Le voci e il silenzio
99torto, in modo irritante e ridicolo, perché pochi giorni fa era ancora a casa sua, o almeno
fuori dal filo spinato. Il nuovo ha solo una virtù: porta notizie recenti dal mondo, perché ha letto i giornali ed ha sentito la radio, forse perfino le radio alleate; ma se le notizie sono cattive, per esempio che la guerra non finirà fra due settimane, non è altro che un impor- tuno da evitare, o da deridere per la sua ignoranza, o da sottoporre a scherzi crudeli.
Quel nuovo alle mie spalle invece, benché mi stesse spiando suscitava in me una vaga impressione di pietà. Sembrava inerme e disorientato, bisognoso di un sostegno come un bambino, certo non aveva colto l’importanza della scelta da farsi, se scrivere e che cosa scrivere, e non provava né tensione né sospetto. Gli voltai la schiena, in modo da impedirgli di vedere il mio foglio, e continuai nel mio lavoro che non era agevole. Si trattava di pesare ogni parola, affinché trasferisse il massimo di informazione all’improbabile destinatario, ed insieme non apparisse sospetta al probabile censore. Il fatto di scrivere in tedesco accresceva la difficoltà: il tedesco lo avevo imparato nel Lager, e riproduceva, senza che io lo immaginassi, il gergo volgare e povero delle caserme. Ignoravo molti termini, in specie proprio quelli che occorrono per esprimere i sentimenti. Mi sentivo inetto come se quella lettera avessi dovuto scalpellarla sulla pietra.
Il vicino attese con pazienza che io avessi finito, poi mi disse qualcosa in una lingua che non comprendevo. Gli chiesi in tedesco che cosa voleva, e lui mi mostrò il modulo, che era bianco, e indicò il mio coperto di scrittura: mi chiedeva insomma di scrivere per lui. Doveva aver capito che io ero italiano, ed a chiarire meglio la sua richiesta mi fece un discorso arruffato in un linguaggio sommario che in effetti era più spagnolo che italiano. Non solo non sapeva scrivere in tedesco, non sapeva scrivere affatto. Era uno zingaro, era nato in Spagna, e aveva girato la Germania, Austria e i Balcani per cadere in Ungheria nella rete dei nazisti. Si presentò compitamente: Grigo, si chiamava Grigo, aveva diciannove anni, e mi pregava di scrivere alla sua fidanzata. Mi avrebbe compensato. Con che cosa? Con un dono, rispose lui senza precisare. Io gli chiesi del pane: mezza razione, mi sembra- va un prezzo equo. Oggi mi vergogno un poco di questa mia richiesta, ma devo ricordare al lettore (ed a me stesso) che il galateo di Auschwitz era diverso dal nostro, e inoltre Grigo, essendo arrivato da poco, era meno affamato di me. Infatti, accettò. Io tesi la mano verso il suo modulo, ma lui lo ritirò, e mi porse invece un altro brandello di carta: era una lettera importante, era meglio stendere una minuta. Incominciò a dettarmi l’indirizzo della ragaz- za. Doveva aver colto un moto di curiosità, o forse d’invidia, nei miei occhi, perché cavò dal petto una fotografia e me la mostrò con orgoglio: era quasi una bambina, dagli occhi ridenti, con accanto un gattino bianco. La mia stima per lo zingaro crebbe, non era facile entrare in un lager nascondendo una fotografia. Grigo, quasi che occorresse giustificarsi, mi precisò che non l’aveva scelta lui, bensì suo padre. Era una fidanzata ufficiale, non una ragazza rapita alla maniera spiccia.
La lettera che mi dettò era una complicata lettera d’amore e di dettagli domestici. Conteneva domande il cui senso mi sfuggiva, e notizie sul Lager che consigliai a Grigo di omettere perché troppo compromettenti. Grigo insistette su un punto: volle annunciare alla ragazza che lui avrebbe mandato una «mugneca». Una mugneca? Sì, una bambola, mi spiegò Grigo del suo meglio. La faccenda mi imbarazzava per due motivi, perché non sapevo come si dice «bambola» in tedesco, e perché non riuscivo ad immaginare per quale motivo, e in che modo, Grigo volesse o dovesse impegnarsi in questa operazione pericolosa e insensata. Mi sembrava doveroso spiegargli tutto questo: avevo più esperienza di lui, e mi pareva che la mia condizione di scrivano mi conferisse qualche obbligo.
