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37voler andare a scuola, ma potenzialmente temere di essere portati via, era questo l’elemento

decisivo. Nella mia quotidianità, quasi sempre c’era la paura che costruiva una barriera verso l’esterno. La popolazione era ostile, ma a farci sempre una gran paura è stata la pubblica amministrazione a tutti i livelli. Sapevamo che un po’ le condizioni materiali, un po’ quelle igieniche, che facevano pensare a tutti che fossimo dei bacilli per l’esterno, potevano portare ad essere divisi dalla famiglia e portati via. Ecco la nostra percezione del pericolo costante, essere portati via: era qualcosa di concreto ed in parte era anche un racconto collettivo che aumentava il timore. Devo però ricordare che c’è sempre una violenza quotidiana concreta con cui abbiamo costantemente a che fare. Per noi c’erano state davvero le aggressioni da parte degli agenti. Vi faccio un esempio: in questi giorni è morto George Floyd negli Stati Uniti e quell’immagine dell’uomo della polizia con il piede sul suo collo mi ha fatto tornare alla mente mio zio, bloccato nella stessa posizione tanti anni fa. Fui io in quell’occasione a stratto- nare l’agente, perché non premesse sul collo di mio zio. Qui, poi, alla caserma dei carabinieri a Ponte di Brenta è successo che, circa trent’anni fa, un bambino rom di circa 10 anni di nome Tarzan è stato ucciso. Ci sono versioni discordanti, ma fatto sta che il bambino è stato colpito da una pallottola in testa, uscita dalla pistola di un uomo delle forze dell’ordine. In questi giorni sto rivedendo interviste fatte con altri rom ed ancora oggi ci sono racconti che riportano alle stesse sopraffazioni che abbiamo subito noi negli anni passati. Vedo che tante persone rom della mia generazione sono ancora terrorizzate dalle forze dell’ordine come lo sono stata anch’io. Quando venivano al campo per controlli, erano sempre tanti, in tenuta antisommossa e naturalmente tante volte era a notte fonda. Ci buttavano fuori dalle campíne e tende, così come eravamo, magari poco vestite. Immaginatevi le romnjá, le donne rom, messe fuori mezze nude, che colpo subivano al proprio senso del pudore.

Sento la necessità di aggiungere qualcosa anche sulla lingua. Poter parlare romanés ha molto a che fare con non perdere la memoria, perché la valorizzazione della lingua ha un ruolo fondamentale anche nella lotta all’antiziganismo. Molto spesso sento dire che i rom non hanno cultura, ma se si cominciasse a valorizzare la lingua, allora recupereremmo un messaggio importante, cioè che c’è un tratto culturale che passa proprio dal romanés. Lo dico perché ho raccolto la voce di persone che hanno subito violenze ed antiziganismo, Questa cosa è emersa con forza dalle interviste da me raccolte, in lingua romaní, nell’ambito del pro- getto Migrom, un progetto europeo sulle migrazioni dei rom dalla Romania, condotto con l’U- niversità di Verona. Le ho fatte raccontare in romanés ed ho visto occhi illuminarsi di nuovo e parlare fluentemente, trasmettendo finalmente le proprie sofferenze interiori, riuscendo ad esprimerle pienamente all’esterno.

Anche questi racconti sono memoria ed è segno di un rapporto conflittuale esistito ed esi- stente tra rom e non-rom, solo che tramite la memoria possiamo ricavare le chiavi di lettura per leggere questa condizione ed esplicitare che certi comportamenti di violenza inaccettabili, non possono essere accettati quando vengono rivolti ai rom. I figli di tanti rom che ho inter- vistato hanno subito fin da piccoli sottintese o evidenti violenze dall’esterno della comunità. Non possiamo pensare che questo non lasci un segno indelebile in questi bambini nella loro relazione con gli altri.

