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47significa che prima o poi tu ritorni dai tuoi genitori, e se anch’io non sono tornata dalla mia

famiglia è perché, evidentemente, i servizi sociali hanno fallito. Perché prima dovresti aiutare la famiglia d’origine per fare sì che quel minore rientri a far parte di quel nucleo familiare, invece non è mai successo questo. Ho però avuto la fortuna di avere due famiglie che si sono unite. Quando io decisi di battezzarmi a 8 anni, mia madre Caterina chiamò il prete dicen- dogli che voleva fare un consiglio di famiglia fra la famiglia affidataria e quella d’origine, per parlarne tutti assieme e trovare la soluzione, mio padre disse di sì. Festeggiammo tutti assie- me il battesimo, ma non solo quella volta, anche molte feste di Natale le abbiamo trascorse assieme, la famiglia gagi con quella rom. In un container di 20 metri quadri con mia mamma

gagi, mio padre gagio, tutti i miei fratelli gagi assieme a tutta l’altra famiglia rom: era un gran

casino, ma alla fine ci siamo riusciti, ci scambiavamo regali.

Al liceo e anche prima, sono sempre stata una bambina molto brava mi piaceva tanto studia- re. Ho fatto l’alberghiero e avevo una classe tremenda, dove s’inneggiava contro gli immigrati: ero molto brava a scuola, con voti molto alti ed una media del 9, ma ero molto polemica, avevo 6 in condotta, perché quando questi si scatenavano, io salivo sul banco per contrastarli. Io avevo fatto amicizia con Giorgia, una ragazza del liceo con la quale passai circa tre anni, ci si frequentava, veniva a casa mia, si era instaurato un rapporto di amicizia. Sta di fatto che un giorno si arrabbiò con me, mi accusò di averla esclusa in classe, e mi gridò nel corridoio: «oh perché non te ne torni al campo», io molto elegantemente l’ho aspettata fuori scuola e l’ho menata, le ho proprio alzato le mani, l’ho presa per i capelli, le ho tirato un cazzotto, tutto quanto da sola, nessuno intervenne in quella situazione. Il giorno dopo lei andò dal preside, aveva tutti i segni, ora mi vergogno veramente a dire di questa cosa, ma mi fece scattare una cosa dentro che solo con la rabbia potevo reagire. Comunque, anche al liceo preferivo evitare il discorso sulle mie origini.

Tra le mie due famiglie c’è sempre stato un grande rispetto, ma è stato più un lavoro che ha fatto la famiglia affidataria, perché alla fine la famiglia rom era già aperta, non ha mai detto no: io oggi sono così perché mi hanno cresciuto entrambe le famiglie, era stato come se fosse una grande famiglia allargata.

Mi ricordo però che in quello stesso anno ci furono tantissimi affidamenti, in un campo eravamo già due o tre ad essere affidati in un singolo campo di Roma, soltanto che gli altri li hanno persi.

Oggi guardo a questa situazione, adesso che frequento Scienze dell’Educazione all’univer- sità e che ho studiato molti metodi pedagogici e penso che non deve mai essere possibile dire ad un altro genitore che è un genitore sbagliato, perché genitori non è che si nasce, ci si diventa, quindi io mi chiedo com’è che una mamma possa volere male al proprio figlio. È una mamma, l’ha fatto lei, l’ha partorito lei. Quindi non è tanto il fatto se sei rom o se sei italiano, la questione è come vivi e in che condizioni sei. Il fatto è questo, molto semplicemente: hanno preso delle persone, le hanno messe in condizioni pazzesche, fatte vivere in campi, ormai da venti e trent’anni in condizioni sociali difficilissime, spesso senz’acqua, senza lavoro, dove non hai rapporti con il resto della società, perché se li metti a 40 km dal centro è difficile cre- are relazione con il resto della società, non c’è un incontro. Quindi non è questione di essere o meno genitori, ma è il contesto sociale in cui sono stati messi, è facile togliere i figli così, allora bisognerebbe toglierli anche a quelli che abitano al Corviale, dove ci sono pesanti situazioni di disagio sociale, che si fa allora? Si tolgono i bambini che nascono al Corviale? Bisogna invece trovare un’alternativa a quelle condizioni. Perché sono le condizioni in cui uno vive. Mio fra- tello Feo è cresciuto nei campi, prima a Tor di Valle, poi è stato sgomberato ed è andato a Tor de’ Cenci, sgomberato Tor de’ Cenci è andato a Castel Romano, uno dei più grandi campi della Capitale, ha preso la casa popolare con i suoi quattro bambini ed è andato nella casa popolare. Ci ha messo sei mesi per uscire dal campo, ogni volta ci tornava, perché non riesci a farne a

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meno, torni, vai, vai e torni, adesso non ci mette piede da due anni ed accompagna ogni giorno alle 8.15 i suoi bambini a scuola. E invece al campo cosa succedeva? Ti viene lo scuola bus per accompagnarti il bambino a scuola? «Guarda che lo accompagno io il bambino a scuola. Non c’è bisogno che mi metti lo scuolabus, sono in grado di portare i miei bambini a scuola, se solo non mi metti a 40 km di distanza dalla scuola».