Grigo mi regalò un sorriso disarmante, un sorriso da «nuovo», ma non mi spiegò molto, non so se per incapacità, o per l’attrito linguistico, o per volontà precisa. Mi disse che la bambola doveva mandarla assolutamente. Che trovarla non era un problema: l’avrebbe fab-
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bricata sul posto, e mi mostrò un bel coltellino a serramanico: no, questo Grigo non doveva essere uno sprovveduto, ancora una volta fui costretto ad ammirarlo. Doveva essere stato ben sveglio all’ingresso in Lager, quando ti tolgono tutto quanto hai addosso, perfino il fazzoletto ed i capelli. Forse lui non se ne rendeva conto, ma un coltello come il suo valeva almeno cinque razioni di pane.
Mi chiese di indicargli se da qualche parte c’era un albero da cui si potesse tagliare un ramo, perché era meglio se la bambola fosse stata fatta da «de madera viva», con legno vivo. Cercai ancora di dissuaderlo scendendo sul suo terreno: alberi non ce n’erano, e del resto mandare alla ragazza una bambola fatta con il legno di Auschwitz non era come chiamarla qui? Ma Grigo alzò le sopracciglia con aria misteriosa, si toccò il naso con l’indice e mi disse che caso mai era tutto il contrario: la bambola avrebbe chiamato fuori lui, la ragazza sapeva come fare. Quando la lettera fu finita, Grigo cavò fuori una razione di pane e me la porse insieme con il coltellino. Era usanza, anzi legge non scritta, che in tutti i pagamenti a base di pane fosse uno dei contraenti a tagliare il pane e l’altro a scegliere, poiché così il tagliatore era indotto a fare porzioni il più possibile uguali. Mi stupii che Grigo già cono- scesse la regola, ma poi pensai che essa era forse in vigore anche fuori dal Lager, nel mondo a me sconosciuto da cui Grigo proveniva. Tagliai, e lui mi lodò cavallerescamente: che le due mezze razioni fossero identiche era suo danno, ma avevo tagliato bene, niente da dire.
Mi ringraziò, e non lo rividi mai più. Non occorre aggiungere che nessuna delle lettere che scrivemmo quel giorno giunse mai a destinazione.
La Resistenza a Birkenau
La rivolta nello Zigeunerlager 15 maggio 1944
Il comando del campo di concentramento di Auschwitz decide di liquidare nel giorno seguente gli internati nel campo per famiglie zingare BIIe, nel quale si trovavano 6000 uomini, donne e bambini. L’allora Lagerfuhrer (capo del settore) del campo BIIe, Paul Bonigut, che si oppone a questa decisione, dà di nascosto la notizia agli zingari, confi- dando, con ciò, che essi non si consegnino vivi.
16 maggio 1944
Verso le 19, nel campo per famiglie zingare BIIe di Birkenau è ordinata la lagersper-
re (chiusura). Davanti al campo si fermano alcuni autocarri dai quali scendono le SS
armate con fucili mitragliatori e lo circondano. Il comandante dell’operazione ordina agli zingari di abbandonare gli alloggi. Dato che sono stati avvisati, gli zingari armati di coltelli, vanghe, leve di ferro e pietre, non lasciano le baracche. Sorpresi, i militi delle SS si recano dal comandante dell’operazione che si trova nella camerata dei capiblocco. Dopo una consultazione, con un fischio, viene dato alle SS delle squadre di scorta, che hanno circondato le baracche, il segnale di ritirarsi dalle loro postazioni. Le SS lasciano il campo BIIe, il primo tentativo di liquidare gli zingari è fallito76.
76 Testimonianza di Tadeusz Joakimoski, in D. Czech, Kalendarium. Gli avvenimenti del campo di Auschwitz
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Tadeusz Joachimowski 77
All’ingresso del blocco 13 dell’ex campo di concentramento di Auschwitz 1 si trovano due volumi blu in una teca trasparente. Le scale che si inerpicano verso il primo piano portano all’esposizione che racconta, attraverso foto dell’epoca, documenti e storie indi- viduali, lo sterminio nazista di sinti e rom.