La mia storia finisce con la scelta di studiare a tutti i costi ed allora ho mollato tutto e tutti, a circa 18 anni, poi sono riuscita a diplomarmi e laurearmi in Storia ed in Servizio sociale e politiche sociali. A Venezia un giorno vidi un volantino in Università che informava di un corso su antropologia delle culture rom ed io pensai ingenuamente che si trattasse di un errore e che dovesse per forza essere un corso su Roma. Come poteva essere che qualcuno portasse il tema dei rom in un ateneo italiano? Alla fine, decisi di andarci ed è lì che conobbi Leonardo Piasere, il professore che teneva il corso che era effettivamente dedicato alle culture dei rom. Non dissi nulla della mia appartenenza, fu lui ad accorgersene dal mio cognome, glielo con-

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fermai solo più avanti. È stato un momento decisivo per il mio percorso di consapevolezza, ora quel corso a Venezia non c’è più. Peccato, sarebbe stato un tassello molto importante per la lotta all’antiziganismo.

Chi sarà a raccontare?

Kohrakhané

[…] «Čivava šero po tute i kerava

jek sano ot mori i taha jek jag kon kašta vašu ti baro nebo avi ker.

kon ovla so mutavla? kon ovla?

ovla kon aščovi me ğava palan ladi me ğava

palan bura ot krojuti»

Kohrakhané

[…] «Poserò la testa sulla tua spalla

e farò un sogno di mare e domani un fuoco di legna perché l’aria azzurra diventi casa.

chi sarà a raccontare? chi sarà?

sarà chi rimane io seguirò questo migrare

seguirò questa corrente di ali».

Suona così, in lingua italiana, quella parte in romanés che tradussi per Fabrizio De André, nella canzone Khorakhané nel suo ultimo album, Anime salve, dedicata ad uno dei gruppi più poveri di rom dei Balcani. Anche qui ci sono espresse domande sul senso della storia e della memoria. È una storia che non vorrei restasse solo un simbolo, ma che diventasse stimolo per andare oltre.

Per la mia famiglia non può restare un simbolo, perché è dentro la nostra storia: mio nonno, deportato in Germania, non è rientrato, mentre altri della famiglia sono finiti ad Auschwitz, poi a Dachau e Buchenwald.

Mi chiamo Giorgio Bezzecchi e sono il presidente della cooperativa Romano Drom di Milano, attivista per i diritti umani ed in particolare esperto sulle questioni relative a rom e sinti, con il ruolo di mediatore culturale.

Se parliamo di deportazione, mi viene subito in mente che la mia famiglia subì l’arresto in Slovenia e che fu internata nel campo di concentramento fascista di Tossicia, in provincia di Teramo, attivo tra il 1940 ed il 1943. In quel tempo la nostra identità era diversa, ci chiama- vamo Hudorovic, poi la nostra permanenza in Italia ci ha permesso di acquisire il cognome Bezzecchi. Questo rende molto complicata anche la ricostruzione, perché per i passaggi di confine e per non essere rintracciati da nazisti e fascisti utilizzavamo cognomi differenti, tra questi c’era anche Brajdic, ad esempio.

Brajdic si chiamava anche mia zia Vilma che fu deportata nel 1944, raccontava di essere stata inviata ad Auschwitz e risulta certamente nelle liste degli internati di Dachau. Suo mari- to era Giuseppe Levakovic, rom della zona dell’Istria che si unì ai partigiani della Osoppo, dopo essere stato deportato anche lui a Tossicia, erano gli anni tra il 1943 ed il 1944.

Mio padre si chiama Mirko, all’anagrafe è Goffredo, oggi il cognome è Bezzecchi. Come avete capito, anche lui, nato a Postumia nel 1939 quando quella zona era italiana, è stato depor- tato a Tossicia e il suo ricordo più profondo è il pianto di sua madre in quel luogo. Ricordare questi elementi nella cultura rom non è semplice: i sopravvissuti si ricordano, ma non i morti, perché i defunti affrontano un momento di passaggio che prevede che non si richiamino al dolore.

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