Il problema sta nel fatto che la società maggioritaria, un rapporto diverso con i rom non è che non lo vuole, ma che non lo immagina proprio. Spesso c’è la presunzione di considerare il proprio modello di vita quello più giusto. C’è l’idea di avere un modello giusto, mentre quello degli altri fa schifo. Come puoi instaurare un rapporto da queste premesse? La mia famiglia

gagi, quando ha stabilito un rapporto con i miei genitori affidatari, non è che ha stabilito il

rapporto solo con loro, ma con tutto il campo. Quando mia madre arrivava al campo con la Polo verde non è che le tiravano i sassi o veniva scortata dalla mia famiglia, ma veniva trattata benissimo, tuttora incontro i rom che vivono a Tor de’ Cenci che mi chiedono di mia mamma, di mio padre, perché fondamentalmente non era un rapporto che hanno instaurato con una sola famiglia, ma con l’intera comunità. Sono riusciti a creare una relazione rispettosa ciascu- no dell’altro.

Diventai zingaro all’ufficio nomadi

Mi sono sempre sentito e definito jugoslavo, sono nato a Jagodina e quindi oggi è nella Serbia centrale. Nella Seconda guerra mondiale, mia nonna Daniza ha perso il marito ed otto figli, oltre a due mie zie. La famiglia Stojanović è stata sterminata per il 90% dei suoi componenti. È la mia famiglia, io mi chiamo Vojislav Stojanović e sono un rom serbo che oggi vive a Torino. Dall’aprile del 1941 fino alla fine della guerra, la zona della Jugoslavia in cui abitava la mia famiglia, la città di Kragujevac, era sotto il controllo dei nazisti e dei collaborazionisti fascisti. Era una zona operaia che si organizzò per resistere e ribellarsi. Le prime vittime della ribellione furono il 21 ottobre 1941, quando furono uccise settemila persone da ustaša croati e nazisti tedeschi, erano maschi dall’età di 12 anni, considerati oppositori del regime. Il 22 otto- bre 1941, i bambini rom di due ghetti di quella zona non accettarono di prostrarsi ai nazisti pulendo loro gli stivali e così circa 300 bambini rom furono uccisi. Tra queste morti ci sono anche i miei familiari. Molti rom furono salvati da un farmacista, si chiamava Gogko, egli appese un cartello in tedesco di fronte ai tre ghetti della città sui quali c’era scritto: «pericolo di tifo». Questa storia del farmacista è diventata un avvenimento importante raccontata da sempre nella mia famiglia e nella mia città. Nella nostra memoria sono presenti soprattutto due campi di concentramento, uno a Belgrado di cui non ricordo il nome preciso, ma soprat- tutto l’altro in Croazia che era Jasenovac, controllato dagli ustaša fascisti di Ante Pavelic, è stato il terzo campo per grandezza in Europa.

In Jugoslavia, prima e dopo la guerra, siamo sempre stati un piccolo mondo: noi vivevamo a fianco di un macedone, noi eravamo rom, poi c’era un russo ed anche una famiglia serba. Non c’era alcun problema, solo più avanti, alla fine degli anni Ottanta, è cresciuto l’odio per le differenze, prendeva corpo il nazionalismo, che io non ho mai amato e credo di poter dire che nessun rom dovrebbe amare.

Nel 1983, mi sono laureato in ingegneria civile ed ho avuto una borsa di specializzazione per andare a studiare in Italia, a Torino. Sono partito con mia moglie e mio figlio. Le guerre in Jugoslavia le ho viste dall’Italia e le ho vissute con grande preoccupazione, perché era di nuovo il nazionalismo che si affermava contro tutte le minoranze. Lavoravo intanto come stagista, la paga era bassa, facevo il collaudatore di macchine di precisione, ma nel 1986 è finito il mio stage. In quel momento iniziarono i problemi, perché i parenti mi consiglia-

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