Avviata fin dal 1933 con pratiche di sterilizzazione forzata, la persecuzione di questo gruppo proseguita con le misurazioni antropometriche e con la prigionia nei campi di concentramento fino al dicembre 1942, quando un ultimo decreto firmato da Heinrich Himmler indicava che il luogo della soluzione finale della “questione zingari” doveva essere il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Dal febbraio del 1943, ai convogli che trasportavano i deportati delle comunità ebraiche di tutta Europa, si aggiunsero i vagoni che trasportavano zingari, segnati, secondo le teorie razziali naziste, da un’aso- cialità ed un istinto al nomadismo ereditari e dunque estirpabili soltanto con la morte. A Birkenau, coloro che avevano sul braccio la matricola con l’iniziale Z (zingaro), erano imprigionati nel settore del campo BIIe, chiamato anche il campo degli zingari, all’inter- no del quale si trovava il laboratorio di Josef Mengele.
Tadeusz Joachimowski (matricola 3720), sopravvissuto polacco ad Auschwitz, era il prigioniero incaricato di segnare su due libri gli ingressi di sinti e rom in quel luogo: su un libro le donne e sull’altro gli uomini; nell’istante in cui avveniva la registrazione, quelle persone perdevano definitivamente la propria identità diventando un numero. Sono stati 23mila i prigionieri sinti e rom di Auschwitz il cui nome stato trascritto è stato trascritto su quei volumi tra il febbraio 1943 ed il 2 agosto 1944. La notte tra l’1 ed il 2 agosto, la zona BIIe di Birkenau fu totalmente liquidata e attraverso le fiamme del crema- torio scomparvero le ultime migliaia di rom e sinti presenti nel lager. Dall’agosto del 1944 nessuno ebbe più modo di conoscere il nome dei sinti e rom uccisi in quel campo. La guerra si concluse e con la sconfitta del nazismo anche per Auschwitz iniziava il percor- so che lo avrebbe reso il luogo di memoria simbolicamente più richiamato e conosciuto.
Il 13 gennaio 1949, Tadeusz Joachimowski, il prigioniero che aveva registrato migliaia di nomi e numeri, torna nel luogo della sua prigionia ed indica con sicurezza il posto in cui, nell’estate del 1944, insieme ai compagni di prigionia Irenuesz Pietrzyk (matricola 1761) ed Eryk Porebski (matricola 5805), aveva sotterrato un vecchio secchio di latta con dentro il libro mastro dello Zigeunerlager (campo degli zingari) di Birkenau avvolto in degli stracci, prima che quell’area del campo di sterminio fosse totalmente liquidata: lo scavo avvenne nei pressi della baracca 31 ed il secchio tornò alla luce insieme a quelle pagine dense di nomi e di storie interrotte.
Oggi quel libro, ristampato e diviso in due trovato espressione con la copertina blu, accoglie i visitatori del blocco 13 di Auschwitz 1 e riconsegna simbolicamente ad ognuno di noi, prima di salire le scale che portano verso la mostra, quei 23mila nomi di uomini e donne che hanno smesso di essere numeri. La storia, ha testimoniato un giorno Tadeusz di fronte ad alcuni studenti, è sempre questione di scelte personali e di coraggio.
77 Tratto dal racconto di L. Bravi, Tadeusz Joakimoski, custode dei nomi del campo degli zingari, Treno della
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I testimoni ebrei italiani raccontano la notte dello sterminio dello Zigeunerlager di Birkenau
Luigi Sagi 78
Dopo un giorno nella quarantena fummo trasferiti nel settore del campo B di Birkenau, vicino al campo degli zingari. Ci accorgevamo che vicino c’era questo campo, all’inizio non sapevamo chi fossero, famiglie intere, gente che passeggiava, che discorreva, i ragaz- zi giocavano, ci sembrava strano, poi venimmo a sapere che era il campo degli zingari.
