra i rom sono chiamato Lolo, che vuol dire rosso. Sono nato a Thiene (Vicenza) ed ho 68 anni.
Siamo rom kalderasha, cioè la mia famiglia lavorava principalmente rame e ferro. Lo abbia- mo conservato per tanto questo mestiere: restauravamo pentole, cucine, oggetti sacri e natu- ralmente era necessario muoversi per svolgere lavori itineranti. Oggi siamo da tanto tempo in casa, nella zona in cui abbiamo i nostri parenti. Mio padre si chiamava Mirko ed era nato nell’Istria, a Fiume o Rijeka, come si chiama in slavo. Con la Seconda guerra mondiale, la mia famiglia è scappata dalla guerra, non solo per paura, ma soprattutto perché siamo un popolo con tanti amici ovunque e non si vanno ad uccidere gli amici per la guerra. Non ci riguarda. A quel tempo commerciavano anche con i cavalli e vivevano presso delle case coloniche. Fuggire significò buttare su un carretto con cavalli ed andare via velocemente, senza fermarsi neppure a Trieste. Nel 1944 s’insediarono a Latisana. In quel periodo entrarono in un’osteria ed arrivarono dei fascisti. Lo zio di mio padre discusse con loro per i documenti e appena fuori dall’osteria gli spararono e lo uccisero. Alla fine, si fermarono in Veneto, nella zona di Venezia, perché potevano lavorare meglio.
Mio padre Mirko aveva però nella sua memoria quello che era successo ad altri della sua famiglia: 150 persone che in inverno furono obbligate dagli ustaša fascisti ad attraversare
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