Himmler, verso la fine di luglio, diede ordine di sterminare il campo e questo avven- ne la notte del 2 agosto, che ora fosse non lo sappiamo, perché noi quando ritornavamo eravamo già stanchi morti, con due ore di appello, appena mangiato, noi ci mettevamo in cuccetta e dormivamo. Fummo svegliati da un brusio, ma soprattutto dai rumori dei camion, anche dal latrato dei cani, un brusio non grida, niente e questo non so quanto durò, sarà durato dieci minuti, mezz’ora, non lo so esattamente. E poi improvvisamente urla, pianti, grida in tedesco delle SS, il latrato dei cani. Insomma, era arrivato l’ordine di sterminare tutto il campo degli zingari, a questi era stato detto che sarebbero stati trasferiti in un altro campo, solo che, arrivati all’uscita, anziché girare a destra, che era la direzione verso o Auschwitz 1 o la stazione, li incolonnarono verso sinistra, e verso sinistra c’era il crematorio 4 e il crematorio 5. Naturalmente questi si resero conto di che cosa gli spettava e potete immaginare…, adesso quanto durarono queste urla non ve lo saprei dire, però un’altra immagine che mi è proprio scolpita e, se chiudo gli occhi lo vedo ancora oggi… Il blocco dove noi eravamo ovviamente non aveva finestre, le nostre baracche erano stalle dell’esercito, stalle per 52 cavalli, finestre non ce n’erano, però c’era un lucernario piuttosto alto, ad un tratto cominciammo a vedere le lingue di fuoco e dovevano essere molte alte, perché noi eravamo abbastanza distanti dal crematorio numero 4, saranno stati circa 150, 200 metri, e per vedere le fiamme da quel lucernario le fiamme dovevano essere, io stimo, sui 10 metri se non di più. E questo andò avanti tutta la notte. La mattina presto ancora prima dell’alba, naturalmente c’era sempre questo appello, si doveva correre nelle latrine, a lavarsi ecc., e mettersi in fila per l’appello che durava un’ora, un’ora e mezza e finito l’appello noi ci girammo e demmo uno sguardo a questo campo ed era una visione, per me, perlomeno, allucinante, vedere le baracche con le porte spalancate e un silenzio di tomba. Allora, veramente, quella mattina mi resi conto cos’era lo sterminio, eravamo in un campo di sterminio sapevamo che c’erano le camere a gas, ma vedere quell’immagine, non so se la gente riuscirà a capire questo, ma vedere quelle porte aperte e spalancate e non sentire una voce, noi sentivamo sempre i ragazzini, soprattutto quelli che gridavano e giocavano ecc., sentire quel silenzio asso- luto fu scioccante, quella notte furono sterminate 2.987 persone79… e noi non vedemmo
più gli zingari, non furono, perlomeno, avviati più ad Auschwitz.
78 Video testimonianza di Luigi Sagi, in Lo sterminio dei popoli zingari, documentario a cura di Andrea
Segre, 2000.
79 Dall’estate 2019, il museo di Auschwitz ha pubblicato uno studio aggiornato che riconteggia i morti nella
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Liana Millu 80
Eravamo in una baracca che era vicinissima ai crematori, oltre i crematori c’era un campo che si definì subito il campo degli zingari. E lì nella semi luce dell’alba si vede- va come una confusione, camminavano, camminavano senza sosta, avanti e indietro, avanti e indietro come fanno le bestie feroci che sono costrette in un piccolo spazio. Io vedevo, passando osservavo, vedevo queste donne che avevano i capelli lunghi, avevano i loro vestiti, nessuno si era occupato di inquadrarli nelle regole del campo. Io ricordo queste donne sedute per terra che si pettinavano con un gesto ossessivo, ripetuto, questi lunghi capelli pettinati e ripettinati. I bambini invece, c’erano dei bambini piccolissimi, camminavano, avranno avuto sui due anni e ce n’era uno che vedevo tutte le mattine ed era nudo, aveva addosso solamente un bolerino rosso sulle spalle e quando sentiva lo scalpiccio della gonna che passava, questo bambino con quei grandi occhi neri, perché era così magro che spiccavano soltanto quegli occhi, correva verso la rete.
Dormivo e mi svegliai, cioè mi svegliò un chiarore, mi voltai e guardai attraverso il vetro e vidi il cielo che era rosso come non l’avevo mai visto, perché c’erano dei giorni che i crematori bruciavano e le fiamme erano così alte che davano dei riverberi rossi intorno, però quella notte sembrava che tutto il cielo bruciasse, sembrava come un lago di fiamme. La mattina dopo passai davanti al campo, come al solito, e il campo era deserto, non c’era più nessuno, soltanto che in terra c’erano dei pezzi di legno scheggiati, c’erano dei lembi di stoffa e non c’era più il bambino, non c’erano più le donne che si pettinava- no, non c’era più nessuno.
Piero Terracina 81
Non so se sapete ma ho un’esperienza di deportazione ad Auschwitz Birkenau, voglio raccontarvi di questa storia, scusate se ho qualche cedimento per la commozione.
Io ero rinchiuso in quel lager quando ero un ragazzino, non avevo ancora 16 anni, e i riuscii a superare la selezione nell’arrivo ed entrai nel lager E di Birkenau. Birkenau era il campo della morte, quello era il Vernichtungslager, vernichtung significa sterminio, non è che si poteva morire ma si doveva morire. Ero rinchiuso in quel lager, erano tutti settori separati A, B, C, D, A, B, C poi c’era la strada nel mezzo e il lager D, dove eravamo noi condannati a morte, dall’altro lato c’era il lager E, che era denominato lo Zigeunerlager ovvero sia il lager degli zingari. Io mi ricordo perfettamente questo campo, era un lager completamente diverso dal nostro dov’eravamo noi condannati a morte e lo sapevamo, pensare che la vita media in quel lager era di 3 mesi, quella era la vita media.
Dall’altra parte c’era tanta vita, noi avevamo un colore quasi unico, eravamo vestiti con quella specie di pigiami a righe, dall’altra parte avevano conservato il loro abiti, quindi tanto colore, avevano conservato i capelli, noi eravamo completamente rasati a zero, c’era un’enormità, tantissimi bambini, molti di questi bambini certamente erano nati dentro quel recinto. I bambini davano vita, giocavano, si rincorrevano, certamente
80 Video testimonianza di Liana Millu, in Lo sterminio dei popoli zingari, documentario a cura di Andrea
Segre, 2000.
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avranno sofferto anche la fame, ma probabilmente i genitori si saranno privati di qual- che cosa per dare da mangiare ai loro figli. Quindi c’era tanto movimento, vivevano insieme tante famiglie al completo, uomini e donne, dove ci sono i bambini c’è vita, c’è futuro, c’è speranza. Io ricordo la notte del 2 agosto del 1944, io la ricordo e ogni volta che ne parlo, posso dire, ne parlo con sofferenza. Dimenticavo avevano conservato anche gli strumenti, facevano musica, cantavano, quindi era un campo pieno di vita, da noi soltanto morte dall’altra parte, separati soltanto dal filo spinato, c’era la vita. La notte del 2 agosto del 1944 io non posso dire che ho visto tutto, io sono un testimone, ma soltanto un testimone di quello che ho sentito: era notte, ero rinchiuso, la notte nel lager c’era il coprifuoco, non si poteva uscire dalle baracche, però ho sentito tutto quello che avveniva pochi metri di distanza, ripeto, eravamo separati soltanto dal filo spinato, dove passava la corrente ad alta tensione. In piena notte sentimmo l’arrivo di reparti tedeschi che cominciarono subito ad urlare, l’abbaiare dei cani, i tedeschi, le SS portava- no sempre un cane al guinzaglio. Dettero l’ordine di aprire le baracche e all’improvviso una confusione terribile, la gente che si chiamava, il pianto dei bambini che erano stati svegliati in piena notte, vi assicuro, era tutto un inferno, noi lo era sempre, ma lì arrivò l’inferno, arrivò anche là. Grida, pianti, una cosa che è durata un paio d’ore, poi addirit- tura qualche colpo di arma da fuoco, ritengo quindi che ci sia stata anche resistenza. Poi all’improvviso dopo più di due ore, silenzio, non si sentiva più niente. Da noi la sveglia era alle quattro e mezza del mattino, ricordo che quella mattina, la mattina del 2 agosto, poi, il primo pensiero fu quello di andare a dare uno sguardo al di là del filo spinato. Non c’era più nessuno, c’era solo silenzio, era un silenzio innaturale, un silenzio… un silenzio doloroso. Ci bastò dare un’occhiata ai camini dei forni crematori che andavano